Lettera spedita al quotidiano “Il Mattino” di Napoli dal sottoscritto.
In questo periodo mi domando spesso come mai, all’iniziativa da parte dell’attuale governo di festeggiare la ricorrenza dei 150 dell’unità d’Italia, non corrisponda una presa di posizione indignata, seguita da iniziative forti da parte del sud attraverso i suoi organi di informazione.
Come può un carnefice pretendere che le vittime festeggino i massacri subiti?
La mia patria – la Sardegna- allora, suo malgrado, si trovava dalla parte sbagliata, tuttavia ho ben chiaro la tragedia che ha subito il popolo meridionale. E’ per questo che sollecito il vostro quotidiano ad intraprendere delle iniziative serie atte ad evitare che sia realizzato questo progetto sciagurato, oltraggioso, ideato nel totale disprezzo della verità. Il popolo meridionale deve mobilitarsi da subito perché le celebrazioni non avvengano. Non solo: dovete pretendere di trasformare la data in un evento che commemori i morti dei massacri e mettere questo stato fittizio, nato sul sangue e la sopraffazione, di fronte alle sue responsabilità storiche. Costringere i suoi rappresentanti a porgere le scuse al sud e pretendere che cambi completamente la storiografia fondata sulla retorica risorgimentale, la quale assegna un ruolo di padri ” amorevoli” della patria a personaggi che invece furono degli incalliti assassini.
Soprattutto incominciare a riconsiderare la storia riesumando tutte le verità, così da dare loro i giusti connotati politici da cui trarre gli strumenti per una vostra ineludibile indipendenza da uno stato che non vi ha mai accettato.
Il sud può farcela da solo, ma dovete prendere coscienza con fiducia delle vostre potenzialità: alle condizioni attuali sarete sempre destinati al ruolo di colonia, adatta solo a fornire forza lavoro al sistema produttivo del nord. Dovete reclamare il ritorno allo stato del sud perché tale era prima che venisse aggredito e violentato: lo dovete fare in memoria di coloro che combatterono, morirono, furono torturati e imprigionati a difesa dei valori che esso incorporava; per i milioni dei vostri antenati che furono costretti a trovare rifugio nelle Americhe dopo che fu fatta terra bruciata; perché Napoli ritorni ad essere una grande capitale come lo fu prima di essere stata depredata delle sue risorse economiche e culturale. Lo dovete al popolo del sud di oggi , il quale merita di realizzare i propri modelli di sviluppo secondo la propria visione della vita e non invece secondo gli occhi famelici di speculatori che agiscono con logiche colonialiste consolidatesi tra gli antichi potentati , nei 150 di falsa unità.
Lo dovete fare anche perché il nord si è posto nella condizione politica di scaricarvi quando vuole.
Lo dovete fare per la vostra dignità.
Deus cherzat ca cust’istadu fraigadu a pitzus de sas faullas no bi siet prus: torramus a su chi fiat ainnanti de su bochidorgiu pro fraigare un unidade de amistade tra sos populos mediterraneos.
traduzione: Dio voglia che questo stato fondato sulle menzogne non ci sia più, ritorniamo al periodo precedente ai massacri per costruire una vera amicizia tra i popoli mediterranei.
24 Luglio 1861, leggete questa pagina di diario “ Mancando il necessario per causa dei ribelli fui incaricato di far del mio meglio al recupero di che mettere nelle caldare.
Preso il carro mossi in direzione di Pondelandolfo dove giorni prima ne avevo scorto masserie e depositi appena fuori dalle mura.
Circondata una casa ci avvicinammo cauti. Improvvisamente dal piano sovrastante ne apparve un giovinetto che imbracciando un fucile incominciò a far fuoco senza riparasene.
Colpiti due bersaglieri ed ucciso il cavallo del traino, rispondemmo al fuoco.
Entrammo nella masseria dove trovammo tracce di uomini ormai lontani protetti da volti di donne muti e senza sentimenti. Si prese ogni cosa potesse servir alla truppa ed ai briganti.
Poi lasciammo al fuoco il resto mentre le donne cercavano di ricoprirsi dalla violenza della truppa. Rientrando scorgemmo sul monte a ridosso della strada le sagome dei briganti che da lontano avevano assistito alle sorti dei loro rifugio”.
LETTERA APERTA AI GIORNALI LA PROTESTA DELLE DONNE
Abbiamo da poco assistito alla sfilata delle donne che vogliono reclamare la loro presunta dignità perduta, a causa del comportamento del Presidente del Consiglio. Le stesse donne che in molte altre occasioni hanno sfilato e urlato recriminando la libertà sessuale all’insegna del motto “il corpo è mio e ne faccio quello che voglio io!” vale a dire: “lo offro a chi mi pare e piace”, dopo aver provocato e sedotto gli uomini con mille astuzie, anche con denunce e risarcimenti da capogiro, se qualche sprovveduto non gradito finisce per abboccare troppo facilmente all’amo delle loro raffinate “trappole” femminili! quelle donne che hanno voluto e vogliono aborto e pillole abortive, con uno sterminio di milioni di bimbi innocenti in Italia e nel mondo. Le stesse donne che sono a favore dei matrimoni gay e delle adozioni di poveri bambini, quando solo il 5 % delle coppie regolari riesce ad avere un bimbo.. Hanno sfilato le stesse donne che sono a favore del “gender” che prevede la possibilità di cambiare sesso e di accoppiarsi a piacere con uno o più partner sia omo, che etero, che trans, o altro, dando in tal modo la possibilità anche ai loro figli adolescenti, ai loro mariti, di assecondare le loro “tendenze sessuali”, ora in un verso, ora in un altro, ora tutti insieme, per una maggior “fruizione personalizzata del sesso”, diventata ormai la cosa più importante e prioritaria “da legalizzare” sul nostro pianeta, più del problema della fame nel mondo. Per finire si tratta delle stesse donne che urlano in favore dell’eutanasia, dei divorzi rapidi, della droga libera e gratuita, e chi più ne ha più ne metta. Quando mai queste donne hanno alzato la loro voce, ad esempio, contro la schiavitù delle donne islamiche, contro l’infibulazione che praticano clandestinamente anche qui da noi, contro la lapidazione, contro il burka, contro la donna-proprietà del marito che può essere ripudiata subito senza riasrcimento, senza pietà; chi di queste donne ha protestato contro chi uccide la propria figlia perchè veste alla occidentale? Silenzio assoluto dal mondo femminile occidentale che invece, guarda caso, sa trasformarsi in uragano quando si tratta di criminalizzare uno solo dei tantissimi festini più o meno leciti che avvengono purtroppo ogni giorno in ogni città d’Italia! O forse, care donne, pensate che basti conoscere la nostra lingua per far parte della nostra cultura? Di quella cultura cristiana che viene ormai continuamente disprezzata e calpestata, proprio quella cultura che ci ha resi liberi di compiere anche il male! Si, perché il cristianesimo è innanzitutto libertà di coscienza, sia nel bene che nel male, ma quando la si usa per il male, allora, anche se il mondo apparentemente applaude nella sua quasi totale perversione, sta di fatto che prima o poi ciascuno di noi dovrà fare i conti con la propria coscienza e con Dio, Giusto Giudice, anche della nostra coscienza personale, e non occorre aspettare l’aldilà: basta vedere quanta infelicità, odio, disperazione… albergano ormai nel cuore di quasi tutti gli uomini e le donne che hanno rifiutato l’amore di Dio per assecondare i loro capricci e le loro perversioni! patrizia.stella@alice.it
El Movimento Sudtirolexe pa la Libartà – Aleànsa Lìbara pa el Sud Tiròl "Libartà Sudtiroléxe la xé na aleànsa libaràl – patriòtega ca la dimànda el dirìto l'autodeterminasiòn pal Pòpolo Tiroléxe.
