“Tutto in questa città è spettacolo, divertimento e voluttà” scriveva Goudar.
Il calendario veneziano era pieno di ricorrenze.
Si iniziava a Capodanno, quando il Doge si recava in San Marco ad adorare il Santissimo.
Il 3 gennaio c’era una gran parata nella piazza, con il Doge che incedeva in paramenti di seta e di velluto protetto da un parasole, preceduto dai trombettieri e seguito dal clero e dalla nobiltà in alta uniforme.
Le apparizioni del Doge si ripetevano per L’Epifania, per San Pietro Orsoleo, per la traslazione di San Marco, per l’Annunciazione.
Ma lo spettacolo più atteso era quello per lo Sposalizio del mare, che si celebrava il giorno della Sensa; stivata sulle gondole, tutta la città seguiva il leggendario Bucintoro con cui il doge attraversava la laguna.
Giunto all’imboccatura del porto di S. Niccolò di Lido, il Doge versava in mare un secchio d’acqua benedetta dal Patriarca e pronunciava una frase di rito: “ Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio.”
“In tutti i Paesi d’Europa la follia del Carnevale dura pochi giorni; qui se ne gode le stravaganze sei mesi all’anno” scriveva sempre Goudar.
Il Carnevale iniziava la prima domenica di ottobre.
Prendeva una pausa per cedere il passo alle festività natalizie e riprendeva fino alla Quaresima.
Dopo questa pausa i veneziani tornavano a divertirsi per la Fiera.
Tutti questi divertimenti e spettacoli erano necessari soprattutto per i nobili.
Il patriziato, infatti, non poteva frequentare locali pubblici, né mostrarsi con donne. Le dame non potevano andare in giro senza essere accompagnate da un valletto o dal cicisbeo di turno.
Il Carnevale liberava tutti da questi obblighi.
Con il tabarro, una cappa nera lunga fino ai piedi, e con la bautta, un fitto velo applicato sotto il tricorno che ricadeva sul viso coprendolo, ceti e sessi erano alla pari ed era regola che nessuno riconoscesse nessuno.
L’anonimato si prestava ad ogni tipo di tresca e di licenza.
Nei palazzi patrizi non poteva essere impedito l’accesso a chi si presentava mascherato e i plebei naturalmente ne approfittavano.
Sotto il velo della bautta, le monache potevano uscire dal chiostro e le dame entare nelle taverne.
“Si vedono donne di ogni ceto e condizione, sposate, nubili e vedove, frammischiarsi alle cortigiane, poiché la maschera rende tutti uguali, e non si danno impudicizie alle quali esse non si abbandonino con chi le desideri, giovani o vecchi” scriveva Pietro Giannone.
In questa promiscuita passavano saltellando i personaggi della “commedia dell’arte”: Mattaccino, Brighella, il dottor Balanzone, il Magnifico, Arlecchino.
E ognuno poteva essere ciò che voleva.
I pittori più rappresentativi furono Canaletto, Guardi, Longhi ma soprattutto Tiepolo che fu proprio l’emblema di questa Venezia gaudente trasmettendo alle sue opere una grande sensualità.
Venezia era diventata la Mecca della pittura.
Il governo aveva accordato a quest’arte una particolare protezione.
Aveva capito l’importanza del patrimonio artistico e fin dal XVII secolo lo aveva nazionalizzato vietando ai privati la vendita all’estero.
Nel Settecento questa proibizione divenne legge e così il patrimonio artistico veneziano fu salvo.
Un’altra arte molto incoraggiata era la musica all’inizio considerata come una specie di servizio di beneficenza.
I quattro grandi conservatori nacquero infatti alle dipendenze dei quattro grandi ospedali della città.
I musicisti e i cantanti che ottenevano un diploma dai conservatori veneziani venivano subito scritturati a scatola chiusa dai teatri francesi, inglesi e tedeschi.
A Venezia venivano a farsi consacrare grandi maestri, come Tartini, Porpora, Scarlatti.
La musica era diventata per la città una vera e propria passione; si suonava e si cantava ovunque.
Forse gli unici luoghi in cui suonare e cantare non si sentiva erano paradossalmente i teatri a causa del baccano che facevano gli spettatori.
La moglie di un ambasciatore veneziano a Parigi scriveva ad un’amica: “I teatri di qui sono molto differenti dai nostri.
Figuratevi che ci si va per stare zitti e ascoltare.”