STORIA VENETA

0757-0764 – IL SESTO DOGE – DOMENICO MONEGARIO

Era di Malamocco.
Da questo momento in poi il doge, che da sempre si circondava di vescovi e abati, fu affiancato da due tribuni, eletti annualmente; essi avevano lo scopo di aiutarlo nelle sue funzioni, ma in effetti cominciavano a limitarne i poteri.
L’aristocrazia veneziana aveva già cominciato a sentire il bisogno di affiancare al doge qualcuno che ne limitasse i poteri: in questa nomina c’è l’origine di quello che fu poi il Minor Consiglio.
I due tribuni-consiglieri aiutavano il doge ad amministrare la giustizia civile, ma anche quella criminale e ciò significa, implicitamente, che essi in qualche modo limitavano l’arbitrio del capo del Dogado, tanto è vero che in seguito (1130) si trasformarono in tribuni-consiglieri-controllori.
Per contro s’instaurò la tendenza a rendere ereditario il ducato mediante la nomina da parte del doge di un co-reggente.
Gli storici attuali preferiscono non dare troppo credito alle cronache, che spiegavano le violenze con la contrapposizione tra un partito filo-longobardo e uno filo-bizantino, ovvero tra una fazione di proprietari terrieri, con base a Eracliana, e una di mercanti, radicata a Malamocco.
È probabile che la questione fosse decisamente più complessa: si noti infatti che questa è la fase di transizione tra la decadente amministrazione bizantina, rappresentata dai tribuni, e l'autorità del doge, sempre più accentratrice e indipendente.
Monegario, così com’era accaduto ai suoi due predecessori, fu deposto a furor di popolo e abbacinato perché, sentendosi limitato dai due tribuni, aveva cercato in tutti i modi di ritornare alla primitiva, assoluta gestione del potere.
Sul fronte estero, il Ducato partecipava al clima di incertezza dovuto all'indebolimento dell'autorità bizantina nella penisola italica e nella Cisalpina, dalla quale, almeno formalmente, continuava a dipendere.
 

0756-0757 – IL QUINTO DOGE – LUPANIO GALLA

Questo Doge (756-757), il quinto, durò veramente molto poco. 
Galla depose Teodato all'avvento dei Franchi, di cui era un fedelissimo, e dopo averlo fatto abbacinare ed esiliare, si era imposto alla volontà dei veneziani con un'elezione pilotata, ma in poco tempo Desiderio, ultimo re longobardo, riprese il sopravvento e quindi Galla fu abbacinato ed inviato in esilio.
Alcuni cronisti gli assegnarono il nome di Lupanio, altri quello di Gaulo e secondo la tradizione dovrebbe essere il capostipite della famiglia Barozzi.
 

0742-0756 – IL QUARTO DOGE – DIODATO TEODATO IPATO

Dopo il giallo di Orso sembra quasi che il potere imperiale voglia cancellare definitivamente il cammino dell'autonomia veneta.
Si alternano, anziché dei dogi, i magister militum dai quali stava nascendo il dogato.
L'ultimo di questi, un tale Giovanni, soprannominato Fabriciano per le sue insistenti febbricole, fu, come altri che vedremo, abbacinato (accecato tenendo aperte le palpebre fino alla distruzione della retina) e scacciato.
E si instaura il sistema dogale che non verrà più abbandonato fino al 1797.
Non più a Eraclea ma nell'isola di Malamocco, dove venne eletto Diodato o Teodato che si voglia, ben visto dai bizantini che lo nominano Ipato.
Di fatto siamo ancora nel bel mezzo di due volontà: il popolo che acclama, l'imperatore che benedice “il funzionario”.
Ben presto, mentre sulla terraferma il longobardo Astolfo realizza i suoi piani, mentre i Franchi si affacciano sul boccone longobardo, Teodato cade dall'asse di equilibrio non intervenendo contro Astolfo col quale aveva rinnovato il trattato fatto con Liutprando da Paoluccio e un certo Galla, interprete del risentimento bizantino lo fa deporre e abbacinare nel 756.
 

