1600 – LA SOCIETA’ VENEZIANA A QUEL TEMPO

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Nel XVII e nel XVIII secolo, Venezia non era più la signora dei mari del Tre e del Quattrocento.
Tuttavia restava la città della penisola italica più brillante, la più cosmopolita e la meno condizionata dalla Spagna e dalla Chiesa.
Il Rinascimento, aveva lasciato la sua indelebile impronta sulla città mentre con il nuovo stile, il barocco, iniziava una nuova era.
I palazzi acquisirono una nuova maestà e magnificenza con facciate ed interni fastosi: ori, cristalli, tappeti, mosaici, arazzi li rendevano simili a regge; i soffitti erano un tripudio di affreschi ispirati a temi pagani e cristiani.
I mobili, con il nuovo stile, erano svolazzanti ed arzigogolati, tempestati di pietre e popolati di tralci, chimere, sfingi ed uccelli intagliati.
Un pizzico di esotismo non mancava, con lacche e porcellane provenienti da Cina e Giappone.
Lusso e ricchezza non erano solo nell’arredamento ma anche nell’abbigliamento.
All’epoca Venezia era ancora la Mecca dell’eleganza, con i migliori sarti, le lane più pregiate e le sete più fini e il guardaroba era la principale occupazione delle gentildonne veneziane.
L’abito più comune consisteva in un corpetto con gorgiera increspata, maniche a sbuffi, strette ai polsi e larghe alle spalle, rinforzato alla vita da stecche di balena, e in una gonna pieghettata tenuta larga da un guardinfante che metteva in risalto i fianchi e dava maestà alla figura femminile.
Il poeta Marino scrisse a proposito di questa veste che : “ la minor cosa era la donna”.
La dama veneziana si muoveva a piccoli passi e per fare un inchino era obbligata a spogliarsi.
Le calzature erano altrettanto assurde.
Quelle più di moda avevano la forma di zoccoli, alti e scoscesi come trampoli che richiedevano esercizi di equilibrismo.
La monaca Angela Tarabotti ne era addirittura entusiasta perché grazie ad esse, diceva, la donna veniva innalzata “dalle ordinarie bassezze”.
Fino a quasi tutto il Seicento, le veneziane non conoscevano altra calzatura che gli zoccoli: erano sandali di legno che fermavano il piede con una striscia di cuoio, le cui suole si poggiavano su due supporti alti tra i quindici e i venti centimentri.
Erano stati inventati al tempo in cui Venezia non era ancora lastricata ed era dunque piena di mota e di pozzanghere.
Ma anche dopo la pavimentazione, le veneziane rimasero fedeli a quella moda per puro capriccio.
Al museo civico sono conservati esemplari, uno di quarantatrè e un altro di cinquantuno centimetri.
Arrampicate su quei trampoli, le donne non potevano ovviamente uscire senza essere accompagnate da qualche servitore.
Solo sul finire del secolo le dame adottarono la scarpetta di marocchino, o di laminato d’argento, o di broccato d’oro.
Gli indumenti intimi erano fatti con tela di Fiandra e guarniti in maniera ricercata e civettuola, con pizzi, merletti, gioielli, pietre preziose e bottoni d’oro.
Le veneziane facevano uso di unguenti, cosmetici e profumi.
La toilette di una signora durava un’intera mattinata impegnando stuoli di cameriere e aveva il suo culmine nella confezione del neo, che costituiva il momento supremo del trucco.
Ogni neo aveva il suo significato e il suo nome: sul naso si chiamava sfrontato, all’angolo dell’occhio appassionato, sulle labbra galante, in mezzo alla fronte maestoso e all’angolo della bocca assassino.
Le unghie si portavano lunghissime e le chiome imponenti.
I parrucchieri utilizzavano posticci, trecce, riccioli, chignons, e si sbizzarrivano in acconciature barocche e stravaganti trasformando i capi delle signore in nidi di uccelli imbalsamati, grappoli di uva, cestini di frutta e mazzi di fiori.
Il tutto guarnito con pettini, spille e fermagli.
Un parrucchiere di Padova issò su una di queste acconciature, addirittura un parafulmine.
I gioielli erano anch’essi pomposi e massicci.