La nòstra Tèra, la xé sòto ocupasiòn dal 1918, ocupà da el stàto taliàn e nàltri a sevitémo conbàtar sta situasiòn d’einjustìsia. Na ròba fa 350 mila tirolìxi de lengoa màre jermànega li vìve in sto teritòrio ocupà da la itàlia e li sèvita lotàr pa mantignìr tradisiòn e costumànse.
Mantignìr coltùra e tradisiòn còntro on stàto stranièro a xé na gràn sfìda. La itàlia la xé deso rente el colàso econòmego e drìo ànca la nòstra tèra, ca la xè rìca, ma ca la sòfre sòto l'incapasità de el stàto taliàn. Segon el nostro sentìr, l'ònega salvèsa la xè la independensa de la nostra tèra da el stàto taliàn.
Inte el 1918, dòpo la 1° goera mondiàl, l'exèrsito taliàn el ga invadesto e ocupà la parte meridionàl de la rejòn Ostrìaca del Tiròl, contro el volèr del presidente Mericàn Woodrow Wilson, ca el gheva dichiarà inte i so coatòrdexe pònti, ca i confìni de la itàlia li gavarìa da èsar sta segnà dài confìni de Pòpoli definìi e ricognosòbili.
Ma el tratà secrèto de Lòndra, co che la itàlia la ga inganà i aleà, el garantìva el "confìne del Brènnero". Sto confìn el divide ncòra ancò el Tirol. El goerno taliàn fasìsta el ga dòpo fèsto patìr la deportasiòn e l'opresiòn al Pòpolo tirolexe. Hitler el gheva concordà co Musolìni l'exìlio dei Tirolìxi, e pa sta raxòn ògni propaganda in favòr del Pòpolo tirolexe la xèra sta proibìa in Jermània e Ostria. Fasìxmo e Nasionàlsolsialixmo li xè i bechìni de la nostra Nasiòn. A no toleremo pì gnisòn estremìxmo polìtego.
Pa consegoensa, i ga sarà le scòle todesche e i ga proibesto de rivèrxarle. I ga italianixà tùti i nòmi todèschi, fin le prìe dei simitèri, e ancò la toponomastega fasìsta la vien ncòra doparà. Ghe xè fìn ncòra i monumìnti fasìsti, mantignìsti co i nòstri schèi. I polìteghi taliani fa l'ex mininstro dèi èstari Gianfranco Fìni, presidente del partìto nèofasista (deso PDL) li mantièn serimònie soleni a la memòria dei soldà fasìsti sòto el "Monumento alla Vittoria" de Bolzàn, capitàl del Sud Tirol.
Sta xènte taliàna la festèja la vitòria contro el nòstro Pòpolo, na vitòria ca storegamente no la xé militàr, parchè fìn dela 1° goèra mondiàl gnànca on soldà taliàn el xèra intrà in Sud Tiròl. L'exèrsito taliàn el ga ocupà el nòstro teritòrio traverso la diplomasìa, traverso le buxìe e i tradimìnti e gnànca co na vitòria militàr fa a vorìa fàr crèdar el "Monumento alla Vittoria".
Ancò, inte el tènpo dei dirìti omàni e de le libartà, el nòstro Pòpolo no el ga gnancòra risevesto el dirìto de autodeterminasiòn. Volemo cusì on referendum a ndo a se dimande al Pòpolo sudtirolexe sa el vol restàr sòto dominasiòn taliàna o tornàr èsar indepandente. El stàto taliàn el ne ga mài parmetesto on refarendum. Libartà pa el Sud Tirol ca no el xé mai stà e mai el sarà itàlia.
Nàltri tolemo exènpio dai prinsìpi dei dirìti omàni. Le nòstre desixiòn le va drìo i prinsìpi del dirìto e de la justìsia.
I nostri obietìvi prìmi a li xé :
1. Autodeterminasiòn
El dirìto l'autodeterminasiòn dei Pòpoli el xè pàrte de l'artìgolo nòmaro on dèi pàti so i dirìti dei omàni e pa sta raxòn espresiòn de libartà ca ògni Pòpolo el pòl rivendegàr. La divixiòn del Tiròl e l'anesiòn del Sud Tirol a el stàto taliàn le xè de le violasiòn dela raxòn e dela legalità, e pi de tùto de la volontà de on Pòpolo. Dal momento de l'invaxiòn taliàna, el Sud Tirol el ga dovesto patìr l'estinsiòn e ancò no el ga gnancòra garansìe pa poder mantignìr la so coltùra e léngoa. El nòstro Pòpolo, el xè na minorànsa inte on stàto forèsto e l'autonomìa da ela sòla no la bàsta mìa pa salvàrlo da l'asimilasiòn e italianixasiòn forsà. Pa sta raxòn, l'ònego metodo ca el podarà risòlvar sta situasiòn, a xé on referendum ca el podarà parmetar de risolvar la chistiòn sudtiroléxe.