0727-0737 – IL TERZO DOGE – ORSO IPATO

Orso Ipato è proclamato per acclamazione terzo Doge ad Eraclea, dove viene sepolto il Doge precedente dopo un decennio di pacifico governo.
Orso è il condottiero che per primo fa dei Veneti una forza militare.
Lo stesso anno l’Imperatore Leone l’Isaurico notifica al Pontefice Gregorio II l’abolizione del culto delle immagini.
L’ordine di distruggere tutte le figure sacre provoca l’opposizione netta del Papa, sicché Esilarato, Duca bizantino di Roma, e l’Esarca Paolo si organizzano per ucciderlo.
Così ne parla il Liber Pontificalis: «Il Pontefice, dunque, rigettando l’empio ordine del principe, si armò contro l’Imperatore come contro un nemico, opponendosi alla sua eresia e scrivendo in ogni direzione che i Cristiani si guardassero dal permettere il sacrilegio.
Allora tutti gli abitanti della Pentapoli furono mossi alla sollevazione e, inoltre, gli eserciti delle Venetiae fecero resistenza contro gli ordini dell’Imperatore, che mai si sarebbero rassegnati alla morte dello stesso Papa, ma piuttosto avrebbero combattuto in sua difesa, così come avrebbero sottomesso alla scomunica l’Esarca Paolo o chi lo avesse comandato e chi si fosse alleato con lui; sprezzando l’autorità dell’Esarca, ovunque nella penisola tutti elessero duchi creandoli di propria autorità; inoltre avrebbero sostenuto uniti il Pontefice e la sua immunità.
Invero, saputo delle cattive intenzioni dell’Imperatore, tutta l’Italia adottò la risoluzione che avrebbero eletto da sé un nuovo Imperatore e assunto il governo di Costantinopoli; ma il Papa raffrenò questa decisione, auspicando il ravvedimento del principe».
I fatti precipitano e contro le sconvolgenti nuove disposizioni in materia religiosa si sollevano le genti dell’Esarcato, della Pentapoli e dei ducati bizantini nella penisola.
Ad essi si unisce il forte exercitus Venetiarum, per la prima volta menzionato anche da Paolo Diacono.
Liutprando re dei Longobardi approfitta del collasso bizantino e prende Bologna, i castelli dell’Emilia, Ravenna e tutte le Marche.
L’Esarca Paolo fugge ad Eraclea: la Venetia era indipendente, non si era ribellata all’Impero, ma aveva solo schierato l’esercito a difesa del Papa.
Nel 737 si combatte la battaglia dell’Arco tra Equiliani ed Eracleesi.
Sul canale dell’Arco il Doge Orso capeggia questi ultimi, ma dopo l’inutile carneficina gli stessi Eracleesi lo trucidano e mandano in esilio suo figlio Teodato.
Dopo la morte violenta di Orso, il popolo è contrariato dalla faziosità dimostrata da colui che avrebbe dovuto garantire l’unità politica del Dogado.
Nelle Venetiae si decide così di cambiare sistema stabilendo l’interregno dei 5 Magistri militum Domenico Leone, Felice Cornicola, Teodato Ipato, Giuliano Cepario, Giovanni Fabriciaco.
 

0717-0726 – IL SECONDO DOGE – MARCELLO TEGALIANO

Di questo doge (forse il nome doge nacque in seguito con Orso) poco si sa.
Probabilmente è uno stretto collaboratore di Paoluccio, o è lo stesso nella leggenda delle origini.
La Chronica di Dandolo lo definisce “uomo abbastanza utile”.
Nella contesa sul culto delle immagini tra i patriarchi di Eraclea e di Grado parteggiò per il patriarca di Grado che ebbe l'approvazione di papa Gregorio II.
Morì ad Eraclea nel 726.
 

