STORIA VENETA

1600 – VENEZIA TRA FASTI E FESTE


Il controllo politico a Venezia, aveva provocato un allentamento in fatto di costumi, una reazione più che normale nei regimi polizieschi: i piaceri e i divertimenti compensano l’oppressione e aiutano a sopportarla.
“Tutto in questa città è spettacolo, divertimento e voluttà” scriveva Goudar.
Il calendario veneziano era pieno di ricorrenze.
Si iniziava a Capodanno, quando il Doge si recava in San Marco ad adorare il Santissimo.
Il 3 gennaio c’era una gran parata nella piazza, con il Doge che incedeva in paramenti di seta e di velluto protetto da un parasole, preceduto dai trombettieri e seguito dal clero e dalla nobiltà in alta uniforme.
Le apparizioni del Doge si ripetevano per L’Epifania, per San Pietro Orsoleo, per la traslazione di San Marco, per l’Annunciazione.
Ma lo spettacolo più atteso era quello per lo Sposalizio del mare, che si celebrava il giorno della Sensa; stivata sulle gondole, tutta la città seguiva il leggendario Bucintoro con cui il doge attraversava la laguna.
Giunto all’imboccatura del porto di S. Niccolò di Lido, il Doge versava in mare un secchio d’acqua benedetta dal Patriarca e pronunciava una frase di rito: “ Sposiamo te, mare nostro, in segno di vero e perpetuo dominio.”
“In tutti i Paesi d’Europa la follia del Carnevale dura pochi giorni; qui se ne gode le stravaganze sei mesi all’anno” scriveva sempre Goudar.
Il Carnevale iniziava la prima domenica di ottobre.
Prendeva una pausa per cedere il passo alle festività natalizie e riprendeva fino alla Quaresima.
Dopo questa pausa i veneziani tornavano a divertirsi per la Fiera.
Tutti questi divertimenti e spettacoli erano necessari soprattutto per i nobili.
Il patriziato, infatti, non poteva frequentare locali pubblici, né mostrarsi con donne. Le dame non potevano andare in giro senza essere accompagnate da un valletto o dal cicisbeo di turno.
Il Carnevale liberava tutti da questi obblighi.
Con il tabarro, una cappa nera lunga fino ai piedi, e con la bautta, un fitto velo applicato sotto il tricorno che ricadeva sul viso coprendolo, ceti e sessi erano alla pari ed era regola che nessuno riconoscesse nessuno.
L’anonimato si prestava ad ogni tipo di tresca e di licenza.
Nei palazzi patrizi non poteva essere impedito l’accesso a chi si presentava mascherato e i plebei naturalmente ne approfittavano.
Sotto il velo della bautta, le monache potevano uscire dal chiostro e le dame entare nelle taverne.
“Si vedono donne di ogni ceto e condizione, sposate, nubili e vedove, frammischiarsi alle cortigiane, poiché la maschera rende tutti uguali, e non si danno impudicizie alle quali esse non si abbandonino con chi le desideri, giovani o vecchi” scriveva Pietro Giannone.
In questa promiscuita passavano saltellando i personaggi della “commedia dell’arte”: Mattaccino, Brighella, il dottor Balanzone, il Magnifico, Arlecchino.
E ognuno poteva essere ciò che voleva.
Un riflesso di questi costumi lo si coglie anche nella pittura.
I pittori più rappresentativi furono Canaletto, Guardi, Longhi ma soprattutto Tiepolo che fu proprio l’emblema di questa Venezia gaudente trasmettendo alle sue opere una grande sensualità.
Venezia era diventata la Mecca della pittura.
Il governo aveva accordato a quest’arte una particolare protezione.
Aveva capito l’importanza del patrimonio artistico e fin dal XVII secolo lo aveva nazionalizzato vietando ai privati la vendita all’estero.
Nel Settecento questa proibizione divenne legge e così il patrimonio artistico veneziano fu salvo.
Un’altra arte molto incoraggiata era la musica all’inizio considerata come una specie di servizio di beneficenza.
I quattro grandi conservatori nacquero infatti alle dipendenze dei quattro grandi ospedali della città.
I musicisti e i cantanti che ottenevano un diploma dai conservatori veneziani venivano subito scritturati a scatola chiusa dai teatri francesi, inglesi e tedeschi.
A Venezia venivano a farsi consacrare grandi maestri, come Tartini, Porpora, Scarlatti.
La musica era diventata per la città una vera e propria passione; si suonava e si cantava ovunque.
Forse gli unici luoghi in cui suonare e cantare non si sentiva erano paradossalmente i teatri a causa del baccano che facevano gli spettatori.
La moglie di un ambasciatore veneziano a Parigi scriveva ad un’amica: “I teatri di qui sono molto differenti dai nostri.
Figuratevi che ci si va per stare zitti e ascoltare.”

1600 – LA SOCIETA’ VENEZIANA A QUEL TEMPO


Nel XVII e nel XVIII secolo, Venezia non era più la signora dei mari del Tre e del Quattrocento.
Tuttavia restava la città della penisola italica più brillante, la più cosmopolita e la meno condizionata dalla Spagna e dalla Chiesa.
Il Rinascimento, aveva lasciato la sua indelebile impronta sulla città mentre con il nuovo stile, il barocco, iniziava una nuova era.
I palazzi acquisirono una nuova maestà e magnificenza con facciate ed interni fastosi: ori, cristalli, tappeti, mosaici, arazzi li rendevano simili a regge; i soffitti erano un tripudio di affreschi ispirati a temi pagani e cristiani.
I mobili, con il nuovo stile, erano svolazzanti ed arzigogolati, tempestati di pietre e popolati di tralci, chimere, sfingi ed uccelli intagliati.
Un pizzico di esotismo non mancava, con lacche e porcellane provenienti da Cina e Giappone.
Lusso e ricchezza non erano solo nell’arredamento ma anche nell’abbigliamento.
All’epoca Venezia era ancora la Mecca dell’eleganza, con i migliori sarti, le lane più pregiate e le sete più fini e il guardaroba era la principale occupazione delle gentildonne veneziane.
L’abito più comune consisteva in un corpetto con gorgiera increspata, maniche a sbuffi, strette ai polsi e larghe alle spalle, rinforzato alla vita da stecche di balena, e in una gonna pieghettata tenuta larga da un guardinfante che metteva in risalto i fianchi e dava maestà alla figura femminile.
Il poeta Marino scrisse a proposito di questa veste che : “ la minor cosa era la donna”.
La dama veneziana si muoveva a piccoli passi e per fare un inchino era obbligata a spogliarsi.
Le calzature erano altrettanto assurde.
Quelle più di moda avevano la forma di zoccoli, alti e scoscesi come trampoli che richiedevano esercizi di equilibrismo.
La monaca Angela Tarabotti ne era addirittura entusiasta perché grazie ad esse, diceva, la donna veniva innalzata “dalle ordinarie bassezze”.
Fino a quasi tutto il Seicento, le veneziane non conoscevano altra calzatura che gli zoccoli: erano sandali di legno che fermavano il piede con una striscia di cuoio, le cui suole si poggiavano su due supporti alti tra i quindici e i venti centimentri.
Erano stati inventati al tempo in cui Venezia non era ancora lastricata ed era dunque piena di mota e di pozzanghere.
Ma anche dopo la pavimentazione, le veneziane rimasero fedeli a quella moda per puro capriccio.
Al museo civico sono conservati esemplari, uno di quarantatrè e un altro di cinquantuno centimetri.
Arrampicate su quei trampoli, le donne non potevano ovviamente uscire senza essere accompagnate da qualche servitore.
Solo sul finire del secolo le dame adottarono la scarpetta di marocchino, o di laminato d’argento, o di broccato d’oro.
Gli indumenti intimi erano fatti con tela di Fiandra e guarniti in maniera ricercata e civettuola, con pizzi, merletti, gioielli, pietre preziose e bottoni d’oro.
Le veneziane facevano uso di unguenti, cosmetici e profumi.
La toilette di una signora durava un’intera mattinata impegnando stuoli di cameriere e aveva il suo culmine nella confezione del neo, che costituiva il momento supremo del trucco.
Ogni neo aveva il suo significato e il suo nome: sul naso si chiamava sfrontato, all’angolo dell’occhio appassionato, sulle labbra galante, in mezzo alla fronte maestoso e all’angolo della bocca assassino.
Le unghie si portavano lunghissime e le chiome imponenti.
I parrucchieri utilizzavano posticci, trecce, riccioli, chignons, e si sbizzarrivano in acconciature barocche e stravaganti trasformando i capi delle signore in nidi di uccelli imbalsamati, grappoli di uva, cestini di frutta e mazzi di fiori.
Il tutto guarnito con pettini, spille e fermagli.
Un parrucchiere di Padova issò su una di queste acconciature, addirittura un parafulmine.
I gioielli erano anch’essi pomposi e massicci.
Accessorio indispensabile era il ventaglio: di seta, di pergamena, di carta, dipinto a mano e fregiato di perle e gemme, complice della galanteria di ogni dama.
Il guardaroba delle popolane era ovviamente ben diverso: pochi capi semplici e senza pretese e tuttavia decorosi.
Gli uomini non erano meno vanitosi.
Sotta la toga nera, la veste ufficiale di ogni patrizio, indossavano abiti eccentrici e variopinti di velluto e damasco ispirandosi a modelli spagnoli e francesi.
Le camicie di un gentiluomo erano di lino o di seta, le calze provenienti dall’Inghilterra e le scarpe strette, appuntite e infiocchettate.
Verso la fine del XVII secolo si diffuse l’utilizzo della giubba, del giustacuore, della calze di seta, delle scarpe con fibbia e del jabot.
I borghesi indossavano il tabarro fatto di seta o di panno, i popolani invece un paio di brache e una giubba.
Vi erano poi gli “zerbini”,una sorta di dandies, che passavano davanti allo specchio sedute non meno estenuanti di quelle di una dama.
Si incipriavano la chioma, si profumavano e si riempivano di gioielli assumendo pose ridicole, leziose e sdolcinate.
Contro il lusso eccessivo e dilagante la Repubblica emanava pene severe e multe contro chi vendeva stoffe e guarnizione troppo costose e verso chi importava poppe finte dalla Francia, un paese dove quest’industria era particolarmente fiorente.
Questi divieti venivano ignorati e intere fortune venivano dilapidate in occasione di cerimonie malgrado il governo condannasse ogni forma di sperpero anche per queste occasioni.
I padrini per un battesimo non dovevano essere più di dodici e non si doveva esagerare con i baldacchini.
Lo sfarzo che si sfoggiava durante la celebrazione di un matrimonio era principesco; il cerimoniale che precedeva uno sposalizio era costoso e complicato.
Il fidanzato doveva, per un certo numero di giorni e ad una certa ora, passare sotto la finestra della fidanzata e salutarla con un ampio gesto della mano.
In seguito veniva ricevuto dai futuri suoceri e donava alla promessa sposa un anello, detto “ricordino”.
Il giorno delle nozze la sposa andava a far visita ai genitori dello sposo e riceveva da loro la benedizione.
Il corteo nuziale, tra ali di folla festante, s’avviava verso la chiesa.
Al termine della cerimonia, veniva celebrato nella casa dello sposo un enorme banchetto cui seguiva un gran ballo.
Si mangiava e si beveva tra canti, danze e divertimenti per due giorni.
La grande passione dei veneziani era il teatro.
La stagione toccava il culmine nei mesi invernali, ma da luglio ad ottobre il teatro prendeva una pausa perché i nobili e i ricchi quel periodo solevano trascorrerlo nelle loro sontuose ville sparse sulle rive del Brenta, in uno scenerario di incoparabile bellezza.
Queste famose ville venivano progettate e decorate da famosi architetti, scultori e pittori ed erano dei veri e propri paradisi terrestri con giardini ricchi di statue, cascate e fontane.
Ma erano delle ville e basta.
Non avevano l’operosità della cascina lombarda e della fattoria toscana con i loro magazzini e cantine.
I nobili della Serenissima avevano investito i loro capitali in terre all’interno della laguna senza però importarvi nessuno spirito imprenditoriale perché di terre non si erano mai intesi.
Nei viali delle loro splendide ville il patrizio veneziano passeggiava con i suoi pari parlando non di agricoltura ma di Stato; di terra non si interessava.
L’aveva comprata per investire e veniva a passarci qualche mese all’anno senza occuparsi della sua gestione.
La dava poi in appalto a degli affittuari che gli garantivano una certa rendita e che a loro volta se ne rivalevano sui salari dei braccianti.
La vita dei patrizi veneziani non era meno sfarzosa delle ville che abitavano.
Le feste si susseguivano e a i balli e ai banchetti si alternavano gite in campagna, battute di caccia, partite a carte e giochi di società; ma il momento più solenne era quello del caffè, servito alle cinque del pomeriggio.
Di questa bevanda a Venezia se ne faceva un tale uso che il suo acquisto assorbiva una buona parte del budget domestico.