2. Nasiòn
Dirìto a la lengoa natìva (màrelengoa). La lengoa natìva el xé l'elemento de identità colturàl nòmaro òn, pa sta raxòn el xè on dirìto fondamentàl. Masa òlte, el stàto taliàn el fà mùro o no vol doparàr la lengoa Tiroléxe, ànca còntro le normatìve del statùto autònomo spesiàl. Pa sta raxòn, se ga da aplegar contròli sevèri so i concòrsi e asegnasiòn de laòri piòveghi e restrisiòn e sansiòn in càxo de violasiòn del dirìto a la màre lengoa. No se tràta de provocasiòn, ma de fàr rispatàr on dirìto. Isteso vàl pa el Pòpolo Ladìno.
3. Na Euròpa pluralistega
Ancò, l'Euròpa la xé ncòra na organixasiòn de stàti e no na comunità de Popoli e de rejòn. L'Europa no la pol restàr na uniòn de stàti fòrti e onifòrmi. La richésa e forsa de l'Europa la xè la pluralità de lengoe e de coltùre. Pòpoli e grùpi etneghi de dimensiòn picenéte li podarà sopravìvar sa a se sarà bòni ricognòsar el valòr de sta richèsa e ca la diversità no la xé na minàsa, ma on valòr.
Dopo il passaggio delle competenze sul Canal Grande spunta un altro caso. Nel «taglianorme» finisce anche il decreto regio del 1866
VENEZIA – Ci hanno provato raccogliendo firme per complessi referendum separatisti, ci hanno riprovato processando la Repubblica italiana in piazza – e condannandola ovviamente – e hanno perfino comprato terreni su terreni alle pendici dei monti per dichiarare indipendente un’intera vallata del bellunese.
Hanno perfino costituito bande armate e hanno sfidato la prigione arrampicandosi sulla cima del campanile di San Marco, entrando in piazza con un carro armato. Mai nessun indipendentista però avrebbe pensato che fosse proprio Roma a regalare l’indipendenza al Veneto. Continua a leggere→
una piccola semplice parola di origine veneta... Hello, Hallo, Hola, Bonjour, Ola, Helo, مرحبا, Բարեւ Ձեզ, Salam, Kaixo, হ্যালো, Прывітанне, halo, Здравейте, ahoj, 你好, 你好, 안녕하세요, Bonjou, Bok, Hej, שלום, Saluton, Tere, Hei, გაუმარჯოს, こんにちは, Γεια σας, હેલો, नमस्ते, nyob zoo, Halo, Dia duit, halló, ಹಲೋ, ជំរាបសួរ, ສະບາຍດີ, salve, sveiki, Sveiki, Здраво, हॅलो, Hallo, سلام, Olá, Alo, привет, Здраво, ahoj, Pozdravljeni, Hallå, hujambo, สวัสดี, வணக்கம், దూరంగా ఉండేవారిని పిలుచుటకు వాడే ఓ శబ్ధ విశేషము, Merhaba, Привіт, Helló, خوش , chào, העלא … dal veneto: s'ciavo (schiavo)
Salutare dicendo "schiavo" può parere strano.
Ma così come altre espressioni di saluto – ad esempio "servo suo" – è il retaggio di un rispetto profondo che si rinnovava ad ogni incontro mettendosi simbolicamente a disposizione dell'altro come un servo, come uno schiavo.
23 maggio 1992 il Magistrato Giovanni Falcone la sua compagna e tutta scorta vengono fatti letteralmente esplodere da una montagna di tritolo dalla mafia.
La strage di Capaci fu un attentato messo in atto da Cosa Nostra in Italia, il 23 maggio 1992, sull'autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci nel territorio comunale di Isola delle Femmine, a pochi chilometri da Palermo.
Nell'attentato persero la vita il magistrato antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
Gli unici sopravvissuti furono Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e Giuseppe Costanza.
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« La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni. »
Giovanni Falcone
Giovanni Salvatore Augusto Falcone (Palermo, 18 maggio 1939 – Palermo, 23 maggio 1992) è stato un magistrato italiano.
Fu assassinato con la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta nella strage di Capaci per opera di cosa nostra.
Assieme al collega e amico Paolo Borsellino è considerato una delle personalità più importanti e prestigiose nella lotta alla mafia in Italia, anche a livello internazionale.
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Vito Schifani (Palermo, 23 febbraio 1965[1] – Capaci, 23 maggio 1992) è stato un agente di Polizia italiano.
Agente della scorta di Giovanni Falcone, venne ucciso nella strage di Capaci.
Era al volante della prima delle tre Fiat Croma che riaccompagnavano il magistrato, appena atterrato a Punta Raisi da Roma, a Palermo.
Al suo fianco stava l'agente scelto Antonio Montinaro, sul sedile posteriore l'agente Rocco Dicillo; Falcone guidava la Croma bianca che li seguiva, sulla quale viaggiava anche la moglie Francesca Morvillo.
Nell'esplosione, avvenuta sull'Autostrada A29 all'altezza dello svincolo per Capaci, i tre agenti morirono sul colpo, dato che la loro Croma marrone fu quella investita con più violenza dalla deflagrazione, tanto da essere sbalzata dal manto stradale in un giardino di olivi a più di dieci metri di distanza.
Schifani aveva 27 anni e lasciò la moglie Rosaria Costa, 22 anni e un figlio di appena 4 mesi. Quando, nella camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia a Palermo, il Presidente del Senato Spadolini si avvicinò alla vedova, lei gli disse: « Presidente, io voglio sentire una sola parola: lo vendicheremo. Se non puoi dirmela, presidente, non voglio sentire nulla, neanche una parola. »
Le parole che poi Rosaria pronunciò ai funerali del marito, di Falcone, della Morvillo e del resto della scorta fecero presto il giro dei notiziari per la disperazione ma anche lucidità che ne traspariva:
« Io, Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato…, chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso.
Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare…
Ma loro non cambiano… […] …loro non vogliono cambiare…
Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore… »
(Enrico Deaglio, Patria 1978-2008, Il Saggiatore, Milano, 2009, pag. 367.)