 

 

 

 
 
 
 

0697 – IL PRIMO DOGE – PAOLUCCIO ANAFESTO

Fra storia e leggenda il primo doge

La storia dei Veneti risale alle grandi migrazioni dall'oriente all'occidente (ceppo caucasico), che interessarono i due millenni prima di Cristo.
Este raccoglie quanto basta per uno studio approfondito su questa colonizzazione che diede origine alla civiltà atestina.
Si sa che i Romani impararono dai Veneti a cavalcare e a possedere cavalli addomesticati e che nella battaglia di Canne, contro Annibale, morirono circa ventimila Veneti, alleati dei Romani.
La loro terra, inquadrata fra Alpi, Adige, Po, Adriatico venne chiamata X Regio da Roma, senza resoconti di guerre di conquista.
La crisi dell'Impero romano d'occidente mise a tacere anche le cronistorie che resero leggibili le antiche civiltà storiche e le nuove cronache sono posteriori agli avvenimenti di qualche secolo, sicché non sono esenti da leggende fra righe scavate dagli autori su atti giuridici e notarili ed editti Bizantini e Longobardi.
La storia della Serenissima, o meglio dei Serenissimi, è descritta nascere quasi da una liturgia celebrata ad Eraclea nel 697, presieduta da patriarca di Grado Cristoforo, alla presenza del popolo e delle 12 famiglie (apostoliche = dodici come gli apostoli): Badoer, Barozzi, Contarini, Dandolo, Falier, Gradenigo, Memmo, Michiel, Morosini, Polani, Sanudo, Tiepolo oltre alle 4 famiglie (evangeliste = quattro come gli evangelisti): Giustinian, Corner, Bragadin, Bembo, liturgia nella quale, strettissimamente legato a San Marco, fu nominato dux – doxe – doge PAOLUCCIO ANAFESTO
A Paoluccio si dovrebbe come da “uomo espertissimo e illustre” la delimitazione dei confini di Eraclea (pattuendo con il re longobardo Liutprando), sede della sua carica.
Fu ucciso durante una rivolta dei nobili di Malamocco ed Equilio, nel 717, ad Eraclea.
C'è chi ne contesta l'esistenza storica perché il suo nome sarebbe passato alla storia tratto da una lapide, priva della sua parte centrale, che avrebbe dovuto ricordare l'esarca di Ravenna PAULUS DOGE - 1 - PAOLUCCIO ANEFESTOPATRICIUS in questo modo: PAUL……….ICIUS = PAULICIUS.
L'esarca venne ucciso nel 727 durante la guerra iconoclastica.
DUNQUE:
Possiamo dire che ai tempi dell'imperatore d'oriente Anastasio e del re dei Longobardi Liutprando, quando la nobiltà veneta aveva progressivamente trasferito sulle isole la propria sede e i propri beni mobili onde evitare i violenti e ciclici passaggi di orde e di eserciti sulle proprietà immobili della terraferma, si offrì da parte dell'Impero d'oriente ad un funzionario veneto un potere straordinario, con privilegi ed autonomia particolari al fine di mediare fra Impero e Longobardi.
E la storia, la nostra, così segna il suo inizio.
 