1588 – ANTONIO DA PONTE

Antonio Da Ponte (1512 – Venezia, 20 marzo 1597) è stato uno scultore e architetto della Serenissima Repubblica di Venezia.Risultati immagini per antonio da ponte
È conosciuto principalmente per aver seguito la ricostruzione del ponte di Rialto a Venezia, iniziata nel 1588 e conclusa nel 1591, coordinandone anche la progettazione.
 
Figlio di un maestro Battista, secondo Tommaso Temanza era di origini veneziane, fratello di Paolo da Ponte, ingegnere del magistrato alle acque (il quale era vicentino), e fratellastro di Bernardino Contin.
A partire dagli anni settanta del XVI secolo, iniziò ad assumere cariche pubbliche per cui cominciò a soprintendere alle opere edilizie della città di Venezia.

All’interno di Palazzo Ducale eseguì nel 1575 la sala delle Quattro porte, anticamera d’onore per le sale della Signoria e del Senato, su progetto di Andrea Palladio. Tuttavia dopo l’incendio del 20 dicembre 1577 lavorò ancora al Palazzo Ducale. Il palazzo era stato molto danneggiato nelle sale del Collegio, dello Scrutinio, del Senato e quella del Maggior Consiglio, per cui vennero convocati i quindici maggiori architetti del tempo per proporre i progetti di rifacimento e, tra tutti quelli proposti, venne accettato il progetto di Da Ponte che restituì alle sale del palazzo l’aspetto precedente, mentre diresse anche i lavori di restauro delle arcate della loggia e dei portici che si affacciavano a ovest e a sud.

Seguì poi un nuovo lavoro presso l’arsenale nel 1579 per innalzare una tettoia, lunga oltre 316 m detta la “Tana o Casa del Canevo”. L’arsenale era il luogo dove venivano fabbricate le navi della Serenissima e in questa specifica tettoria venivano fabbricate le gomene.
Dal 1577 al 1592 collaborò con Palladio alla costruzione della chiesa del Redentore alla Giudecca, eseguita come voto per la cessazione della peste del 1576.
Tuttavia l’opera più importante seguì dopo: il ponte di Rialto.
La struttura originariamente era in legno, ma era collassata ripetutamente, per cui già si pensava a rifarlo in pietra e il primo progetto venne eseguito nel 1514 da fra’ Giovanni Giocondo per il rifacimento del mercato di Rialto. A partire dal 1554 vennero presentati altri progetti dagli architetti più famosi del tempo, ma solo alla fine del XVI il doge Pasquale Cicogna bandì un concorso.
Arrivarono proposte da architetti come Jacopo Sansovino, Andrea Palladio e Giacomo Barozzi da Vignola, ma tutti proposero un approccio classico con molti archi. Il concorso venne riproposto nel 1587 e vi parteciparono Vincenzo Scamozzi e il Da Ponte, ma ebbe la meglio il Da Ponte e il suo progetto venne scelto il 9 giugno 1588 perché propose una sola arcata.
L’opera venne compiuta nel 1591 grazie all’aiuto degli architetti Antonio e Tommaso Contin da Besso, oggi quartiere di Lugano, che erano suoi nipoti in quanto figli del genero Bernardino Contin. Con essi compì anche la costruzione delle Prigioni Nuove nel 1589.
Tratto da www.raixevenete.com

1577 – LA PESTE A VENEZIA


di Irene Marone (tratto da: clicca qui)
Curati dagli “avvoltoi”.
Quella che oggi è considerata una delle più tipiche maschere veneziane è in realtà una “tenuta” medica ideata durante la pestilenza del 1577 e largamente impiegata durante l'epidemia del 1630, che decimò un terzo della popolazione.
L'eqipaggiamanto constava di lunghi guanti, occhiali protettivi, stivaloni, una tunica cerata e una bacchetta usata per sollevare le coperte e gli abiti del malato.
La maschera conteneva un “filtro” di garza imbevuto di olii essenziali sulla bocca e conservava nel lungo becco erbe come rosmarino, aglio e ginepro, considerate efficaci nel tener lontano il morbo e alleviare il fetore che di solito regnava in casa di un appestato.
Il medico cronista
Alvise Zen, un medico impegnato in prima linea nel portare soccorso ai cittadini di Venezia, ci ha lasciato un resoconto molto dettagliato di come si svolsero i fatti.
Ecco cosa scrive al suo amico Monsieur d'Audreville qualche anno dopo la pestilenza a proposito dell'origine del contagio:
“Eccellentissimo monsieur d'Audreville, vi racconterò quei terribili giorni solo perché sono convinto che senza memoria non c'è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune.
E poiché, dopo l'orrore, quella vicenda si trasformò in una festa, anzi in una delle feste più amate dai Veneziani, mi è meno gravoso ricordarla.
Ma veniamo ai fatti.
Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste.
Il morbo veniva dall'Oriente e dunque tutte le strade del commercio, che era per Venezia la principale fonte di ricchezza, si trasformarono in vie di contagio.
Era il 1630.
Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi della Serenissima trasportarono anche la morte nera.”
Una metropoli moderna….
La Venezia del 17° secolo è una città con grande esperienza di carestie e calamità; vanta inoltre uno dei governi più “moderni” e illuminati d'Europa, all'avanguardia anche nelle norme igienico-sanitarie.
La Repubblica nomina tempestivamente delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese.
Viene imposto il coprifuoco: solo i militari e i medici sono autorizzati a circolare.
Questi ultimi, insieme al personale sanitario e ai detenuti impiegati come portantini, indossano segni distintivi, tra cui le maschere “a becco di avvoltoio,, che conferiscono un aspetto tetro e spaventoso.
I pazienti chiaramente contagiati vengono portati nel lazzaretto Vecchio, già utilizzato a tale scopo alla fine del '500, mentre chi è stato solo a contatto con gli appestati viene trattenuto 20 giorni a scopo cautelativo in una struttura appositamente allestita.
E' la prima volta che si assiste ad un tentativo di pre-diagnosi e profilassi della malattia.
Le ordinanze igieniche e alimentari erano così rigorose e restrittive che su una nave era stata issata una forca per giustiziare i trasgressori.
Nonostante il rigore delle ordinanze, l'efficienza delle strutture e la modernità dell'organizzazione dell'apparato sanitario, la peste annienta dodicimila persone il soli 17 mesi, 559 in un solo giorno, il 9 novembre, come annota il medico -cronista Zen.
Nessuno più voleva seppellire i cadaveri, che rimanevano ammonticchiati fuori dalle case o peggio gettati dalle finestre direttamente nei canali o nelle imbarcazioni.
Solo un grido rieccheggiava nella città deserta: "Chi gà morti in casa li buta zoso in barca".
Sulle strade cominciava a crescere l'erba, calcata solo da qualche ciarlatano che cercava di vendere inutili antidoti o da qualche frate invasato che, farneticando a gran voce, indicava come causa del morbo l'ira divina contro la liberalità e il vizio di casa a Venezia.
In questa situazione disperata, il doge Niccolò Contarini decretò che l'unica speranza per Venezia era sperare in una riconciliazione con la divinità: promise di edificare una chiesa “magnifica e con pompa” alla Madonna della Salute e di organizzare una sontuosa processione ogni 21 novembre, giorno della presentazione di Maria al Tempio.
Dopo queste dichiarazioni la peste miracolosamente si affievolì, ma ebbe una recrudescenza all' inizio del 1631.
Solo in autunno fu debellata del tutto.
Nel frattempo Contarini era morto e il nuovo doge, Francesco Erizzo, volle subito mantenere il voto: indisse un concorso per l'edificazione della Chiesa della Salute e nel frattempo fece erigere un ponte di barche e un tempio provvisorio in legno riccamente addobbato dove il governo e tutta la cittadinanza si recarono riconoscenti in processione.
Alla peste si deve la nascita della festa della Salute, una delle più magnifiche e caratteristiche di tutta l'età barocca.

1552.08.14 – FRA PAOLO SARPI


CHI E' STATO PAOLO SARPI?