Accessorio indispensabile era il ventaglio: di seta, di pergamena, di carta, dipinto a mano e fregiato di perle e gemme, complice della galanteria di ogni dama.
Il guardaroba delle popolane era ovviamente ben diverso: pochi capi semplici e senza pretese e tuttavia decorosi.
Gli uomini non erano meno vanitosi.
Sotta la toga nera, la veste ufficiale di ogni patrizio, indossavano abiti eccentrici e variopinti di velluto e damasco ispirandosi a modelli spagnoli e francesi.
Le camicie di un gentiluomo erano di lino o di seta, le calze provenienti dall’Inghilterra e le scarpe strette, appuntite e infiocchettate.
Verso la fine del XVII secolo si diffuse l’utilizzo della giubba, del giustacuore, della calze di seta, delle scarpe con fibbia e del jabot.
I borghesi indossavano il tabarro fatto di seta o di panno, i popolani invece un paio di brache e una giubba.
Vi erano poi gli “zerbini”,una sorta di dandies, che passavano davanti allo specchio sedute non meno estenuanti di quelle di una dama.
Si incipriavano la chioma, si profumavano e si riempivano di gioielli assumendo pose ridicole, leziose e sdolcinate.
Contro il lusso eccessivo e dilagante la Repubblica emanava pene severe e multe contro chi vendeva stoffe e guarnizione troppo costose e verso chi importava poppe finte dalla Francia, un paese dove quest’industria era particolarmente fiorente.
Questi divieti venivano ignorati e intere fortune venivano dilapidate in occasione di cerimonie malgrado il governo condannasse ogni forma di sperpero anche per queste occasioni.
I padrini per un battesimo non dovevano essere più di dodici e non si doveva esagerare con i baldacchini.
Lo sfarzo che si sfoggiava durante la celebrazione di un matrimonio era principesco; il cerimoniale che precedeva uno sposalizio era costoso e complicato.
Il fidanzato doveva, per un certo numero di giorni e ad una certa ora, passare sotto la finestra della fidanzata e salutarla con un ampio gesto della mano.
In seguito veniva ricevuto dai futuri suoceri e donava alla promessa sposa un anello, detto “ricordino”.
Il giorno delle nozze la sposa andava a far visita ai genitori dello sposo e riceveva da loro la benedizione.
Il corteo nuziale, tra ali di folla festante, s’avviava verso la chiesa.
Al termine della cerimonia, veniva celebrato nella casa dello sposo un enorme banchetto cui seguiva un gran ballo.
Si mangiava e si beveva tra canti, danze e divertimenti per due giorni.
La grande passione dei veneziani era il teatro.
La stagione toccava il culmine nei mesi invernali, ma da luglio ad ottobre il teatro prendeva una pausa perché i nobili e i ricchi quel periodo solevano trascorrerlo nelle loro sontuose ville sparse sulle rive del Brenta, in uno scenerario di incoparabile bellezza.
Queste famose ville venivano progettate e decorate da famosi architetti, scultori e pittori ed erano dei veri e propri paradisi terrestri con giardini ricchi di statue, cascate e fontane.
Ma erano delle ville e basta.
Non avevano l’operosità della cascina lombarda e della fattoria toscana con i loro magazzini e cantine.
I nobili della Serenissima avevano investito i loro capitali in terre all’interno della laguna senza però importarvi nessuno spirito imprenditoriale perché di terre non si erano mai intesi.
Nei viali delle loro splendide ville il patrizio veneziano passeggiava con i suoi pari parlando non di agricoltura ma di Stato; di terra non si interessava.
L’aveva comprata per investire e veniva a passarci qualche mese all’anno senza occuparsi della sua gestione.
La dava poi in appalto a degli affittuari che gli garantivano una certa rendita e che a loro volta se ne rivalevano sui salari dei braccianti.
La vita dei patrizi veneziani non era meno sfarzosa delle ville che abitavano.
Le feste si susseguivano e a i balli e ai banchetti si alternavano gite in campagna, battute di caccia, partite a carte e giochi di società; ma il momento più solenne era quello del caffè, servito alle cinque del pomeriggio.
Di questa bevanda a Venezia se ne faceva un tale uso che il suo acquisto assorbiva una buona parte del budget domestico.