STORIA DEI VENETI ANTICHI

Chi erano queste genti misteriose che si stanziarono nell'attuale Veneto, creando una propria, autoctona "cultura Veneta", e diventando poi nel tempo uno dei più fedeli alleati di Roma?
La leggenda sull’origine dei Veneti è descritta nel primo paragrafo dell’opera dello storico romano Tito Livio "Ab urbe condita".
Si può immaginare, come Tito Livio essendo nato a Patavium (l’odierna Padova), quindi veneto, volesse idolatrare i discendenti della sua terra natia con una storia mitica della loro origine.
Il racconto narra che, dopo la distruzione della città di Troia, un gruppo di alleati dei troiani provenienti dall’Asia minore, assieme ad un manipolo di uomini (gli "Enetoi", un eroico popolo menzionato anche nell’"’Iliade") guidati dal principe Antenore, abbandonò le proprie terre alla ricerca di una nuova patria.
Queste genti erano i Veneti che, dopo aver navigato attraverso il Mar Adriatico, approdarono sulle terre del Veneto dove, una volta cacciati gli Euganei, si stanziarono definitivamente tra il tredicesimo e dodicesimo secolo avanti Cristo.
Anche altri storiografi classici danno il loro contributo riguardo alla nascita della stirpe dei Veneti.
Catone è d’accordo con la tesi di Livio, attesta che: I Veneti discendono dalla stirpe troiana.
Erodoto invece, nelle sue "Storie", cita i Veneti come discendenti degli Eneti, cioè come una tribù di provenienza illirica.
Gli Illiri erano un agglomerato di popolazioni indoeuropee stabilitesi nella zona costiera della penisola balcanica (ed anche nelle coste sud dell’attuale Puglia) che, secondo lo scrittore greco, si spinsero sempre più ad ovest dei Balcani, trovando nell’attuale Veneto un luogo ideale per stanziarsi.
Tacito poi, colloca le tribù dei "Venedi" nella parte meridionale dell’attuale Germania, ed anche Gaio Plinio Secondo ci mette del suo, citando una tribù scomparsa con nome assonante, che abitava una piccola porzione del Lazio.
C’è da dire che intorno all’anno mille avanti Cristo, sparse per l’Europa esistevano diverse popolazioni aventi lo stesso nome: i Veneti celti, o i Venedi slavi della Germania per esempio.
Si suppone perciò, che la parola "Veneti" abbia la radice di un termine di lingua indoeuropea:
"wen"  il cui significato potrebbe tradursi grossomodo con la parola: "amico".
Altri studiosi non concordano per nulla con questa tesi, ribaltandola completamente: traducono la radice "
wenet" in "conquistatori", aggiungendo ancor più dubbi sull’origine di questo popolo.
Possiamo ritenere come tesi più fondata sull’origine dei Veneti "nostrani", una migrazione avvenuta intorno al nono secolo avanti Cristo, alcune tribù provenienti dal Mar Baltico scese verso il sud dell’Europa per scambiare ambra con altre popolazioni.
Giunte, nella zona corrispondente circa al Veneto attuale, queste genti seminomadi, trovarono una terra fertile e ricca, e decisero di sistemarsi definitivamente.
Quando i primi gruppi di Veneti arrivarono in pianura Padana, questi non potevano credere di aver trovato un luogo ideale per stanziarsi definitivamente.
Il Veneto di allora era una terra circondata da maestosi boschi, attraversato da grandi corsi d’acqua e ricco di selvaggina e da un clima eccellente: insomma un vero paradiso che gli antichi Veneti non si fecero sfuggire.
I primi insediamenti si registrano nella zona occupata nord occidentale come piccoli villaggi ("teuta") di capanne le quali erano generalmente di forma quadrangolare, realizzate con una base in mattoni e muri di canne e argilla, il tetto era di paglia e il pavimento in terra battuta.
Con il passare del tempo iniziò una rapida attività di disboscamento che portò alla fondazione di nuovi villaggi sempre più popolosi, e principalmente questi furono: Este (luogo con la maggiore concentrazione di reperti), Padova, Altino, Mel (famosa la sua necropoli) e Adria solo per citarne alcuni.
Nel periodo più antico della storia della civiltà Venetica (fino al quinto secolo avanti Cristo), possiamo registrare un’intensa dinamicità a livello culturale, grazie a scambi con le genti di cultura Villanoviana, popolazioni greche e, in seguito, con gli Etruschi.