(tratto da wikipedia: clicca qui )
Paolo Sarpi (Venezia, 14 agosto 1552 – Venezia, 15 gennaio 1623) è stato un religioso, teologo, storico e scienziato dell'Ordine dei Servi di Maria.
Teologo, astronomo, matematico, fisico, anatomista, letterato e polemista, fu tanto versato in molteplici campi dello scibile umano da essere definito da Girolamo Fabrici d'Acquapendente «Oracolo del secolo» Autore della celebre Istoria del Concilio tridentino, subito messa all'Indice, fu fermo oppositore della Chiesa cattolica, difendendo le prerogative della Repubblica veneziana, colpita da l'interdetto di Paolo V. 
Rifiutò di presentarsi di fronte all'Inquisizione romana che intendeva processarlo e subì un grave attentato che si sospettò essere stato organizzato dalla Curia romana, che negò tuttavia ogni responsabilità.
In quel tempo Sarpi ricevette la visita dell'ex-luterano ed erudito tedesco Kaspar Schoppe, molto intimo dei segreti affari della Curia romana, il quale gli confidò che «il papa, come gran prencipe, ha longhe le mani, e che per tenersi da lui gravemente offeso non poteva succedergli se non male, e che se sino a quell'ora avesse voluto farlo ammazzare, non gli mancavano mezzi.
Ma che il pensiero del papa era averlo vivo nelle mani e farlo levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi egli, quando volesse, di trattare la sua riconciliazione, e con qual onore avesse saputo desiderare; asserendo d'aver in carico anco molte trattazioni co' prencipi alemanni protestanti e la loro conversione».
Lo Schoppe, ambiguo provocatore, intendeva convincere il frate a mettersi nelle mani dell'Inquisizione come miglior partito che il Sarpi potesse prendere, tanto «parvero strane le due proposte di far ammazzare o prender vivo il padre», ma i disegni omicidi erano reali: il 5 ottobre 1607, «circa le 23 ore, ritornando il padre al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte facendo scorta e parte l'essecuzione, e restò l'innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch'entrava all'orecchia destra et usciva per apunto a quella vallicella ch'è tra il naso e la destra guancia, non avendo potuto l'assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l'osso, il quale restò piantato e molto storto». 
I sicari, fuggendo, trovarono rifugio nella casa del nunzio pontificio e la sera s'imbarcarono per Ravenna, da dove proseguirono per Ancona e di qui raggiunsero Roma.
Si conoscono i loro nomi: l'esecutore materiale dell'attentato fu Rodolfo Poma, già mercante veneziano, poi trasferitosi a Napoli e di qui a Roma, dove divenne intimo del cardinale segretario di Stato Scipione Borghese e dello stesso Paolo V.
Fu coadiuvato da tre uomini d'arme, tali Alessandro Parrasio, Giovanni da Firenze e Pasquale da Bitonto, mentre «la spia, o guida, fu un prete, Michiel Viti bergamasco, solito offiziare in Santa Trinità di Venezia, che non lasciò dubitare quanti mesi precedessero questo bel effetto prima che fosse mandato alla luce; poi che questo prete la quadragesima antecedente, sotto specie d'aver gusto delle predicazioni del padre maestro Fulgenzio, andava ogni mattina in convento de' servi alla porta del pulpito, che risponde alla parte di dentro, e cortesemente trattava con lui, ricercandolo anco di qualche dubbio di coscienza.
E continuò di poi sempre a salutarlo et anco andar in convento a visitarlo, parlandogli sempre di cose spettanti all'anima».
Il pugnale non aveva tuttavia leso organi vitali e il Sarpi riuscì a sopravvivere; il noto chirurgo Girolamo Fabrici d'Acquapendente, che l'operò, disse di non aver mai medicato una ferita più strana, rispondendo allora Sarpi con la famosa espressione: «eppure il mondo vuole che sia data stilo Romanae Curiae».
Le conseguenze furono la rottura della mascella e vistose cicatrici nel volto.
Il 27 ottobre 1607 il Senato, dichiarando il Sarpi «persona di prestante dottrina, di gran valore e virtù», gli concede una casa in piazza San Marco ove possa risiedere con il Micanzio e altri frati, e una sovvenzione affinché possa acquistare una barca e provvedere alla sua sicurezza personale. Sarpi rifiutò la casa ma si servì da allora di una barca che gli evitasse i pericolosi tragitti a piedi per le calli veneziane.
Poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1609, fu sventato un secondo attentato, ordito, sembra su mandato del cardinale Lanfranco Margotti, da due frati serviti, Giovanni Francesco da Perugia e Antonio da Viterbo, i quali, fatta una copia della chiave della camera di Sarpi, «volevano secretamente introdurre nel monasterio due o più sicarii e la notte trucidare l'innocente padre».
Ai primi giorni del 1623 si ammalò gravemente, e morì il 15 gennaio.
Secondo la versione ufficiale l'8 gennaio, sebbene sfinito, volle alzarsi per il mattutino, come al solito, e celebrare la Messa.
La mattina del 12 gennaio, fatto chiamare il priore del convento, lo pregò che lo raccomandasse alle preghiere dei confratelli e che gli portasse il Viatico.
Gli consegnò tutte le cose concesse a suo uso. Si fece vestire, si confessò e passò il resto del mattino facendosi leggere da fra Fulgenzio e da Fra Marco i Salmi e la Passione di Cristo narrata dagli Evangelisti.
Gli fu quindi amministrato dal priore, alla presenza della Comunità, il Viatico.
Il 14 mattina fu visitato dal medico che gli disse che aveva più poche ore di vita.
Egli, sorridendo, rispose: Sia benedetto Dio!
A me piace ciò che a Lui piace.
Col suo aiuto faremo bene anche quest'ultima azione (quella di morire).
Fu udito ripetere più volte, con soddisfazione: Orsù, andiamo dove Dio ci chiama!.
Secondo alcuni le sue ultime parole sarebbero state: Esto perpetua, riferendosi a Venezia (v. Bianchi-Giovini, 846, p. 340-344).
Esistono tuttavia altre versioni della sua morte che lo fanno apparire più vicino al culto protestante.
 

1523-1571 – MARCANTONIO BRAGADIN


Immagine5Marcantonio (o Marco Antonio) Bragadin (Venezia, 21 aprile 1523 – Famagosta, 17 agosto 1571) è stato un militare della Repubblica di Venezia; appartenente al corpo dei Fanti da Mar della Serenissima Repubblica di Venezia, ricoprì la carica di Governatore di Cipro e fu Capitano Generale di Famagosta, ricco porto sulla costa orientale dell'isola di Cipro.
Figlio di Marco e di Adriana Bembo, dopo una breve esperienza come avvocato nel 1543, Bragadin si diede alla carriera marinara e ricoprì diverse cariche militari sulle galee veneziane.
Tornato a Venezia ebbe vari incarichi presso le magistrature cittadine finché, nel 1560 e nel 1566, fu designato come governatore di galea, senza che si presentasse l'occasione per assumere il comando delle navi.
Nel 1569 fu eletto capitano del Regno di Cipro e raggiunse Famagosta, per assumere il governo civile dell'isola, in vista del probabile scontro con la flotta ottomana.
Nelle città più importanti l'introduzione dei cannoni rese necessaria la costruzione di mura secondo criteri scientifici affinché le stesse potessero resistere ai bombardamenti. Così anche a Famagosta Bragadin fece realizzare una serie di opere fortificate per munire di una solida difesa le mura del porto, fra cui il bastione Martinengo, eccellente esempio di fortificazione alla moderna, capace di fornire protezione alle mura da ambo i lati.
Il 1º luglio 1570 un primo contingente turco sbarcò nei pressi di Limassol ma venne respinto, ebbe invece successo il tentativo di gettare una testa di ponte nei pressi di Nicosia che permise lo sbarco, il 18 luglio, da circa 400 imbarcazioni, del grosso delle truppe.
L'esercito musulmano, al comando di Lala Kara Mustafa Pascià, arrivò così a contare tra le 70.000 e le 100.000 unità e 200 pezzi d'artiglieria.
Nicosia cadde in due soli mesi e la guarnigione fu massacrata.
La testa del luogotenente del regno, Niccolò Dandolo, fu fatta recapitare a Bragadin, che si apprestò alla difesa della città.
La Battaglia di Famagosta, un lungo assedio alla città, ebbe inizio nel settembre dello stesso anno e continuò per mesi, durante i quali le mura vennero bersagliate senza tregua dal tiro delle batterie nemiche.
A comandare la difesa di Famagosta si trovavano il provveditore Marcantonio Bragadin, coadiuvato da Lorenzo Tiepolo, capitano di Pafo, e il generale Astorre Baglioni.
Ai circa 6000 uomini della guarnigione veneta, si opponevano 200.000 armati, muniti di 1500 cannoni, appoggiati da circa 150 navi, che bloccavano l'afflusso di rifornimenti e rinforzi.
La resistenza degli assediati di Famagosta, andò al di là di ogni ottimistica previsione, data la disparità delle forze in campo, la scarsità degli aiuti dalla madre patria e la preparazione dell'esercito assediante, che proprio durante questo assedio sperimentò nuove tecniche di guerra.
L'intera cinta delle mura e la pianura esterna fu colmata di terra sino alla cima delle fortificazioni e un innumerevole serie di gallerie si dipanava verso le mura ed al di sotto di esse verso la città, al fine di porre cariche esplosive per aprirsi una breccia.
Nel luglio del 1571 l'esercito ottomano riuscì ad aprire una breccia nelle mura della città e si incuneò nella cinta fortificata ma fu respinto a caro prezzo.
Finiti i viveri e le munizioni, il 31 luglio Bragadin fu costretto a decretare la resa della città.
Gli storici discutono sul motivo del disimpegno della Serenissima rispetto alle promesse di inviare aiuti al Bragadin, da la Suda, sull'isola di Creta.
Probabilmente vi fu, tra i Veneziani, chi deliberatamente preferì risparmiare risorse militari per poterne avere il comando nell'imminente scontro che già si andava prospettando.
Nonostante il trattato di resa stabilisse che i militari superstiti potessero ritirarsi a Candia con i civili, il comandante turco Lala Kara Mustafa Pascià non osservò le condizioni pattuite.
Bragadin venne imprigionato a tradimento e mutilato al viso (gli vennero mozzate ambedue le orecchie e il naso), quindi rinchiuso per dodici giorni in una minuscola gabbia lasciata al sole, con pochissima acqua e cibo.
Al quarto giorno i Turchi gli proposero la libertà se si fosse convertito all'Islam, ma Bragadin rifiutò.
Il 17 agosto del 1571, tratto già quasi esanime dalla prigionia e con gravi ustioni sul corpo, fu appeso all'albero della propria nave e massacrato con oltre cento frustate, quindi costretto a portare in spalla per le strade di Famagosta una grande cesta piena di pietre e sabbia, finché non ebbe un collasso.
Fu quindi riportato sulla piazza principale della città incatenato a un'antica colonna e qui scuoiato vivo a partire dalla testa, anche se morì prima della fine della tortura.
Le sue membra squartate vennero distribuite tra i vari reparti dell'esercito e la pelle, riempita di paglia e ricucita, venne rivestita delle insegne militari e portata a cavallo di un bue in corteo per Famagosta.

Immagine3Il macabro trofeo, insieme alle teste del generale Alvise Martinengo, di Gianantonio Querini e del castellano Andrea Bragadin, venne issato sul pennone di una galea e portato a Costantinopoli.
14802122La pelle di Bragadin fu trafugata nel 1580 dall'arsenale di Costantinopoli da Girolamo Polidori, giovane marinaio veneziano; fu portata a Venezia e conservata nella chiesa di San Gregorio, poi in quella dei Santi Giovanni e Paolo, dove si trova ancora oggi.
 
(La Basilica dei SS. Giovanni e Paolo è considerata il Pantheon dei Dogi veneziani, ma conserva anche le spoglie, anzi  la pelle del Nobil Homo Marco Antonio Bragadin, Governatore di Famagosta  e Capitano Comandante di una legione di seimila uomini destinata alla difesa di quella città)

La fama del Bragadin si deve all'incredibile resistenza che seppe opporre all'esercito che lo assediò, dato il rapporto delle forze in campo, nonché all'orribile scempio cui fu sottoposto dopo la resa della sua città.
Dal punto di vista militare, la tenacia ed il protrarsi della resistenza degli assediati capitanati dal Bragadin richiese un ulteriore impiego di forze da parte turca e tenne impegnati gli assedianti per un lungo periodo, tanto che la Lega Santa ebbe il tempo di organizzare la flotta che poi sconfisse quella ottomana nella battaglia di Lepanto.
 