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Rocco Dicillo (Triggiano, 13 aprile 1962 – Capaci, 23 maggio 1992) è stato un agente scelto di Polizia italiano.
Agente della scorta di Giovanni Falcone, ucciso nella strage di Capaci.
Dicillo viaggiava sul sedile posteriore della prima delle tre Fiat Croma che riaccompagnavano il magistrato, appena atterrato a Punta Raisi da Roma, a Palermo.
Rocco Dicillo è seppellito nel cimitero di Triggiano, suo paese natale, dove gli sono state intitolate una piazza e una via.
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Antonio Montinaro (Calimera, 8 settembre 1962 – Capaci, 23 maggio 1992) è stato un poliziotto italiano.
Assistente della Polizia di Stato, era il capo della scorta di Giovanni Falcone, ucciso nella strage di Capaci.
Montinaro aveva 30 anni e lasciava la moglie Tina e due figli.
Tina Montinaro è una delle promotrici dell'associazione vittime di mafia, e da anni gira l'Italia per parlare del sacrificio di suo marito e della necessità della lotta alla mafia.
In sua memoria il Comune di Calimera ha intitolato una piazza ed eretto un piccolo monumento costituito da un masso estratto dal luogo dell'attentato e da un albero di mandarino di Sicilia.
15 ottobre 1987 – 15 ottobre 2016 Veniva assassinato oggi Thomas Sankara, rivoluzionario, leader e primo Presidente del Burkina Faso.
Dedicò la sua vita alla lotta per eliminare la povertà.
Un UOMO da cui trarre esempio e che vale la pena ricordare.
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Thomas Sankara, il "Che Guevara" africano ucciso nella terra degli uomini integri
Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso dall'agosto del 1983 al 15 ottobre del 1987, è uno di quei personaggi di cui pochi conoscono l'esistenza. Eppure – oggi che ricorre il 28° anniversario della sua uccisione – vale la pena ricordare chi è stato e quanto la sua scomparsa abbia pesantemente inciso sui ritardi nella crescita civile, democratica ed economica dell'intero continente africano.
L'agguato.
Ouagadougu, ore 16,30 di giovedì 15 ottobre del 1987.
La sessione straordinaria del Consiglio Nazionale della rivoluzione del Burkina Faso sta per avere inizio nel salone di un edificio – vetro e cemento – che si trova in un complesso nell'immediata periferia di Ouaga, come la chiamano gli abitanti della capitale.
Il breve corteo di auto nere che accompagna Thomas Sankara, 38 anni, giovane presidente della Repubblica, un militare dai profondi sentimenti democratici, abbandona la strada asfaltata e s'immette su un breve tracciato di terra rossa per raggiungere la recinzione che circonda l'edificio.
Sull'auto, appena girato l'angolo, sono già puntate le armi dei suoi assassini.
Non c'è scampo per nessuno.
Dagli arbusti attorno alla costruzione viene lanciata una granata contro il corteo di Renault.
Viene colpita l'auto con a bordo il presidente.
A morire sul colpo sono il suo addetto stampa, Paulin Bamoumi e Frederic Ziembie, consigliere giuridico.
Thomas Sankara è ferito e viene trascinato dalle guardie del corpo sotto il pergolato dell'edificio, da qui gli uomini della scorta reagiscono sparando verso i cespugli dai quali è partita la bomba.
Ma si accorgono subito che non c'è scampo per nessuno.
L'edificio è circondato da gente che lancia granate verso l'edificio.
Sankara trova addirittura la forza per alzarsi in piedi, ma viene letteralmente falciato da una raffica di Kalashnicov.
Morirà steso a terra, in un lago di sangue, dopo più di mezz'ora d'agonia, mentre attorno il commado finisce la strage, sparando a tutto ciò che si muove.
Le sue parole pesanti al mondo occidentale.
La storia recente dell'Africa ha nella morte di Sankara – nonostante sia rimasto alla guida del suo paese solo 4 anni – il punto di svolta, il momento in cui è stato dirottato il corso degli eventi dell'intero continente.
Del resto, come poteva durare a lungo uno così?
Sankara (il Che Guevara africano) aveva cambiato nome al suo paese, da Alto Volta a Burkina Faso (la terra degli uomini integri) e non perdeva occasione per andare in giro a dire cose come queste: "Ci hanno prestato i soldi gli stessi che ci hanno colonizzato.
E allora, cos'è il debito se non un neocolonialismo governato dai paesi che hanno ancora 'pruritì imperiali?.
Noi africani siamo stati schiavi e adesso ci hanno ridotto a schiavi finanziari.
Quindi, se ci rifiutiamo di pagare, di sicuro non costringeremo alla fame i nostri creditori.
Se però paghiamo, saremo noi a morire.
Quindi dobbiamo trovare la forza di dire a costoro guardandoli negli occhi che sono loro ad avere ancora debiti con noi, per le sofferenze che ci hanno inflitto e le risorse immani che ci hanno rubato".
La trama di Campaoré.
Nessuno tra quanti si sono incaricati di scrivere la storia recente del Burkina Faso ha escluso che dietro il violento colpo di Stato e l'omicidio di Sankara ci fosse la mano di Blaise Compaoré, salito al potere proprio il giorno stesso dell'uccisione del giovane presidente (il 15 ottobre 1987) e rimasto in carica – ininterrottamente – fino al 31 ottobre dell'anno scorso.
Compaoré si è sempre rifiutato di autorizzare un'inchiesta sulle circostanze che hanno portato alla morte il suo predecessore.
Il ruolo delle forze nell'ombra.
Naturalmente, il "gioco" sanguinoso che lo ha portato al potere, Campaoré non lo ha gestito da solo.
Hanno dato sicuramente una mano le zone oscure dei servizi segreti di paesi ex coloniali, di nazioni confinanti e persino di criminali ricercati dalle polizie di mezzo mondo, come Charles Taylor, il mercenario senza scrupoli, l'uomo che ha alimentato il conflitto civile in sierra Leone per il controllo delle miniere di diamanti, al soldi di chissà chi, e che dal 1991 al 2001 ha paralizzato il paese, provocando 50.000 morti e accusato di omicidi, stupri, amputazioni, reclutamento di bambini soldato.
Sepolto in fretta e furia.