In questo periodo i Venetici riuscirono a creare una cultura autoctona, differente da ogni altra dell’Italia protostorica.
Le peculiarità della cultura venetica erano veramente molteplici.
In primis i Venetici erano grandi agricoltori: i prodotti della terra come i cereali e il lino erano coltivati in grande quantità grazie anche all’aratro, strumento che i Venetici conoscevano già dai tempi più antichi.
L’allevamento del bestiame era incentrato sui bovini e gli ovini che servivano prevalentemente per ricavarne latte e lana: la carne di questi animali era mangiata solo in specifiche cerimonie religiose.
I pregiati filati di lana erano famosi anche fuori dal loro confine ed erano richieste dalle genti di altre popolazioni.
I Venetici furono anche impareggiabili allevatori di cavalli. Per i Venetici il cavallo era un animale sacro che addirittura quando moriva, veniva sepolto accanto agli uomini. Un dono ambitissimo, che spesso era offerto ai sovrani di altri popoli amici. I destrieri Venetici erano ricercatissimi: i Romani li richiedevano espressamente per la loro cavalleria militare, i Greci li ricercavano per le gare equestri durante le Olimpiadi. Addirittura il tiranno Dionisio I da Siracusa non resisteva al fascino e alla superiorità degli stalloni Veneti e li importava per il suo allevamento personale.
Le piccole botteghe, spesso ricavate in zone adiacenti alla casa, servivano per far girare localmente l’economia, oltre ad una vera e propria esportazione dei loro prodotti migliori. Dalle popolazioni Germaniche, infatti, compravano lo stagno fondamentale per realizzare la materia prima per la loro più preziosa attività: la lavorazione del bronzo.
La straordinaria padronanza dell’arte del bronzo ne faceva maestri sopraffini in questo campo, eccellevano soprattutto nelle tecniche di lavorazione a fusione piena su "anima" e a "cera persa" con la quale forgiavano armi, oggetti di uso quotidiano e soprattutto le situle le preziose urne cinerarie dei Veneti.
L’arte delle situlae (dal latino situla cioè secchia), divenne una loro peculiarità, realizzavano queste urne in bronzo con la tecnica della lavorazione della lamina a sbalzo, erano riccamente decorate con scene di vita quotidiana come attività di commercio, da figure mitologiche e talvolta da veri atti di guerra.
Il miglior esempio di tale maestria l’abbiamo osservando la "Situla Benvenuti" un vero gioiello risalente al settimo secolo avanti Cristo, essa faceva parte del corredo funebre di una donna ed è stata ritrovata nella necropoli Benvenuti ad Este.
Divisa in tre fasce di raffigurazioni, la prima raffigura scene a carattere religioso, nella seconda si possono individuare figure mitologiche, mentre la terza, scene di vita quotidiana.
Le situle oltre ad essere dei veri e propri libri sugli usi e costumi dei Veneti, sono un vero e proprio spartiacque dell’arte, infatti, prima dei Veneti, sui vasi cinerari, furono impresse solamente figure geometriche, mentre con la cultura Venetica si passò all’uso di bassorilievi per raffigurare figure naturali e umane.
Sembra che il popolo dei Veneti si distinguesse per l’abbigliamento da tutti gli abitanti lungo i loro confini. Anche sotto quest’aspetto, un segno di distinzione culturale. Sia gli uomini sia le donne, indossavano una leggera tunica mentre solo per le donne era usanza mettere uno scialle che copriva i capelli. Le classi sociali più elevate portavano un mantello a tinte sgargianti, oltre ad un cappello e calzature dalle punte rialzate.
Numerosi gli accessori di ornamento del vestiario: spilloni, fibule, collane, braccialetti e orecchini, tutti oggetti realizzati anche con materiali nobili quali l’oro il corallo le perle, per non parlare della famosa ambra del baltico.
Tra le persone di rango superiore della società possiamo sicuramente includere i sacerdoti, ma in che cosa o in chi credevano gli antichi Venetici?
Sicuramente i Venetici praticavano il culto degli elementi naturali, uno di più famosi era quello dell'"acqua medicamentaria": sembra che il "divino" (attraverso una processione e a qualche offerta), potesse dare la guarigione a un malato grazie a tale acqua miracolosa.