 

1508-1580 – ANDREA PALLADIO

Andrea nacque nel 1508 a Padova, nella Repubblica di Venezia, da una famiglia di umili origini: il padre Pietro, detto "della Gondola" era mugnaio e la madre Marta detta la Zota ("la zoppa") una donna di casa.
A 13 anni Andrea iniziò l'apprendistato di scalpellino a Padova presso Bartolomeo Cavazza per 18 mesi, e poi la famiglia si trasferì a Vicenza nel 1523.
Qui nel 1524 Andrea risulta già iscritto alla fraglia dei muratori: lavorò infatti – rimanendovi per una dozzina d'anni – nella bottega del costruttore Giovanni di Giacomo da Porlezza e dello scultore Girolamo Pittoni, con laboratorio in Pedemuro San Biagio, nella parte settentrionale di Vicenza.
Gioangiorgio TrissinoTra il 1535 e il 1538 avviene l'incontro fondamentale con il nobile vicentino Giangiorgio Trissino che cambierà radicalmente la sua attività.
Andrea conosce Trissino mentre lavora nel cantiere della sua villa suburbana di Cricoli.
Giangiorgio Trissino, poeta e umanista, lo prenderà sotto la sua protezione.
Sarà lui a conferirgli l'aulico soprannome di Palladio, lo guiderà nella sua formazione culturale e allo studio della cultura classica, conducendolo più volte a Roma.
In questi anni Palladio realizza le sue prime opere significative, fra cui la villa di Gerolamo Godi (1537) a Lonedo di Lugo di Vicenza.
Nel 1534 Andrea sposò Allegradonna, di cui non si sa quasi nulla, salvo che era orfana del falegname Marcantonio e lavorava presso la nobildonna Angela Poiana.
Questa le assegnò una magra dote: un letto, una trapunta, delle lenzuola, delle pezze di stoffa, che Andrea s'impegnò a rimborsare per metà in caso di morte della moglie senza figli.
Invece di figli ne misero al mondo almeno cinque: Leonida (morto in circostanze tragiche nel 1572), Marcantonio, Orazio, Zenobia e Silla.
Forse nel 1550 gli nacque un sesto figlio.
Marcantonio, iscritto alla fraglia dei lapicidi come "maestro" nel 1555, lavorò col padre fino al 1560, quando si trasferì a Venezia per entrare nella bottega dello scultore Alessandro Vittoria; rientrato a Vicenza alla fine degli anni ottanta, non viene nominato in documenti posteriori al 1600.
Orazio si laureò in giurisprudenza all'Università di Padova (1569); coinvolto in processi per eresia davanti al Sant'Uffizio, morì nel 1572, pochi mesi dopo il fratello Leonida: "con mio gravissimo e acerbissimo dolore […] la morte nello spatio di due mesi e mezzo, d'essi ambedue privo e sconsolato mi lasciò", scrive Palladio nel "Proemio" dell'edizione illustrata dei "Commentari di Giulio Cesare" (1575).
L'unica figlia femmina, Zenobia, andò sposa nel 1564 all'orafo Giambattista Della Fede e dal matrimonio nacquero almeno due figli.
Silla, il figlio più giovane di Andrea Palladio, studiò lettere a Padova senza laurearsi e dopo la scomparsa del padre seguì i lavori del Teatro Olimpico tentando, senza riuscirvi, di ristampare I quattro libri dell'architettura "ampliandoli d'altri edifici antichi e moderni".
Palladio morì nel 1580 a 71 anni, se non povero, godendo di una condizione economica assai modesta.
Le circostanze della sua morte rimangono sconosciute: non è nota né la causa, né il giorno preciso (nell'agosto del 1580, intorno al 19), né il luogo, che comunque la tradizione identifica con Maser, dove forse stava lavorando al tempietto di villa Barbaro.
I funerali furono celebrati senza clamore a Vicenza, dove l'architetto fu sepolto presso la chiesa di Santa Corona.
Nel 1844 fu realizzata una nuova tomba in una cappella a lui dedicata nel Cimitero Maggiore di Vicenza su progetto dell’architetto Bartolomeo Malacarne, grazie ad un lascito del conte Girolamo Egidio di Velo.
Il monumento funebre fu scolpito da Giuseppe De Fabris.
I pochi ritratti conosciuti di Palladio sono largamente ipotetici.
 
 
Orientamenti artistici e culturali
La formazione culturale di Andrea Palladio avvenne sotto la guida e tutela dell'umanista Gian Giorgio Trissino, probabilmente l’intellettuale più in vista in una città in cui l’artista più noto era, all’epoca, Valerio Belli, cesellatore, in rapporti con Michelangelo Buonarroti e Raffaello Sanzio, e la cui casa aveva tanto stupito il Vasari.
Gian Giorgio Trissino, nobile colto e raffinato, letterato studioso, architetto per diletto ristrutturò un palazzetto preesistente in una proprietà acquistata dalla famiglia agli inizi del Cinquecento non lontano dalla città di Vicenza: nel disegnare la facciata principale esposta a sud si richiamò alle soluzioni di Raffaello per Villa Madama, con una loggia a doppie arcate posta tra due torrette una delle quali preesistente: la torre a lato di un corpo composto da un portico con loggia al piano superiore è uno schema tipico dell’architettura vicentina quattrocentesca.
la Basilica Palladiana a VicenzaIl Trissino rompe con questa tradizione e, in adesione allo spirito umanistico e neoplatonico, compone gli spazi interni seguendo uno schema rigorosamente proporzionale e simmetrico, anticipando quel modello che diventerà poi un tratto significativo dell’organizzazione delle stanze in Palladio. Villa Capria detta LA ROTONDA
La tradizione vuole che tra le maestranze impiegate nei lavori vi fosse il giovane Andrea, notato dal Trissino per la sua abilità.
Da qui in poi la vita artistica del Palladio si dipana con una rarissima effervescenza ed una incredibile quantità di opere realizzate, prima fra tutte la Basilica Palladiana che segna la piazza principale di Vicenza, villa Capra detta la Rotonda a pochi chilometri il Teatro Olimpico a Vicenzadalla città, forse l'edificio palladiano più noto ed infine lo splendido Teatro Olimpico, primo esempio di teatro stabile coperto realizzato in epoca moderna nel mondo occidentale e ancor oggi capolavoro ineguagliato.
Il Palladio collaborò con Daniele Barbaro, patriarca di Aquileia, che stava traducendo dal latino e commentando il De architectura di Vitruvio, disegnando le illustrazioni per il trattato.
Daniele Barbaro, profondo studioso d'architettura antica, divenne mentore di Palladio dopo la morte di Trissino nel 1550.
Nel 1554 Palladio compì un viaggio a Roma con Barbaro (assieme anche a Giovanni Battista Maganza e Marco Thiene) per preparare la prima edizione e traduzione critica del trattato di Vitruvio, che venne stampata a Venezia nel 1556.
Grazie all'influenza dei Barbaro, Palladio iniziò lavorare a Venezia, soprattutto nell'architettura religiosa.
Nel 1570 fu nominato alla prestigiosa carica di Proto della Serenissima (architetto capo della Repubblica Veneta), subentrando a Jacopo Sansovino.
Nello stesso anno pubblicò a Venezia I quattro libri dell'architettura, il trattato a cui aveva lavorato fin da giovane e in cui viene illustrata la maggior parte delle sue opere.
I Quattro libri furono il più importante di numerosi testi che Palladio pubblicò nella seconda parte della sua vita, corredandoli delle proprie illustrazioni.
Nel 1574 diede alle stampe i Commentari di Cesare.
Alla sua morte nel 1580 buona parte delle architetture di Palladio erano solo parzialmente realizzate; alcuni cantieri (come quello per la Rotonda) furono proseguiti da Vincenzo Scamozzi, mentre altre opere (come Palazzo Chiericati) furono completate solo molti anni dopo, sulla base dei disegni pubblicati nei Quattro libri.
Palladio affronta il tema, dibattuto nel Cinquecento, del rapporto fra civiltà e natura e lo risolve "affermando il profondo senso naturale della civiltà, sostenendo che la suprema civiltà consiste nel raggiungere il perfetto accordo con la natura senza perciò rinunciare a quella coscienza della storia che è la sostanza stessa della civiltà". Questo "spiega l'enorme fortuna che il pensiero e l'opera del Palladio avranno nel Settecento, quando i filosofi dell'Illuminismo sosterranno il fondamento naturale della civiltà umana".
Sono infatti neopalladiani molti edifici costruiti nei neonati Stati Uniti d'America come la Casa Bianca ed il Campidoglio a Washington o certi edifici di Monticello in Virginia.
 
Con la risoluzione n. 259 del 6 dicembre 2010 il Congresso degli Stati Uniti d'America ha riconosciuto Palladio come padre dell'architettura americana.
 
la Casa Bianca - facciata sud
 la Casa Bianca - facciata nord
 
 
 

1500 – LO STATO VENETO E I POVERI

il Corpus Domini.
Senatori a braccetto con i mendicanti.
di Millo Bozzolan
1476470_10202621006037015_1855812381_nOggi va per la maggiore un motto: aboliamo lo stato, affidiamoci all’impresa privata che creerà ricchezza per tutti.
Mi pare che si cada da un estremo all’altro, per colpa dei tanti esempi di sperpero e ruberie che offre lo stato italiano.
Ma quello che accade da noi, non è la regola, per fortuna: ci sono tanti esempi di stato virtuosi, il cui apparato è al servizio della collettività, e non viceversa.
Succede in genere appena si varcano le frontiere, quindi direi che non è il caso di buttare il bambino con l’acqua sporca.
Immaginate cosa sarebbe l’Italia senza alcuna norma che tuteli i più deboli, dove se non si frenasse l’impresa privata, in poco tempo il sistema economico finirebbe in mano di pochi pirati che rastrellerebbero ogni ricchezza in regime di monopolio di fatto.
Noi veneti abbiamo l’esempio della Repubblica marciana, che era uno stato basato sui principi cristiani di solidarietà, e la carità verso i più deboli e gli ultimi, era incoraggiata in ogni maniera.
L’assistenza ai deboli era affidata alla chiesa, controllata capillarmente dallo stato nel suo operato, e si incoraggiavano le donazioni dei ricchi a favore di opere socialmente utili.
Si preferiva certamente che fosse il privato a coprire i costi, ma nei casi di emergenza interveniva lo stato stesso, con i propri mezzi.
Questo accadeva regolarmente nei periodi di carestia (distribuzione di derrate a prezzi calmierati o in maniera gratuita) o nelle epidemie, in cui venivano istituiti lazzaretti pubblici.
Anche incurabili, poveri e orfani erano ricoverati in appositi centri gestiti dallo stato.
Uno stato cristiano legittimava anche con questa attività caritatevole ed assistenziale, la sua esistenza.
E questa attività era un mix di pubblico e privato, dove lo stato cercava di coinvolgere in ogni maniera il cittadino più ricco (anche con esenzioni fiscali) nell’assistenza ai più poveri.
E per ricordare quale fosse il fine ultimo del potere, il giorno di Corpus Domini, in piazza San Marco in una solenne processione, ogni Senatore della repubblica, in pompa magna, si accompagnava a braccetto a un povero, a un malato, all’ultimo della terra.
Credo che questa fosse anche una grande lezione di umiltà per gli uomini più potenti dello Stato veneto.
Tratto da (CLICCA QUI)
 

g1496-1578 – SEBASTIANO VENIER – DOGE


Figlio di Mosè e Elena Donà anche se mercante,operò come avvocato fin da giovanissimo e in seguito divenne Amministratore del Governo della Repubblica di Venezia e Governatore di Candia ( l"attuale Creta ). Nel 1570 divenne Procuratore e nel Dicembre dello stesso anno fù nominato "Capitano General da Mar"della flotta Veneziana impegnata nella nuova guerra contro i Turchi ottomani.L"anno sucessivo nel 1571 fu uno dei protagonisti della battaglia di Lepanto che vide le forze della Lega Santa affliggere una definitiva sconfitta ai Turchi.
Nonostante avesse già 65 anni Venier prese parte ai combattimenti uccidendo numerosi turchi a colpi di balestra e fù ferito ad un piede con una freccia .
Egli calzava delle pantotofole invece che gli stivali perchè a parer suo facevano miglior presa sul ponte bagnato della nave.
Dopo la pace Venier torno a Venezia con l"aura di vincitore nel 1577 e pur all"età di 81 anni fu eletto Doge all"unanimità.
Sposò Cecilia Contarini.
Sebastiani Venier mori a Venezia nel 1578 pare per un infarto dovuto all"incendio che aveva gravemente danneggiato il Palazzo dei Dogi e fù sepolto nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo .
Da notare come sia possibile trovare una identica titolarità nella marina Turca ottomana di Qapudan-I Derya (Capitano del Mare)
tratto da: clicca qui