A Thomas Sankara venne data sepoltura in fretta e furia la sera stessa della sua morte.
La sua salma riposa a Dagnoën, dentro una tomba sbrecciata e senza fiori, in un quartiere nella zona orientale di Ouagadougou.
Ancora oggi, sia la famiglia che i suoi numerosi e disorganizzati sostenitori, non credono che il suo corpo di Thomas Sankara si trovi davvero lì.
E questo spoega forse in parte il fatto che la tomba appare oggi desolatamente disadorna e semi abbandonata.
Il sogno interrotto di Sankara.
Ecco, il quadro nel quale il "Che Guevara africano" è stato eliminato era questo: da una parte, il suo coraggio, la sua vitalità rivoluzionaria nel voler cambiare volto all'Africa, il suo pragmatismo maturato nella carriera militare e la sua incerta dimestichezza con la diplomazia; ma dall'altra, la morsa invisibile degli interessi rapaci dei potentati economici internazionali che continuano a depredare il continente con la complicità di leadership locali, che gravano sull'intero continente.
Si è temuto insomma che l'equilibrio post coloniale potesse essere messo in discussione, sebbene da un paese come il Burkina, che non ha mai fatto gola a nessuno, tanto assenti sono ricchezze naturali degne di nota. Il disegno eversivo si è dimostrato comunque lungimirante, perché l'Africa è ancora lì, con i suoi Pil in crescita, qua e là, con alcuni incoraggianti segnali di crescita a macchia di leopardo. Ma il vero riscatto, quello sognato da Sankara, quello appare al momento ancora assai lontano all'orizzonte.
11 settembre brutta data vero?
…no non mi riferisco alla mezza farsa delle torre gemelle…mi riferisco al 11 settembre del 1973!!
Quando il compagno Salvador Allende presidente fantastico del Cile democratico venne trucidato dalla soldataglia di quel delinquente assassino di Pinochet protetto dai nostri "amici" amerikani!!!
Comicia cosí un viaggio nella barbarie durato molti anni con migliaia di morti democratici cileni…ma questa storia è meglio non saperla vero? Meglio ricordare il 2011 fa più comodo!
Onore al presidente Allende morto da uomo con il fucile in mano dentro il palazzo presidenziale!!
“Se qualcuno di voi piangerà al mio funerale, non vi parlerò mai più”.
Arthur Stanley Jefferson, a tutti gli appassionati del mondo noto come Stan Laurel, “Stanlio”, nel nostro Paese, morì cinquant’anni fa.
Alle 13,45 del 23 febbraio 1965, ricorda Wikipedia, a 74 anni, nella sua suite, la 203, nell’Hotel Oceana a Santa Monica, dove viveva da alcuni anni.
Si era trasferito lì con la moglie, pochi mesi dopo la scomparsa, il 7 agosto del 1957 del suo amico e partner d’una vita di cinema e spettacolo, Oliver Hardy, “Ollio”, tanto per rimanere nelle traduzioni italiane.
“Stanlio e Ollio” sono parte della storia del cinema, anzi furono e rappresentarono un certo meraviglioso, sereno, sognante cinema d’altri tempi che, guarda caso, oggi riscopriamo con nostalgia, e non solo negli spezzoni “fiume” trasmessi nelle festività comandate.
Stan era nato a Ulverston, una città dell’Inghilterra settentrionale, in Cumbria, il 16 giugno del 1890 ed era stato, come noto, attore, comico ed anche regista, produttore cinematografico e sceneggiatore.
Una personalità creativa, eclettica che aveva l’arte nel suo stesso bagaglio genetico.
Il papà Arthur J. Jefferson era a sua volte artista e impresario, la madre, ricordano le note sulla sua vita, Madge Metcalfe, era a sua volta attrice drammatica.
La personalità del giovanissimo Stanley si fece notare subito.
Dopo una serie di esperienze in palcoscenico entrò nel 1909 nella compagnia di Fred Karno.
Lo scriviamo perché gli attori di Karno avevano come "capo" un certo Charlie Chaplin.
I due, Stan e Charlie, avevano un anno di differenza.
Insieme divisero oneri e onori di un paio di tournee teatrali nel 1910 e nel 1912 e pure le camere d’albergo.
Il successo arrivò, clamoroso, narrano le cronache, quando Chaplin non accettò un ruolo, quello principale di “Jimmy the fearless”.
Stan ebbe la parte e alcune serate trionfali.
Il resto della favola bella, amara e difficile, come la vita, di Stan è noto: conobbe una bella cantante australiana, Mae Dahlberg, e con lei elaborò una nuova versione artistica del suo cognome.
Non più Jefferson ma “alloro”, pare scelto a caso da un volume.
Appunto, in inglese “laurel”.
Stan “alloro” poco dopo, a Los Angeles, ebbe il suo primo film.
Era il 1917.
Nel corso degli anni girò diversi film (anche con Larry Semon, in Italia meglio noto come ‘Ridolini’) e, dicono i vari resoconti, risultò molto divertente.
Sono i tempi dei sodalizi vincenti, di “The lucky dog”, delle Stan Laurel Comedies, degli Hal Roach Studios.
Sono anni ruggenti.
Comicità e creatività, anche a livello di montaggio e creazione di gag, andavano di pari passo.
Le prime parti in coppia con Oliver Hardy arrivarono in quel periodo.
Il primo film girato insieme fu Duck Soup, nel 1927, ma ancora senza quei ruoli che avremmo conosciuto più avanti, per lo meno, non così definiti.
Aneddoto interessante, Stan non voleva fare coppia fissa, inizialmente, con Oliver: ormai preferiva dedicarsi al ruolo di regista.
Forse meditava anche di lasciare la recitazione.
Non andò del tutto così e, dal 1927 in avanti, quando i rispettivi ruoli divennero chiari, in scena, fu un vero e proprio trionfo.
Ricordi legati a un ritornello?
Come non ricordare il “cuckoo song”, la "loro" canzone che ne accompagnerà per sempre l’evocativa entrata in scena?
Grazie a Marvin Hatley le musiche ce li consegneranno per l’eternità e saranno all’infinito il ritmo evocativo della loro comicità.
Stanlio e Ollio attraversarono una intera epoca e dalle persone furono amati.