Queste cerimonie si svolgevano in grandi spazi aperti come specifici boschi (ritenuti sacri) nei quali, in uno spiazzo privo di vegetazione, era eretta un’edicola di legno che prevedeva al suo interno, rappresentazioni delle divinità da invocare attraverso danze e processioni.
Figura fondamentale per la religione dei Veneti era la Dea Reitia, signora delle fiere, dei boschi e delle acque, oltre che Dea guaritrice.
Il santuario scoperto nei pressi di Este (Ateste) nel 1880, durante gli scavi per la costruzione di un canale con i suoi quasi ventimila reperti è il più importante del Veneto, anche se altri santuari della Dea furono trovati anche a Vicenza e Calalzo di Cadore. La Dea veniva rappresentata con tipici abiti Veneti e con mano una chiave che si credeva aprisse le porte dell'aldilà.
La Dea Reitia mantenne un ruolo molto importante nel culto dei Venetici anche in epoca romana, essa assunse caratteristiche tipiche proprie quali la protezione dalle malattie e portatrice di fecondità.
Altri importanti luoghi di culto erano le necropoli. La più famosa è senza dubbio quella rinvenuta quasi intatta a Mel (BL) tra il 1958 e il 1963. Risale a circa il quinto secolo avanti Cristo e comprende circa sessanta tombe formate da cassette e lastre di arenaria. Le ceneri dei defunti venivano riposte nelle ormai famose situle e per ogni sepoltura veniva creato un corredo tombale: durante gli scavi infatti, furono scoperti reperti come fibule e anelli. Il tutto poi, era collocato in cassette ricoperte da una o più lastre e da terra.
Durante la sepoltura si praticava il "banchetto funebre" che prevedeva offerte a base di cibo alle divinità, talvolta il sacerdote praticava anche sacrifici animali (pecore e più raramente bovini) con i quali si gozzovigliava in onore del trapassato.
I sacerdoti Venetici erano uomini di casta superiore, persone alle quali apparteneva la sacra arte della scrittura, privilegio appunto, di una ristretta élite.
Già, ma come scrivevano i pochi possessori di quest’arte, e soprattutto, in quale lingua comunicava il popolo dei Venetici?
L'alfabeto usato dagli antichi veneti era di derivazione etrusca, ed è stato introdotto verso il 500 avanti Cristo.
I maggiori esempi di scrittura Veneta si possono apprezzare nelle iscrizioni riportate su piccole lamine di bronzo e altri oggetti di uso quotidiano come coppe (sempre di bronzo) e manufatti di ceramica, oltre ad iscrizioni su steli di pietra (dette lapidee).
A tal proposito la più importante iscrizione lapidea giunta a noi è senza dubbio quella incisa sulla celebre Stele di Isola Vicentina oggi conservata presso il Museo Naturalistico Archeologico di Vicenza. La stele ha un'importanza fondamentale per gli archeologi: essa infatti, contiene un iscrizione in lingua venetica, nella quale compare la prima attestazione epigrafica del termine Venetkens ossia Veneto.
Ad Este poi, nel santuario della dea Reitia, sono stati fatti altri due ritrovamenti eccezionali, entrambi legati alla pratica della scrittura: gli "Stili scrittori" e le preziose "Lamine alfabetiche".
La lettura delle iscrizioni in Venetico doveva essere fatta da destra a sinistra e le parole non erano mai divise da spazi, in più l’alfabeto aveva una particolarità unica: la cosi detta "puntatura". Si procedeva a scrivere la parola, o la frase, mettendo un punto alle consonanti non seguite da vocali, e le vocali non precedute da consonanti.
La lingua parlata dai Venetici era chiamata "Venetica", e proveniva del ceppo indoeuropeo.
Essa rimase immutata fino al secondo secolo avanti Cristo, periodo nel quale il latino iniziava ad affiancarsi alla lingua autoctona Venetica.
È indicativo un fatto: anche dopo il completo assorbimento dei Venetici da parte di Roma, e quindi con il passaggio al latino come lingua "nazionale", i Veneti parlavano mantenendo caratteristiche proprie della lingua ormai "defunta".
Lo stesso Tito Livio (59 avanti Cristo – 17 dopo Cristo), che come già abbiamo avuto modo di dire era nato a Patavium (Padova), diventò uno dei più grandi storici romani, e nelle sue opere mantenne visibili le sue "radici Venete" conservando la "Patavinitas", cioè uno stile tipico Veneto nel modo di scrivere.