IL CONDOTTIERO CHE SBARAGLIO' I TURCHI
tratto da "I CAPITANI CORAGGIOSI": clicca qui
Ci sono uomini che trascorrono tutta una vita operosa ricoprendo importanti cariche pubbliche senza peraltro lasciare di sé una traccia ai posteri; altri, invece, dominano per anni, decenni la scena politica con alterne vicende, meritando gloria e vituperio insieme, intricato miscuglio di grandezza non priva d'infamia (Napoleone, per esempio).
C'è infine chi rimane nella storia per un unico episodio ma fondamentale, decisivo per il destino di popoli interi.
Quest'ultimo caso s'attaglia alla personalità di Sebastiano Venier, che volle e vinse la più grande battaglia navale dell'età della marina a remi.
In poche ore, dall'alba al tramonto del 7 ottobre 1571, a Lepanto, egli annientò la flotta di Alì Pascià impedendo che il Mediterraneo diventasse un lago turco; sfatando la leggenda, nata nel XVI secolo, dell'imbattibilità dell'Impero ottomano; salvando la Cristianità da un disastro irreparabile.
I quadri celebri rimasti a immortalarlo ce lo mostrano tutti in questa occasione, in età molto avanzata (73 anni), patriarca maestoso dalla lunga barba bianca, l'espressione sicura e serena del giusto.
Proveniva dai Venier (Venerii), famiglia patrizia veneziana, le cui prime tracce appaiono nell' XI secolo.
Famiglia che prima di lui aveva già dato alla Serenissima due dogi: Francesco (nel 1554) e più indietro ancora (1382) Antonio, famoso per la sua inflessibile dirittura morale: fece imprigionare fino alla morte il figlio Alvise, reo di aver ingiustamente offeso i membri di un nobile casato della Repubblica di S. Marco.
Sebastiano nacque nel 1496, primo figlio di Mosè Venier e di Elena Donà.
Crebbe alto, robusto, abile nel mestiere delle armi quanto nella conoscenza della cosa pubblica; forte nel fisico e nel morale.
Abituato alle spartane rinunce ma capace, all'occorrenza, di gustare la compagnia lieta, la buona tavola, le avventure galanti .
I suoi biografi « a posteriori » passano sotto silenzio le lunghe diatribe che ebbe con fidanzati e mariti traditi, la sua abilità nel sottrarsi ai legami duraturi.
Soltanto nell'età matura scelse una giovane e bella dama, Cecilia  Contarini, e la sposò a quarantotto anni, quando i suoi coetanei erano già padri da un pezzo, e magari nonni.
Proprio col matrimonio cominciò la sua brillante carriera pubblica.
Due anni dopo le nozze venne eletto duca di Candia, dove rimase sino al 1551. Divenne quindi capitano a Brescia, deputato alla definizione di vertenze confinarie nel Friuli, podestà a Verona.
Richiamato a Venezia, fu di seguito insediato « avogador di Comun », Savio grande, provveditore generale alle fortezze, procuratore di San Marco.
Dal marzo 1570 designato provveditore a Corfù e subito dopo provveditore generale di Cipro.
Dimostrò capacità, lungimiranza, spirito aggressivo nei confronti dei nemici della Serenissima.
La declinante Repubblica era decisa a conservare amichevoli rapporti con l'Impero ottomano, che si estendeva tra Africa, Asia ed Europa.
Impero immenso, creato da Solimano il Magnifico, che il 6 Settembre 1566 moriva a 71 anni combattendo, com'era vissuto.
Venezia, pur di conservare la libertà di commerci e i possedimenti nel Mediterraneo orientale versava alla Sublime Porta un tributo annuo di 8500 ducati.
Le interessava in particolare Cipro, centro vitale tra l'Europa e l'Asia, isola produttrice di metalli, vini e di una qualità di zucchero molto ricercata in tutto l'Occidente.
Cipro, a 2000 miglia dalla Laguna, circondata dai turchi, era peraltro molto difficile da tenere.
Per di più i successori di Solimano, temendo d'essere ingannati dalla neutralità di Venezia, inviarono un ambasciatore con questa intimazione: « Vi domandiamo Cipro, che ci darete per amore o per forza.
Guardatevi dall'irritare la nostra terribile spada, altrimenti muoveremo contro di voi guerra crudelissima in ogni parte; né confidate nella ricchezza del vostro tesoro, perché faremo in modo che esso vi sfugga di mano come torrente ».
Un linguaggio del genere non poteva essere tollerato; il Gran consiglio lo respinse e, preparandosi alla lotta, si rivolse al più esperto, al più risoluto dei suoi comandanti, appunto Sebastiano Venier.
Questi, alla vigilia dì compiere 75 anni, il 13 dicembre 1570 fu nominato « Capitano generale da mar » e senza indugio si mise all'opera riordinando l'armata, iniziando l'assedio di Durazzo.
Venier comprese subito che il nodo della vicenda andava districato con uno scontro decisivo in mare.
Preparò la sua arma segreta: sei super‑galere dette galeazze o maone che erano una via di mezzo tra la galea e i grandi vascelli a vela che si andavano costruendo in quel secolo, ma con un potenziale di fuoco del tutto insolito per le navi dell'epoca. Autentiche « fortezze galleggianti » con tre alberi, 23 remi per parte a ciascuno dei quali erano preposti 6 uomini, 70 pezzi d'artiglieria tra cui il cannone centrale di prua che lanciava una palla di ferro di quasi 40 chili.
Ai lati di ciascun banco di rematori, una petriera o bombarda che lanciava palle di pietra pesanti fino a 25 chili.
Intanto, per iniziativa principale di Pio V, si era creata la Lega sacra tra la Chiesa, Spagna, Venezia e alleati minori con lo scopo di perseguire « la rovina e la distruzione del Turco » (il trattato della potente coalizione anti‑ottomana fu firmato il 20 maggio 1571).
Il comando generale dei collegati toccò a don Giovanni d'Austria, il ventitreenne figlio naturale di Carlo V fratellastro di Filippo II.
Don Giovanni ebbe dei gravi contrasti con Venier circa la data e il luogo dell'attacco ai Turchi; il primo avrebbe voluto attendere un'occasione propizia, l'anziano comandante veneziano si battè, e la spuntò, per giungere allo scontro il più rapidamente possibile.
Inoltre alla vigilia della grande prova Venier fece impiccare un capitano e tre marinai al soldo della Spagna, colpevoli di aver ucciso alcuni veneziani: e don Giovanni lo minacciò di fargli fare la stessa fine.
Il 7 ottobre la più grande flotta mai schierata dalla Cristianità muove incontro alla flotta turca che aveva lasciato l'imboccatura di Lepanto, presso le Curzolari, nella zona di mare greco che divide il golfo di Patrasso dal golfo di Corinto. Le forze sono all'incirca pari.
La flotta turca, agli ordini di Mehmet Alì Pascià, comprende 222 galee e 60 galeotte, con 750 cannoni e 88.000 mila uomini.
La flotta cristiana è costituita da 202 galee, 6 galeazze, 30 navi minori; ha meno uomini (74.000) ma più cannoni (1815).
Venier comanda le 105 galee e le 6 galeazze veneziane.
Fa rimorchiare per prime incontro al nemico queste « fortezze galleggianti », che quando vengono affiancate dalle navi turche fanno tuonare le petriere delle fiancate improvvisamente, provocando squarci, devastazioni, morte.
I vascelli musulmani, benché scompigliati, proseguono la loro rotta verso la « Reale » di don Giovanni, che è affiancata dalle navi ammiraglie di Venier e del pontificio Marc' Antonio Colonna.
Sebastiano Venier, con accanto il giovane nipote Lorenzo, ha indossato una pesante corazza e calzato delle leggere « pianelle » per muoversi con maggiore agilità.
Partecipa direttamente al combattimento ravvicinato, lanciando palle di ferro con una balestra che un servente è pronto ogni volta a ricaricare li Capitano «generale da mar» è il fulcro della lotta con l'esempio e con gli ordini fulminei.
Accortosi che l'ammiraglia ottomana di Alì Pascià cerca di abbordare la « Reale » spagnola, la investe all'altezza dell'albero maestro.
 Divide i soldati per far fronte alle altre navi nemiche che cercano di circondarlo, ordina agli archibugieri di battere con un tiro fitto e preciso la galea del comandante turco.
Poi, l'arrembaggio.
I giannizzeri, per difendere la vita del loro capo, oppongono una disperata resistenza a poppa, dietro una barricata di Iegnami e materassi.
Venier spazza quest'ultima barriera facendo sparare un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene.
Mehmet Alì Pascià, ferito, viene catturato dai marinai, decapitato, e la sua testa issata su di una picca affinché tutti i vicini, amici e nemici, possano scorgere il macabro trofeo.
E' la fine per gli ottomani superstiti: chi cerca scampo nella fuga e chi s'arrende.
La battaglia, mentre scende il tramonto, è vinta.
Bilancio: tra i Turchi  8.000 morti, 10.000 prigionieri, 50 navi affondate e 117 catturate; tra gli alleati 15 galee e 7.500 uomini perduti, tra cui Agostino Barbarigo, che comandava l'ala sinistra cristiana (alla destra era il genovese Gian Andrea Doria).
Tra i cattolici feriti, un giovane volontario spagnolo, Miguel Cervantes, futuro autore del Don Chisciotte (perderà per sempre l'uso della mano sinistra).
Don Giovanni chiama accanto a sé il « leone di Venezia », lo abbraccia alla presenza delle truppe esultanti.
Sebastiano Venier, al ritorno, ebbe gli onori del trionfo.
La sua fama si propagò in tutto il mondo occidentale, suscitando le invidie della potentissima Spagna.
Il Senato fu costretto, per tacitare i grandi spagnoli, ad affiancargli un altro capitano generale, lacopo Foscarini.
L'episodio non impedì il più giusto dei riconoscimenti: Venier fu nominato doge (l' 86°) dall' 11 giugno 1577 al 3 marzo del 1578, giorno in cui morì.
Lasciò di sé una grande memoria.
Come uomo, i veneziani suoi contemporanei lo ricordarono per la affabilità bonaria, non disgiunta da un severo rispetto per le cariche ricoperte più che per le dignità che ne derivavano alla sua persona; e per il senso della giustizia, il fiero coraggio mai ostentato ma sempre presente nei momenti decisivi, l'amore per Venezia manifestato dall'attaccamento ai valori patriottici della Serenissima e alle sue tradizioni più antiche e schiettamente popolari.
Come comandante, il giudizio su di lui fu affidato specialmente ai posteri: i quali poterono valutare le sue eccezionali doti di ammiraglio, il dono di saper amalgare sotto la sua ferrea guida ciurme e capi di flotte diverse, espressioni di stati spesso divisi da rivalità politiche e da ambizioni di primato.
A Lepanto la cristianità prevalse sui turchi perché Venier seppe dare un senso unitario alla lotta e coinvolgere idealmente i combattenti, persuadendoli che si battevano sotto una sola bandiera.
Il resto lo fece la sua maestria di capitano di mare.
Fu sepolto a Murano, in Santa Maria degli Angeli, pianto dai marinai e dai soldati che egli aveva guidato alla più luminosa delle vittorie.
In epoca moderna (1907) le spoglie sono state traslate nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, accanto alla cappella del Rosario, eretta per perpetuare la memoria di Lepanto.
 

 
tratti dal profilo Facebook di Millo Bozzolan
 
L’ONORE DELLA PATRIA VENETA, difeso fino al sacrificio del proprio figlio.
Antonio Venier, Dux Venetorum.
Un esempio fulgido di moralità, spinta all’estremo, fino a sacrificare la vita del proprio figlio, ce lo offre il Doge Antonio Venier (1382-1400), che preferì fare morire in carcere il suo amatissimo erede, pur di non favorirlo con un provvedimento di clemenza.
Ecco quanto ci narra Pompeo Molmenti, nel suo volume “Le Dogaresse”: “Luigi Venier, figlio del Doge, aveva stretto una relazione con la moglie di un gentiluomo, tale Giovanni delle Boccole e, una notte, decise di dileggiarlo, attaccando sul ponte che prendeva il nome della famiglia del marito, un paio di corna e alcune scritte turpi e villane.
Dello sfregio codardo si conobbe l’autore, e l’offeso marito andò a lamentarse dal Doge, il quale ordinò che il figlio fosse posto subito in prigione.
Fu poi condannato a 100 lire di ammenda e a due mesi nei Pozzi.
Qui Luigi, preso da grave malattia, chiese di poter avere un poco di libertà onde rimettersi, ma il Doge inflessibile non volle accordarla, e il poveretto finì i suoi giorni in carcere. La rigida severità paterna non si lasciò vincere neppure dall’angoscia della madre.
Era nell’animo di tutti che la Patria e l’onore dovessero andare innanzi agli stessi affetti di famiglia….” Si può immaginare lo strazio dei genitori, ma Antonio Venier preferì questo macigno nel cuore, all’onta di essere accusato di usare la carica massima per fini personali.
Il peso di questa pietra sulla sua coscienza, sarebbe stato persino maggiore.
 