Eccoli nella Grande Depressione, durante la Seconda Guerra Mondiale, influenzeranno con il loro stile modi di dire e costumi, riti e gestualità.
Furono l’epoca, la loro, crearono i presupposti per la comicità di oggi, rimasero e rimarranno per sempre inimitabili.
Allora, prima di levarci a nostra volta la bombetta dal capo e rendere doveroso omaggio a Stan e, è ovvio, anche al romantico, dolcissimo Olly, “Babe” per gli amici, pensiamo giusto ad alcuni film fra gli innumerevoli che li videro protagonisti un tempo e oggi delle nostre favole belle.
Fra Diavolo, ad esempio, Il Compagno B, Avventura a Vallechiara, Gli allegri imbroglioni, I Diavoli Volanti, Noi siamo le colonne, I due legionari. Così, giusto per citare e ringraziare per averci rasserenato, fin da bambini, nei mille giorni della vita che appena scoprivamo.
Restiamo qui, come per ogni lieto fine che si rispetti, a guardare lontano, un po’ stupefatti e tristi, “gli asini che volano nel ciel”.
E forse, se ci sforziamo un poco, li vediamo davvero.
“…Sento che è guarito il cuor dall'estasi d'amor…”.
Grazie per tutta questa poesia e il sorriso pulito che ci avete regalato.
La Rivoluzione ungherese del 1956, nota anche come Insurrezione ungherese o semplicemente Rivolta ungherese, fu una sollevazione armata di spirito anti-sovietica scaturita nell’allora Ungheria socialista che durò dal 23 ottobre al 10 – 11 novembre 1956. Inizialmente contrastata dall’ÁVH ungherese (Államvédelmi Hatóság, ‘Autorità per la Protezione dello Stato’) venne alla fine duramente repressa dall’intervento armato delle truppe sovietiche.
Morirono circa 2.652 Ungheresi (di entrambe le parti, ovvero pro e contro la rivoluzione) e 720 soldati sovietici. I feriti furono molte migliaia e circa 250.000 (circa il 3% della popolazione dell’Ungheria) furono gli Ungheresi che lasciarono il proprio Paese rifugiandosi in Occidente.
La rivoluzione portò a una significativa caduta del sostegno alle idee del comunismo nelle nazioni occidentali.
Il Partito comunista ungherese approfittò della Prima Conferenza mondiale dei partiti comunisti, che si tenne a Mosca nel novembre 1957, per far votare la condanna a morte di Nagy da tutti i dirigenti comunisti presenti, fra cui Maurice Thorez e Palmiro Togliatti, con l’unica eccezione del polacco Gomulka.
Nagy fu condannato a morte e impiccato il 16 giugno 1958.
Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli“. Giorgio Napolitano ex Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi.
L’Unità arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo“.
Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…“.
Gli operai di Poznań, in Polonia, insorsero il 28 giugno 1956 al grido di pane e libertà contro il regime oppressivo mantenuto dai sovietici.
La rivolta fu repressa nel sangue con i carri armati dal generale sovietico Konstantin Rokossovsky, allora ministro della guerra polacco.
Gli operai uccisi dai militari furono circa 100.
La rivolta diffuse un vivo fermento in tutta la Polonia, che si propagò anche in Ungheria sino a esplodere nella insurrezione del 23 ottobre.
Per allontanare il pericolo di una sollevazione in Polonia, i russi furono costretti ad allentare le redini della dittatura aprendo qualche spiraglio di libertà nel Paese.
Furono liberati in quella circostanza, dagli insorti, il cardinale Stefan Wyszyński, nonché il dirigente comunista Władysław Gomułka, nel 1949 imprigionato sotto l’accusa di ‘titoismo’.
L’Unità approvò la repressione e in quei giorni scrisse:
«La responsabilità per il sangue versato ricade su un gruppo di spregevoli provocatori che hanno approfittato di una situazione temporanea di disagio in cui versavano Poznan e la Polonia»
Moti operai in Germania
I Moti operai del 1953 in Germania Est si svolsero nel giugno e luglio del 1953.
Uno sciopero degli operai edili si trasformò in una rivolta contro il governo della Germania Est.
A Berlino la rivolta venne schiacciata con la forza dal Gruppo delle Forze Sovietiche in Germania
Nel maggio 1953, il Politburo del Partito di Unità Socialista della Germania (SED) innalzò le quote di lavoro dell’industria tedesca orientale del 10 percento.
Il 15 giugno, una sessantina di operai edili di Berlino Est iniziarono a scioperare quando i loro superiori annunciarono un taglio di stipendio in caso di mancato raggiungimento delle quote.
La loro dimostrazione il giorno seguente fu la scintilla che causò lo scoppio delle proteste in tutta la Germania Est.
Lo sciopero portò al blocco del lavoro e a proteste in praticamente tutti i centri industriali e le grandi città del Paese.
Le domande iniziali dei dimostranti, come il ripristino delle precedenti (e inferiori) quote di lavoro, si tramutarono in richieste politiche.
I lavoratori chiesero le dimissioni del governo della Germania Est.
Il governo, per contro, si rivolse all’Unione Sovietica, che schiacciò la rivolta con la forza militare.
Ancora oggi non è chiaro quante persone morirono durante le sollevazioni e per le condanne a morte che seguirono.
Il numero ufficiale delle vittime è 51.
Dopo l’analisi dei documenti resi accessibili a partire dal 1990, il numero di vittime sembrerebbe essere di almeno 125.
Malgrado l’intervento delle truppe sovietiche, l’ondata di scioperi e proteste non venne riportata facilmente sotto controllo.
In più di 500 città e villaggi ci furono dimostrazioni anche dopo il 17 giugno.
Il momento più alto delle proteste si ebbe a metà luglio.
L’Unità, l’organo del Partito Comunista Italiano, il 19 giugno 1953, dopo l’intervento dei carri armati sovietici a Berlino Est, approvò senza riserve la repressione definendo la rivolta un ‘complotto a opera degli statunitensi e di Adenauer’.
Giornata del ricordo a Maserada: il Comune vieta una targa in memoria delle foibe
Polemiche tra il "Gruppo Sì Cambia – Quinto Sindaco" e l'amministrazione comunale locale rea di non aver concesso di scoprire una targa in memoria dei morti nelle foibe
MASERADA SUL PIAVE (TV)
In seguito alla serata organizzata dal gruppo Auditorium di Maserada a commemorazione delle vittime delle foibe a cui il "Gruppo Sì Cambia – Quinto Sindaco" ha avuto l'onore ed il privilegio di partecipare, sabato mattina lo stesso ha deciso, come gruppo consigliare di minoranza, di rendere onore alle vittime delle foibe.