0059 A.C. – 0017 D.C. – TITO LIVIO


Della sua biografia si sa poco.
Secondo San Girolamo nacque a Padova nel 59 a.C..
Quintiliano ci ha tramandato la notizia che Asinio Pollione rilevava in Livio una certa Patavinitas (padovanità o peculiarità padovana): che indica o come patina linguistica rivelatrice della sua origine provinciale o piuttosto l'accentuato moralismo, tipico delle tendenze conservatrici della sua patria.
Morì nel 17 d.C., mentre lo storico Ronald Syme anticipa le date di nascita e di morte di 5 anni; Girolamo infatti collega la nascita di Livio a quella di Messalla Corvino, nato prima del 59.
Probabilmente l'errore è dovuto alla somiglianza dei nomi dei consoli dei due anni, Cesare e Figulo nel 64 e Cesare e Bibulo nel 59.
Le fonti del luogo di nascita sono Marziale e Quintiliano. File:Titus Livius.jpg
Della famiglia di origine si hanno poche notizie benché probabilmente, a giudicare dall'ottima formazione culturale dello storico, era di condizioni agiate.
Uno degli avvenimenti più importanti della sua vita fu il trasferimento a Roma per completare gli studi; fu qui che entrò in stretti rapporti con Augusto, il quale, secondo Tacito (che a sua volta riporta un discorso dello storico Cremuzio Cordo) lo chiamava "pompeiano" per il suo filo-repubblicanesimo; questo fatto non nocque comunque alla loro amicizia, tanto che gli venne affidata dall'imperatore l'educazione del nipote e futuro imperatore Claudio.
Si dedicò quindi alla redazione degli Ab Urbe condita libri per celebrare Roma e il suo imperatore e si impose ben presto come uno dei più grandi storici del suo tempo.
Fu anche autore di numerosi scritti di carattere filosofico e retorico andati perduti. Morì a Padova nel 17 d.C., secondo Girolamo, o nel 12 d.C.,secondo Syme.
 
 

1294 A.C. CIRCA – ANTENORE…IL FONDATORE DEI VENETI


Nell'Iliade, Antenore viene descritto come un vecchio eminente e saggio troiano che implora i suoi concittadini affinché essi restituiscano Elena al marito, Menelao, per scongiurare il conflitto gli Achei.
Tale richiesta resterà inascoltata, per il prevalere del partito favorevole alla guerra, riunitosi intorno all'altro consigliere di Priamo, Antimaco.
Da molti autori classici e medievali Antenore è invece indicato come un traditore.
Ad esempio secondo le versioni di Ellanico, Servio o Ditti Cretese, Antenore tradì i Troiani, consegnando ad Ulisse e Diomede il Palladio, talismano della invincibilità troiana, avendo in cambio salva la vita per sé e la propria famiglia.
Dopo la distruzione di Troia, Antenore raggiunse il nord Italia (è infatti considerato il fondatore di Padova e il capostipite dei Veneti).
Secondo Tito Livio, invece, Antenore ottenne la libertà dagli Achei grazie al ruolo moderato che avrebbe svolto durante la guerra.
Comunque siano andate le cose, egli giunse nel Veneto con alcuni alleati dei Troiani (i Meoni di Mestle e i Paflagoni rimasti senza guida dopo la morte del loro comandante Pilemene), e fondò Antenorea, denominata in seguito Padova.
Qui sorgerebbe la sua tomba.
Antenore sposò Teano, adottando Mimante, il bimbo nato da un precedente matrimonio della moglie, e da lei ebbe poi numerosi figli, tutti maschi, che presero parte alla difesa di Troia: a Coone, il maggiore, seguirono Glauco, Agenore (padre di Echeclo, pure lui guerriero benché ancora giovinetto), Archeloco, Acamante, Eurimaco, Elicaone, Polidamante, Demoleonte, Laodamante, Laodoco, Anteo, Polibo, e Ifidamante, l'ultimogenito.
Una versione lo dice padre pure di Laocoonte.
Si unì anche ad una schiava, dalla quale ebbe un figlio di nome Pedeo, allevato con affetto da sua moglie legittima.
Nei cinquanta giorni di guerra narrati nell'Iliade, Antenore perde sette figli ed il nipote Echeclo.
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