Proprio un esempio per i pubblici amministratori e politicanti di turno italioti.
 

1412 – L’AMBASCIATA VENETA A NAPOLI

Storia del Palazzo
10678798_776604459062710_3940958270068197305_nLa Casina Pompeiana e parte del giardino
Nel suo scritto “Un angolo di Napoli”, il filosofo Benedetto Croce, parlando di Palazzo Filomarino, ove egli abitava, fa ripetutamente cenno all’edificio confinante, chiamandolo “il napoletano palazzo di Venezia”.
Nonostante il richiamo crociano però l’esistenza di una sede veneziana a Napoli, è quasi del tutto sconosciuta offuscata com’è dalla notorietà del più famoso Palazzo Venezia di Roma.
Soltanto pochi mesi fa, nell’ ambito dell’importante manifestazione di “Maggio dei monumenti”, quella che era stata per circa quattrocento anni la sede dell’ambasciata veneta nel regno di Napoli è stata riaperta al pubblico.
Da molti anni, infatti, Palazzo Venezia, detto anche Palazzo di San Marco, era caduto in una sorta di oblio dovuto, per lo più, ai compilatori delle varie guide di Napoli che, probabilmente, avevano sottovalutato la rilevanza del sito; una paradossale “congiura del silenzio”, sorta spontaneamente ai danni di una costruzione dal passato tanto illustre.
Grazie però ad un gruppo di professionisti e studiosi napoletani, la prestigiosa sede dell’ambasciata veneta è ritornata a far sentire la sua voce.
Un impegno notevole, quindi, sia dal punto di vista organizzativo che finanziario; ma soprattutto un impegno a carattere totalmente privato.
Sicché due parole vanno senz’altro spese per ringraziare Gennaro Buccino e il suo staff che hanno reso possibile la ripresa e la rinascita della prestigiosa ambasciata veneta posta nel cuore di Napoli.
Gennaro Buccino, attualmente, è Presidente de l’INCANTO, la società che ha in gestione le attività di Palazzo Venezia; ma è anche un rappresentante delle migliori energie di questa città che tanto fatica a recuperare il suo prestigio.
Un uomo che, avendo nel cuore un sogno e in testa un progetto, in piena autonomia, ha scelto di impegnarsi per restituire alla città un gioiello storico da troppo tempo sottaciuto.
Uno spirito dinamico, dunque, autonomo e libero; una figura che sarebbe piaciuta a Benedetto Croce quando in Etica e Politica scriveva che la libertà : “non è fatta pei timidi e pei pigri, ma vuole interpretare le aspirazioni e le opere degli spiriti coraggiosi e pazienti, pungnaci e generosi, solleciti dell’avanzamento dell’umanità, consapevoli dei suoi travagli e della sua storia “.
Dunque, l’uomo e la cosa in un tutt’uno per una rinascita meritata.
Intanto perché il napoletano palazzo di Venezia è di almeno mezzo secolo più antico di quello romano – Il Palazzo Venezia di Roma fu costruito nel 1455 e fu ceduto dalla Chiesa alla Repubblica di Venezia nel 1564 -, poi perché attraverso di esso si possono ricostruire le vicende che, sin dal XII secolo, caratterizzarono la posizione politica e commerciale della Serenissima nell’Italia meridionale.
A ulteriore conferma dell’ importanza del sito, sta poi l’interesse per la sua storia che non era sfuggita a studiosi del calibro di Croce e di Fausto e Nicola Nicolini, i quali vi hanno dedicato più di uno scritto apparso sulla prestigiosa rivista di storia dell’architettura Napoli Nobilissima.
E ancora negli anni settanta, un importante gruppo di studiosi, collocò urbanisticamente Palazzo Venezia in un “blocco” definito come:” uno degli insiemi di fabbriche più importanti di tutto il centro antico per la peculiarità di forme artistiche e complessità di stratificazione storica”. ( AA.VV. Il centro antico di Napoli, 3 voll. Napoli, 1971 vol.II, cit.p. 215)
Dunque, in epoca angioina, lungo il napoletano decumanus inferior, oltre agli edifici religiosi sorsero importanti edifici patrizi.
Di origine trecentesca è, appunto, Palazzo Venezia che, nel 1412, fu donato alla Serenissima Repubblica di Venezia dal re Ladislao D’Angiò Durazzo interessato a concludere, con la potenza marinara, una lega contro l’Imperatore Sigismondo d’Ungheria.
L’edificio, già proprietà dei Sanseverino di Matera, fu a questi confiscato verosimilmente per la loro dichiarata fedeltà al pretendente francese.
L’intera area, facente parte del sedile di Nido, era in gran parte abitata dalle famiglie Brancaccio e Sanseverino ed ha sempre avuto una importanza capitale nella vita di Napoli, sia dal punto di vista urbanistico che dal punto di vista storico.
Ciò che oggi resta di Palazzo Venezia certo non rende giustizia al suo prestigioso passato, ma è opinione comune degli studiosi che questo edificio sia di grande rilievo e meriti ben altra attenzione, in quanto testimonianza di rapporti politici ed economici, in cui, in pieno rinascimento, la repubblica veneta e la stessa città di Napoli recitarono un ruolo di prim’ordine.
Sicché, pur privo di particolare rilievo architettonico, Palazzo Venezia ha sempre contato molto sul piano storico-politico in quanto testimonianza privilegiata ed esclusiva dei passati rapporti intercorsi tra il Regno Napoli e la Repubblica di Venezia in periodo rinascimentale.
Storicamente, infatti, è sempre stato vigoroso l’interesse di Venezia per il Mezzogiorno d’Italia e per Napoli in particolare.
Va detto subito però che tali premure furono ben lontane dal configurarsi soltanto in chiave economica e commerciale; su questo versante, infatti, Venezia era per lo più attenta ai noli e alle assicurazioni nonché alla gestione di alcuni settori merceologici come l’olio della terra d’Otranto e di terra di Bari.
I motivi fondanti che invece indussero la Repubblica veneta, intorno al 1565, a riaprire una sua rappresentanza diplomatica a Napoli, dopo l’interruzione seguita alla caduta della dinastia locale nel 1501, furono essenzialmente politici.
Il Regno di Napoli, invero, controllava la sponda cristiana all’uscita dall’Adriatico ed in più costituiva un valido baluardo contro i turchi, la cui latente ostilità con Venezia spingeva la Serenissima ad avvalersi di tutti i rapporti che potevano favorire la difesa della repubblica.
Inoltre Venezia si trovò a condividere con Napoli lo spinoso problema della pirateria barbaresca che affliggeva entrambi gli stati.
Se da un lato, dunque, la vicenda di Palazzo Venezia rappresenta la testimonianza più evidente della collaborazione politica tra la Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli, dall’altro essa rientra in un più generale contesto di innovazione delle relazioni internazionali, anticipando quella che, in maniera piuttosto rapida, sarebbe diventata una regola generale nei rapporti fra paesi sovrani.
Nel corso del XV secolo, infatti, le relazioni internazionali furono sempre più caratterizzate da stabilità e continuità; condizioni necessarie a sostenere e favorire la sorprendente vitalità di rapporti economici, culturali e commerciali che si andavano diffondendo velocemente in Europa.
Sicché la tradizione degli ambasciatori in sede straniera, inizialmente guardata con sospetto da molti sovrani europei per i pericoli connessi agli intrighi di potere che ne sarebbero potuti derivare, era invece praticata in Germania e in Italia, paesi caratterizzati dal frazionamento della struttura politica e da un elevato tasso di particolarismo ma con la necessità di avere costanti rapporti fra le loro rispettive diplomazie.
Infatti nel 1455 rappresentanze stabili erano già a Milano, Firenze, Venezia e Napoli; tale sistema indusse a coniare l’appellativo di “residente” per indicare la figura del diplomatico.
E tale fu il titolo che ebbe il rappresentante di Venezia a Napoli all’incirca a partire dal 1565, quando la Serenissima cominciò a tenervi stabilmente suoi diplomatici.

1400 – I “CINGANI” NELLA SERENISSIMA – QUELLO DEGLI ZINGARI ERA UN PROBLEMA RISOLTO

993988_219543344864654_1552316855_nE’ vero che la Veneta Serenissima Repubblica faceva grande affidamento sulla capacità di reazione dei sudditi stessi contro il crimine.
Già, i sudditi.
Si potrebbe già evidenziare questo primo aspetto: nella vecchia Repubblica aristocratica, i cittadini sono chiamati “sudditi”, ma detengono le armi, si identificano con lo Stato, nel suo nome fanno Giustizia.
Nell’attuale sistema sedicente democratico, i sudditi sono detti “cittadini”, ma non solo sono disarmati davanti al crimine: addirittura il sistema sedicente democratico non li protegge e se provano a difendersi da soli li manda sotto processo per tentato omicidio.
Un altro aspetto, di carattere storico, riguarda la previsione della non punibilità – sotto san Marco – per chi avesse offeso o ucciso sti zingari che risiedevano nello Stato senza permesso.
Qua contano questioni pratiche: la Serenissima ospitava decine di etnie diverse.
Solo contro gli Zingari c’era questa sorte di tolleranza zero, dovuta al fatto che qualsiasi altro strumento preventivo si dimostrava inefficace contro gente dedita al crimine come fenomeno atavico.
Ancora, si ricordi che nelle sue leggi, le magistrature penali, che ricevevano le lagnanze delle comunità rurali delle Venetiae, richiamavano i propri Rettori a non concedere neppure permessi di sosta provvisori e a dar corso senz’altro ai provvedimenti repressivi (quello normale sarebbe stato la condanna al remo di galera), perché la gente comune era esasperata dai crimini degli zingari, da cui non sapeva come difendersi.
Per i dettagli si consiglia la lettura del libro:http://www.filippilibreriaeditrice.com/?p=525 “S
 
Tratto da (CLICCA QUI)
 

1400 – DAL XVI AL XVII SECOLO


Nella seconda metà del '400 e agli inizi del '500, Venezia continuò la sua politica espansionistica, portando il Leone di San Marco a sventolare financo sui porti della Puglia.
La Repubblica di Venezia, fra Dogado, Stato da Mar e Domini di Terraferma, costituiva un impero multietnico abitato da veneti, lombardi, friulani, istriani, romagnoli, dalmati, croati, albanesi, pugliesi, greci e ciprioti, ed era di fatto uno dei più potenti stati d'Europa.