Con lo scopo di onorare il 70° anniversario "abbiamo fatto preparare una targa commemorativa che però durante la mattinata, in seguito al rifiuto dell'amministrazione comunale, non abbiamo potuto posare e scoprire ma soltanto appoggiare" ha dichiarato il consigliere comunale Carlo Ulliana.
"Ci rammarica il fatto che questa amministrazione intenda monopolizzare le iniziative fatte anche dalla comunità per la comunità: il regime comunista ha raggiunto i massimi livelli! – continua il consigliere –
Stride poi il fatto che l'amministrazione non solo non abbia autorizzato e partecipato alle iniziative organizzate, ma anche non abbia fatto niente per ricordare questa data importante per la storia d'Italia.
Ci è stato concesso di posare solo un fiore 'secondo il nostro sentire' e sabato mattina lo abbiamo fatto, perché tutti devono essere uguali di fronte alla morte.
Rimaniamo quindi ora in attesa che ci venga accordato il permesso di posare e scoprire finalmente la targa.".
Il Giorno della Memoria è una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata in commemorazione delle vittime dell'Olocausto.
È stato così designato dalla risoluzione 60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1º novembre 2005, durante la 42ª riunione plenaria.
La risoluzione fu preceduta da una sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l'Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo anniversario della liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine dell'Olocausto.
In questo giorno si celebra la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945 ad opera delle truppe sovietiche dell'Armata Rossa.
La scelta della data ricorda il 27 gennaio 1945 quando le truppe sovietiche dell'Armata Rossa, nel corso dell'offensiva in direzione di Berlino, arrivarono presso la città polacca di Oświęcim (in tedesco Auschwitz) scoprendo il tristemente famoso campo di concentramento e liberandone superstiti.
La scoperta di Auschwitz e le testimonianze dei sopravvissuti rivelarono compiutamente per la prima volta al mondo l'orrore del genocidio nazista.
Ad Auschwitz, circa 10-15 giorni prima, i nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono durante la marcia stessa.
L'apertura dei cancelli di Auschwitz mostrò al mondo intero non solo molti testimoni della tragedia ma anche gli strumenti di tortura e di annientamento utilizzati dentro a quel lager nazista.
In realtà i sovietici erano già arrivati precedentemente a liberare dei campi come quello di Chełmno e quello di Bełżec ma questi, essendo di sterminio e non di concentramento, erano vere e proprie fabbriche di morte dove deportati venivano immediatamente gasati, salvando solo poche unità speciali.
La data del 27 gennaio in ricordo della Shoah, lo sterminio del popolo ebraico, è indicata quale data ufficiale agli stati membri dell'ONU, in seguito alla risoluzione 60/7 del 1º novembre 2005.
Ci sono due errori che si possono fare lungo la strada per la verità: non andare fino in fondo e non partire.
(Buddha)
AUSCHWITZ : FINE DI UNA LEGGENDA?
DI CARLO MATTOGNO
Al professor Robert Faurisson spetta il merito incontestabile di essere stato il primo ricercatore che abbia impostato sul piano tecnico lo studio del problema delle presunte camere a gas omicide con particolare riferimento al campo di Auschwitz-Birkenau. Rilevando che nessun tribunale,durante gli innumerevoli processi contro i cosiddetti " criminali di guerra nazisti ", si era mai curato di far eseguire una perizia tecnica sulla presunta arma del delitto, la camera a gas omicida, egli ha intrapreso uno studio tecnico su questo argomento visitando perfino, a scopo di documentazione, una vera camera a gas di esecuzione di un penitenziario americano.
L'introduzione nel campo storiografico di questo nuovo e proficuo principio metodologico è stato tanto più importante in quanto, all'epoca, il cardine fondamentale della storiografia sterminazionista era quel dogmatismo teologico che trova la sua più compiuta formulazione nella dichiarazione di storici francesi sulla presunta politica hitleriana di sterminio apparsa sul quotidiano LE MONDE il 21 febbraio 1979, secondo la quale – citó testualmente –
" Non bisogna chiedersi come, tecnicamente, un tale sterminio in massa sia stato possibile. Esso è stato possibile tecnicamente perché ha avuto luogo. Questo è il punto di partenza obbligato di qualunque ricerca storica su questo argomento " .
Jean-Claude Pressac, in diretta polemica con il prof. Faurisson, anzi, quasi per una sfida personale con lui, ha rigettato questo assioma antistorico e ha voluto studiare tecnologicamente il problema delle camere a gas e della cremazione. La sua prima opera, apparsa nel 1989, si intitola appunto : AUSCHWITZ: TECHNIQUE AND OPERATION OF THE GAS CHAMBERS; la seconda, pubblicata nel 1993, reca il titolo LES CREMATOIRES D'AUSCHWITZ. LA MACHINERIE DU MEURTRE DE MASSE. Soprattutto quest'opera, che ha goduto di un grandioso lancio pubblicitario, ha valso a Pressac la fama di specialista unico ed incontestato delle ricerche sulle tecniche di sterminio naziste, cioè sulle camere a gas omicide e sui forni crematori, e l' opera stessa viene presentata come la confutazione definitiva, totale e indiscutibile del revisionismo proprio sul suo piano prediletto, quello tecnico.
Questo libro dovrebbe costituire il complemento dell' opera precedente in virtù della ricchissima documentazione che Pressac ha studiato a Mosca, in particolare gli archivi della Bauleitung (la direzione delle costruzioni di Auschwitz), che furono lasciati "intatti" nelle mani dei Sovietici. In realtá, negli 80.000 documenti di Mosca, negli archivi integrali della Bauleitung, Pressac non ha trovato nessuna prova dell' esistenza di una sola camera a gas omicida ad Auschwitz-Birkenau.
Poichè questo libro di Pressac vuole essere la confutazione totale e definitiva del revisionismo sul piano tecnico, una semplice critica storica delle sue tesi era insufficiente: l' impostazione dell' opera richiedeva essenzialmente una critica tecnica. Il mio scritto AUSCHWITZ : FINE DI UNA LEGGENDA rappresenta una critica storico-tecnica delle tesi di Pressac.