1382 – IL DOGE ANTONIO VENIER E L’ONORE PER LA PATRIA VENETA.


tratti dal profilo Facebook di Millo Bozzolan
L’ONORE DELLA PATRIA VENETA, difeso fino al sacrificio del proprio figlio.
Antonio Venier, Dux Venetorum.
Un esempio fulgido di moralità, spinta all’estremo, fino a sacrificare la vita del proprio figlio, ce lo offre il Doge Antonio Venier (1382-1400), che preferì fare morire in carcere il suo amatissimo erede, pur di non favorirlo con un provvedimento di clemenza.
Ecco quanto ci narra Pompeo Molmenti, nel suo volume “Le Dogaresse”: “Luigi Venier, figlio del Doge, aveva stretto una relazione con la moglie di un gentiluomo, tale Giovanni delle Boccole e, una notte, decise di dileggiarlo, attaccando sul ponte che prendeva il nome della famiglia del marito, un paio di corna e alcune scritte turpi e villane.
Dello sfregio codardo si conobbe l’autore, e l’offeso marito andò a lamentarse dal Doge, il quale ordinò che il figlio fosse posto subito in prigione.
Fu poi condannato a 100 lire di ammenda e a due mesi nei Pozzi.
Qui Luigi, preso da grave malattia, chiese di poter avere un poco di libertà onde rimettersi, ma il Doge inflessibile non volle accordarla, e il poveretto finì i suoi giorni in carcere.
La rigida severità paterna non si lasciò vincere neppure dall’angoscia della madre.
Era nell’animo di tutti che la Patria e l’onore dovessero andare innanzi agli stessi affetti di famiglia….” Si può immaginare lo strazio dei genitori, ma Antonio Venier preferì questo macigno nel cuore, all’onta di essere accusato di usare la carica massima per fini personali.
Il peso di questa pietra sulla sua coscienza, sarebbe stato persino maggiore.
 
Proprio un esempio per i pubblici amministratori e politicanti di turno italioti.

1300 – L’ELEZIONE DEL DOGE – COME AVVENIVA

Il Maggior Consiglio si radunava e si mettevano in un’urna tante ballotte quanti erano i consiglieri con più’ di 30 anni; il consigliere più giovane si recava in Piazza San Marco e prendeva con sé il primo fanciullo che incontrava, il quale estraeva dall’urna una ballotta per ciascun consigliere e soconsiglio3lo quei 30 a cui toccava la parola ‘elector’ restavano nella sala.
Le 30 ballotte venivano poi riposte nell’urna e solo 9 contenevano il biglietto; i 30 si riducevano così a 9, che si riunivano in una specie di conclave, durante il quale, con il voto favorevole di almeno 7 di loro, dovevano indicare il nome di 40 consiglieri.
Col sistema delle ballotte contenenti il foglietto i 40 venivano ridotti a 12; questi, con il voto favorevole di almeno 9 di loro, ne eleggevano altri 25, i quali venivano ridotti di nuovo a 9 che ne avrebbero eletto altri 45 con almeno 7 voti favorevoli.
I 45, sempre a sorte, venivano ridotti a 11, i quali con almeno 9 voti favorevoli, ne eleggevano altri 41 che finalmente sarebbero stati i veri elettori del Doge.
Questi 41 si raccoglievano in un apposito salone dove ciascuno gettava in un’urna un foglietto con un nome.
Ne veniva estratto uno a sorte e gli elettori potevano fare le loro eventuali obiezioni ed accuse contro il prescelto.
Questi veniva poi chiamato a rispondere e a fornire le eventuali giustificazioni.
Dopo averlo ascoltato si procedeva ad una nuova votazione; se il candidato otteneva il voto favorevole di almeno 25 elettori su 41, era proclamato Doge, se non si riuscivano ad ottenere questi voti si procedeva ad una nuova estrazione finché l’esito non risultasse positivo.
Tratto da venetoinside.com

1292.08.03 – L’AMERICA ??? … SCOPERTA DA MARCO POLO DUECENTO ANNI PRIMA DI COLOMBO.

Marco PoloUn’antica mappa su una pelle di pecora potrebbe riscrivere la storia.
La cartina è contenuta nel libro «The Mysteries of The Marco Polo Maps», in uscita a novembre

di Simona Marchetti

Un’antica mappa disegnata su una pelle di pecora potrebbe riscrivere tutti i libri di storia, assegnando a Marco Polo il merito di aver scoperto l’America alla metà del XIII secolo, ovvero duecento anni prima di Cristoforo Colombo, durante il viaggio in Asia che descriverà poi ne “Il Milione”.
Sulla cartina in questione – nota come “Map with Ship” e contenuta in una raccolta di 14 pergamene, decodificate e studiate per la prima volta nella loro totalità dal cartografo Benjamin B. Olshin per il libro “The Mysteries of The Marco Polo Maps, in uscita a novembre per la University of Chicago Press – sarebbero infatti riportati i contorni dell’Alaska e dello stretto di Bering quattro secoli prima che li scoprisse il danese Vitus Bering.
Non solo.
Nei documenti – apparentemente scritti dalle tre figlie di Polo, Fantina, Bellela e Moreta, in base alle lettere del padre trovate dopo la sua morte e recanti iscrizioni in italiano, latino, cinese e arabo, molte delle quali ancora oscure – comparirebbe spesso il nome “Fusang”, termine cinese risalente al quinto secolo e con il quale veniva indicata “una terra al di là dell’Oceano”, che molti ora pensano fosse l’America. «Questo significherebbe che l’esploratore era a conoscenza dell’esistenza delle coste occidentali del Nord America – spiega lo studioso in un articolo pubblicato sul magazine “Smithsonian” – o che comunque ne aveva sentito parlare dagli arabi o dai cinesi».
Analizzando le pergamene, Olshin ha così scoperto che sarebbe stato un commerciante siriano a parlare a Marco Polo di una terra ad Oriente, a 40 giorni di viaggio dalla penisola della Kamchatka, prima che questi salpasse per il Nord America attraverso lo stretto di Bering, incontrando anche «un grosso ghiacciaio che scendeva nel mare», come si legge ad un certo punto nel testo.
La terra sarebbe quindi stata chiamata “Penisola delle Foche”, perché la popolazione che l’abitava «vestiva di pelli di foca, mangiava solo pesce e viveva in case sotterranee».
Ma anche se questa ricostruzione del percorso trova la piena approvazione del sito MarcoPoloinSeattle.com , che sostiene pure che l’esploratore veneziano abbia raggiunto lo stato di Washington e lo stretto di Puget, Olshin è però il primo a avere dei dubbi sull’autenticità delle pergamene, portate in America nel 1887 da un immigrato italiano di nome Marciano Rossi, che le donò poi alla Biblioteca del Congresso negli anni Trenta, sostenendo di averle ereditate da un facoltoso (ma non identificato) membro della sua famiglia.
L’inchiostro usato non è infatti ancora stato testato e l’esame del radiocarbonio della mappa chiave dell’intero lotto (metodo di datazione radiometrica usato anche per datare la Sindone) ha fatto risalire la pergamena al XV o XVI secolo, a conferma che – nella migliore delle ipotesi – si tratterebbe di una copia e non dell’originale.
Non bastasse, c’è anche il fatto che lo stesso Polo non scrisse mai nulla sulla nuova terra nei suoi appunti di viaggio, sebbene una volta si vantò «di non aver raccontato la metà di quello che ho visto».
Che l’enigmatico signor Rossi – che dopo lo sbarco a Ellis Island, si trasferì a San Josè, in California, dove divenne un sarto e fece sei figli – si sia inventato tutto?
«Il mio antenato era di certo un personaggio – ammette alla rivista dello Smithsonian Institution il pronipote Jeffrey Pendergraft, che vive a Houston ed è il custode dei documenti di famiglia – ma sono piuttosto scettico sul fatto che il mio bisnonno potesse avere queste incredibili conoscenze su una tale varietà di argomenti».

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0827-0829 – L’UNDICESIMO DOGE – GIUSTINIANO PARTECIPAZIO

Morto Agnello, non ci fu bisogno di elezione perché il figlio Giustiniano restò solo sul trono. Era già vecchio e noterete già dalle date nel titolo regnò solo tre anni.Risultati immagini per giustiniano partecipazio
Durante il suo dogado avvennero però cose importanti. Sul piano politico-militare l'imperatore d'Oriente chiese aiuto a Venezia contro i Saraceni che si trovavano in Sicilia, riconoscendo quindi la forza marittima di questa repubblica. Con l'aiuto dei greci la flotta veneziana liberò Siracusa costingendo i Saraceni a ritirarsi sulle montagne e questo aumentò naturalmente il suo prestigio. Altro avvenimento importante fu il contrasto tra i patriarchi di Aquileia e Grado per la supremazia sui vescovi dell'Istria. Il re franco Lotario per umiliare i veneziani riconobbe la supremazia di Aquileia e questo portò ad aspri rancori tra le due Chiese.
Pare che il corpo di San Marco sia stato portato fisicamente a Venezia, durante questo dogado.
Personalmente ritengo che da questo momento in poi, la Serenissima Repubblica di Venezia diventerà sempre più importante, dal punto di vista internazionale.
D'altronde, i Veneti hanno combattuto contro i Franchi, vincendo. Queste vittorie in Sicilia confermano la potenzialità di Venezia. Dovremo però aspettare qualche secolo per vedere la Serenissima come uno Stato non solo rispettato, ma anche temuto.

0810-0827 – IL DECIMO DOGE – AGNELLO PARTECIPAZIO

Partecipazio, Agnello o Angelo, tribuno di Rialto e ricco possidente di Eraclea, fu scelto come doge per essere stato il vero protagonista della difesa contro il tentativo di Pipino di invadere la Laguna.Bust of Angelo Partecipazio. Panteon Veneto; Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti.jpg

Sembra che sia stato lui a suggerire lo spostamento del governo da Malamocco alla più interna e sicura zona di Rivoalto (poi Rialto), dove, accanto alla Chiesa di S. Teodoro, fece costruire il Castello Ducale (poi Palazzo Ducale).

A lui si deve anche l’idea di far arrivare il corpo di San Marco a Venezia.

Unita politicamente, sotto Agnello la città-stato comincia a strutturarsi territorialmente, attraverso bonifiche e precisi insediamenti strategici nella laguna che prevedevano diversi posti di guardia soprattutto sotto forma di monasteri, capaci di filtrare il movimento delle imbarcazioni, controllare chi entrava e chi usciva, e imporre per conto del governo il pagamento delle imposte.

Tra i primissimi interventi di Agnello la sistemazione e il ripopolamento degli insediamenti devastati dal conflitto con Pipino: Clodia Maggiore, Clodia Minore, Brondolo, Albiola e altri centri tornarono a fiorire, ma soprattutto venne riedificata la distrutta Eraclea, ribattezzata Civitas Nova Eracliana (Nuova Città di Eraclea) e trasformata in residenza di villeggiatura del doge, con la costruzione di un palazzo.

Sotto di lui venne coniata la prima moneta veneziana e il suo dogado fu, seppur contrastato dai consueti tentennamenti della nobiltà lagunare filofranca e filobizantina, abbastanza tranquillo.

Ad Agnello furono affiancati due tribuni, una misura precauzionale tendente sia a evitare un doge tiranno sia ad aiutarlo negli affari di governo. Ciononostante, Agnello chiese e ottenne il consenso del popolo alla nomina di un co-reggente nella persona del figlio maggiore Giustiniano nell'814, ma essendo costui a Costantinopoli, il doge provvide a nominare il secondogenito Giovanni.

Tornato Giustiniano da Costantinopoli, da dove portò come dono del basileus «un bel mucchio d’oro e d’argento, affinché facesse fabbricare una chiesa dedicata al profeta Zaccaria», e alcune reliquie, Agnello decise di annullare la carica di Giovanni e nominare Giustiniano. Giustiniano fece allontanare per motivi politici il fratello Giovanni, che era filofranco, e che venne mandato prima a Zara, capitale della Dalmazia dopo la distruzione di Salona avvenuta nel 752, e poi a Costantinopoli, per meditare sulle sue amicizie politiche.

Agnello fu sepolto nella Chiesa di S. Benedetto, vicino al complesso di Sant’Ilario, che lui stesso aveva fatto costruire come Cappella Ducale. La Chiesa di S. Benedetto diventò il primo pantheon della Repubblica perché vi trovarono sepoltura cinque dogi, molti Procuratori di San Marco e altri illustri membri del patriziato veneziano. Il doge è celebrato nel Pantheon Veneto con un busto dello scultore Pietro Lorandini conservato a Palazzo Ducale.
D'ora in poi, i Partecipazio saranno molto (a mio avviso anche troppo) presenti come dogi a Venezia, nel IX secolo. Pensando che cacciarono i Galbaio perchè avrebbero potuto non essere repubblicani, viene da chiedersi perchè non cacciarono anche i Partecipazio, che solo nel IX secolo, di nove dogi, cinque erano Partecipazio. Probabilmente perchè c'era bisogno di un autorità forte, ed i Partecipazio riuscivano a darla: senza dimenticare il popolo e senza dare l'impressione di essere antirepubblicani.

0803-0810 – IL NONO DOGE – OBELERIO ANTENOREO

Di Malamocco, già tribuno sotto il dogado di Giovanni Galbaio e sposato con una nobildonna franca, aveva tendenze filofranche e proprio per questo fu eletto: una reazione dei gruppi di potere ostili al precedente doge Giovanni Galbaio che era filobizantino.
Obelerio si associò il fratello Beato (co-doge) senza chiedere l’approvazione popolare, racconta Giovanni Diacono, mentre altre fonti dicono che gli fu assegnato il fratello di tendenze filobizantine per una ricerca di equilibrio politico.
Questo conferma il clima di incertezza del tempo: i veneziani si trovavano al centro di due appetiti, quello dei franchi con Carlo Magno il quale, avendo rinnovato l’impero d’Occidente, pretendeva un tributo anche dai dogi (tradizionalmente legati a Costantinopoli), e quello dei bizantini di Costantinopoli che dominavano le coste dell’Alto Adriatico.
Così, quando i franchi tentarono di attrarre nella loro orbita le coste dalmate, in modo da togliere ai bizantini un punto di appoggio nell’Alto Adriatico, i due fratelli si schierarono contro i filobizantini, mettendo in atto una nuova distruzione di Eraclea (che successivamente risorse per merito del doge Angelo Partecipazio e si chiamò Cittanova), ma quando la flotta bizantina inviata dal basileus Niceforo (802-811) risalì l’Adriatico e bloccò la laguna nell' 807, allora Obelerio e il fratello diventarono filobizantini, resero omaggio al basileus e gli offrirono i propri servigi.
Il doge Obelerio fu così ossequioso da meritarsi il titolo di spatario, riservato alle più alte cariche dell’impero bizantino, mentre Beato venne trattenuto per due anni a Costantinopoli, dove prima ricevette lezioni di bon ton e poi il titolo di Ipato.
Rimasto solo Obelerio nominò co-doge un altro proprio fratello filobizantino, Valentino, nell' 807.
Naturalmente i Franchi non se la misero via e nell'809 il giovane figlio di Carlo Magno, Pipino, radunò una forte flotta che conquistò facilmente Eraclea, Jesolo, Chioggia e Pellestrina. I Venetici abbandonarono allora Malamocco per ritirarsi nelle isole interne ed in modo particolare a Rialto e con uno stratagemma riuscirono a sconfiggere la flotta dei Franchi.
Questi ultimi non conoscevano il movimento di marea della laguna e quindi i Venetici, condotti da Vittorio d'Eraclea, finsero di attaccare usando piccole imbarcazioni che poi simularono la fuga. Le pesanti imbarcazioni nemiche furono sorprese dalla bassa marea, si insabbiarono nelle varie secche e furono quindi sottoposte ad una pioggia di frecce e di pece bollente. Fu una carneficina ed il Canale dove si svolse la battaglia fu nominato Canale Orfano. Pipino si arrese e promise di non più attaccare i Venetici. Morì dopo pochi mesi, nel luglio dell'810.
Questi avvenimenti crearono la base per la fondazione di una Repubblica unita e di una vera città che venne nominata "Venezia".
Obelerio venne però destituito perché con i suoi maneggi aveva provocato il tentativo di invasione dei franchi: al suo posto fu eletto Angelo o Agnello Partecipazio.
Esiliato a Costantinopoli, Obelerio ritornò nell’anno 831 con l’intento di riprendersi il Dogado. Sbarcò a Vigilia, un’isola vicino a Malamocco poi scomparsa. Al fine di non lasciargli spazio per ulteriori congiure, Giovanni Partecipazio (futuro dodicesimo doge) fece incendiare i due insediamenti pro Antenoreo (Malamocco e Vigilia) e dopo averlo catturato lo fece impiccare.
Il fratello Beato cercò di vendicarne la morte, ma il doge Agnello Partecipazio lo fece prendere e decapitare e ne ordinò l’esposizione della testa come si usava con i traditori.
Una gran parte della nobiltà veneziana, che aveva avuto lo zampino nel ritorno di Obelerio, non vide di buon grado l’ulteriore rafforzamento del potere dinastico dei Partecipazio e così Giovanni, colto di sorpresa da una congiura, fu costretto a rifugiarsi presso i franchi.
Ciò che sappiamo di questa parte di storia è raccontato da Giovanni Diacono, di cui però non si ha la certezza che tutto ciò che racconta sia veritiero, semplicemente per il fatto che visse due secoli dopo i fatti avvenuti. Comunque, i Franchi invasero le Venetie perchè i Veneti non rispettarono l'ordinatio de ducibus et populis tam Venetiae quam Dalmatiae che il doge stesso Antenoreo, e il co-doge Beato accettarono a Diedenhofen, in Gallia, allora sotto il dominio dei Franchi.
Personalmente ritengo che non si possa dare la colpa dell'invasione delle Venetie a Obelerio e Beato, perchè a scatenare questa guerra furono più cause, una di queste è il fatto che i Veneti furono divisi tra Filofranchi e Filobizantini, e non riuscirono a prendere decisioni in ambito internazionale. Un'altra prova che la politica partitocratica (di partito) divide il popolo, e non aiuta a prendere decisioni.

0797-0803 – L’OTTAVO DOGE – GIOVANNI GALBAIO

Fu eletto alla morte del padre Maurizio di cui era co-reggente con il beneplacito di Costantinopoli e l’approvazione dei veneziani.
Anche il suo dogado, come quello del padre, fu lungo, durò 17 anni, ma i risultati furono inferiori e alla fine fu cacciato.
Infatti, Giovanni Diacono scrive nella sua Cronaca Veneziana che questo doge «da nessuna testimonianza scritta né da tradizione orale risulta abbia ispirato le sue azioni al bene della patria».
Al pari del padre, comunque, Giovanni Galbaio tentò di mantenere gli equilibri che riguardavano i franchi, il papato e l’impero d’Oriente.
Le gelosie interne, però, gli furono fatali: Giovanni decise di farsi affiancare dal figlio Maurizio, ottenendo l’assenso del basileus, ma senza interpellare il popolo, un atto di prepotenza e di mancanza di rispetto.
Pertanto, l’idea di avere un terzo Galbaio non piacque alle famiglie apostoliche: dopo i dogi Maurizio e Giovanni, avere ancora un altro Galbaio avrebbe potuto significare una monarchia anziché una repubblica, ancorché aristocratica.
Così le trame di palazzo lo indussero ad una precipitosa fuga assieme al figlio nell' 804.
Pare che Giovanni e Maurizio II, siano scappati uno in Gallia, e l'altro a Mantova e morirono entrambi da privati cittadini, senza tornare più in patria. Come degli esiliati. D'altronde, se è vero che il doge non faceva il bene della Patria, secondo me va bene così. E' meglio così per i futuri Dogi, che sapranno che il popolo non apprezza le dinastie. Historia magistra vitae. La storia è maestra di vita.

0764-0797 – IL SETTIMO DOGE – MAURIZIO GALBAIO

Il settimo Doge veneziano, Maurizio Galbaio, pur venendo da famiglia contadina di Eraclea, diede origine a nobili famiglie quali i Querini, i Calbo ed i Canal.
Eraclea era la roccaforte dei fedelissimi di Bisanzio, mentre a Malamocco si tendeva di più verso i Franchi.
Poiché Maurizio contava molto su Bisanzio, in modo particolare per difendersi dalle mire del Papa sulle terre lagunari, mise da parte ogni tipo di alleanza con i Longobardi, ottenendo il doppio titolo di Ipato e di magister militum.
La reazione di Desiderio re dei Longobardi fu immediata.
Il re longobardo apre le ostilità su tutti i fronti.
Devasta il ducato romano, combatte in Istria contro la flotta bizantina e veneta e vuole ricostituire il regno italico.
Il figlio del Doge, Giovanni, viene fatto prigioniero ed il Papa Adriano si arrocca dentro Roma, minacciando scomuniche e chiedendo a Carlo Magno di punire Desiderio.
Visto che quest'ultimo frena la sua azione e retrocede su Pavia, Carlo Magno non infierisce e propone a Desiderio un pacifico accordo che però non viene accettato.
Quindi nel 774 si assiste all'assedio di Pavia con conseguente resa dei Longobardi. Il Doge riabbraccia il figlio visto l'aiuto dato dai Franchi.
La situazione di confine non muta ed anzi i Franchi sono più pericolosi dei precedenti vicini.
Carlo Magno si fa nominare re dei Franchi e dei Longobardi, nonché esarca, raggruppando così tutte le prerogative proprie di Bisanzio, cingendo la corona ferrea.
Il Papa si lamenta e vuole l'Esarcato, ma in realtà è l'arcivescovo di Ravenna, Leone, che, partiti i Franchi, si impossessa di diverse città dell'Esarcato scacciando i funzionari pontifici.
Ma nel 777 egli muore ed i Franchi ritornano a controllare la regione.
Il Papa Adriano sta sempre a guardare.
Il Doge Maurizio capisce che non può fidarsi di questi vicini e stringe sempre più accordi con Bisanzio.
Il figlio Giovanni viene associato al dogado e Maurizio pensa di poter così rendere ereditario il dogado per la sua famiglia.
Carlo Magno, però, dopo le insistenze del Papa e con la scusa del battesimo del figlio, Pipino, torna nella Cisalpina e nella penisola italica e porta avanti gli accordi per ristabilire l'impero d'Occidente. Scambio di cortesie: il papa ottiene l'Esarcato e Ravenna diventa città pontificia mentre Carlo Magno ha l'autorizzazione di prelevare nella città alcune opere d'arte per portarle ad Aquisgrana.
Momenti tremendi per i Venetici e nel 785 tutti i mercanti veneziani vengono scacciati dal territorio divenuto papale.
Adriano va per la sua strada senza badare al risentimento del Doge e forte del fatto che a Bisanzio è reggente l'imperatrice Irene, favorevole anche alla venerazione delle immagini.
Il Doge Maurizo è isolato ma riesce a morire tranquillo nel suo letto nel 787, assistito dalle figlie, Agata e Suria, oltre che dal figlio Giovanni al quale lascia il dogado.
Insomma, non è un bel periodo ma, come sempre, i Veneziani, pur non avendo in questo momento storico uno Stato molto grande o molto influente sul destino del mondo, continuano a combattere per tenersi la libertà. Loro non vogliono diventare nè servi dei Franchi, nè servi dei Bizantini. Perchè non sono ne Franchi ne Bizantini. Sono Veneti. Purtroppo lo Stato Veneto non è ancora abbastanza forte per essere un entità unica, e quindi per un grosso periodo molti dogi volevano l'alleanza dei Franchi (Filofranchi) o dei Bizantini (Filobizantini).