Ciò premesso, passo ad esporre le principali conclusioni della mia critica all' ultima opera di Pressac cominciando dal problema della cremazione. Uno studio scientifico sui forni crematori di Auschwitz- Birkenau deve affrontare e risolvere due problemi termotecnici fondamentali: quello della capacitá di cremazione e quello del consumo di coke.
Pressac non affronta scientificamente nessuno dei due problemi, ma si limita semplicemente ad una serie di affermazioni sparpagliate qua e lá per tutto il libro, con le quali pretende di dimostrare che la capacitá di cremazione dei crematori II e IIIdi Birkenau era di 800 o 1000 cadaveri al giorno, con possibilità di estensione a 1440,mentre la capacita di cremazione di ciascuno dei crematori IV e V di Birkenau era di 500 cadaveri al giorno,con possibilità di estensione a 768.
Per quanto concerne il consumo di coke dei forni di Auschwitz-Birkenau, Pressac non dice nulla. Nel libro precedente egli afferma che dall' aprile all' ottobre 1943 i crematori di Birkenau cremarono da 165.000 a 215.000 cadaveri impiegando 497 tonnellate di coke, con un consumo medio di 2,6 kg di coke per cadavere.
Vediamo ora quale sia il valore tecnico delle affermazioni di Pressac, cominciando dalla questione del consumo di coke. Nel periodo dal 31 ottobre al 13 novembre 1941, nel forno Topf a 2 muffole del crematorio di Gusen, un sottocampo di Mauthausen, furono cremati 677 cadaveri di adulti con un consumo totale di 20.700 kg di coke, in media 30,5 kg per ogni cadavere. Poiché in media furono eseguite 52cremazioni al giorno, il forno rimase costantemente in equilibrio termico, il che significa che il consumo medio di coke fu il minimo conseguibile con quel tipo di forno. Questo dato sperimentale si può attribuire correttamente anche ai 3 forni Topf a 2 muffole del crematorio di Auschwitz, che dunque per la cremazione di un cadavere di un adulto richiedevano mediamente un quantitativo minimo di 30,5 kg di coke.
I forni Topf a 3 e a 8 muffole dei crematori di Birkenau, per il loro sistema costruttivo, presentavano dei vantaggi termotecnici che riducevano cospicuamente i consumi; in effetti, i forni a 3 muffole, per la cremazione di un cadavere richiedevano circa 20 kgdi coke, i forni a 8 muffole circa 15.
Queste cifre si riferiscono a cadaveri emaciati di adulti, i cosiddetti musulmani. Nell' ipotesi della realtá delle gasazioni omicide, considerando la presenza di cadaveri di bambini e ragazzi tra i presunti gasati, il consumo teorico minimo dei crematori di Birkenau sarebbe stato mediamente di circa 13 kg contro i 2,6 kg assunti da Pressac.
Passiamo ora alla questione della capacitá di cremazione dei crematori.
La durata media di una cremazione nei forni Topf di Auschwitz-Birkenau era di circa un' ora. Questi forni erano stati progettati e costruiti per la cremazione di un solo cadavere per volta; la loro esigua disponibilitá oraria di calore rendeva infatti impossibile una cremazione economicamente vantaggiosa, sia dal punto di vista del consumo di coke, sia da quello della durata, di due o più cadaveri insieme. La cremazione contemporanea di quattro cadaveri in un' ora, come sostiene Pressac, era dunque a maggior ragione termotecnicamente impossibile. Il funzionamento dei forni richiedeva una sosta di almeno quattro ore per la pulizia delle griglie dei focolari dalle scorie del coke, perció la capacitá massima di cremazione dei forni di Auschwitz-Birkenau era di 1.040 cadaveri al giorno.
Nell' ipotesi della realtá delle gasazioni omicide, considerando la percentuale dei bambini e ragazzi tra i cadaveri dei gasati, nonche il loro peso medio in funzione dell' etá, la capacitá di cremazione giornaliera sarebbe aumentata di 6/5 a 1.248 cadaveri al giorno. Ció non significa che le SS di Auschwitz avessero ordinato i forni in previsione della cremazione di 1.248 o anche di 1.040 cadaveri al giorno: queste sono soltanto delle cifre massime teoriche.
Tenendo conto di tutte le circostanze, si puó affermare che la Bauleitung di Auschwitz aveva ordinato alla ditta Topf le 46 muffole di Birkenau in previsione della mortalitá, nei periodi più cruciali, di circa 500 detenuti al giorno su una forza media prevista di 200.000 detenuti. La capacitá di cremazione dei crematori era dunque perfettamente adeguata all' aumento della forza del campo decisa da Himmler in previsione di una eventuale epidemia di tifo futura.
Qualcuno, argomentando astrattamente, obietta che la capacitá di cremazione di 1.040 cadaveri al giorno era eccessiva. In effetti, nell' agosto 1942 ad Auschwitz morirono in media 269 detenuti al giorno, perció la capacitá massima di cremazione era quasi 4 volte superiore al numero effettivo dei decessi, e ció dimostrerebbe l' intenzione omicida delle SS di Auschwitz.
A questa obiezione si può rispondere che in Germania, nel 1939,esistevano 131 crematori con circa 200 forni che avevano una capacitá massima di cremazione di circa 4.000 cadaveri al giorno; ma il numero dei decessi dell' intero anno fu di circa 102.000, in media circa 280 al giorno. Dunque i crematori tedeschi avevano una capacitá massima di cremazione 14 volte superiore al numero effettivo dei decessi: ció dimostra forse che i nazisti avevano l' intenzione di sterminare la popolazione civile tedesca?
Ricapitolando, Pressac assume una capacitá di cremazione massima dei forni di Auschwitz-Birkenau che é all' incirca il quadruplo di quella reale e un consumo minimo di coke per ogni cremazione che é all' incirca un quinto del consumo medio effettivo. Ció significa che le sue affermazioni riguardo alla cremazione in massa dei presunti gasati sono tecnicamente e storicamente infondate.
Lo studio dei forni crematori di Auschwitz-Birkenau offre tuttavia anche prove dirette che confutano la tesi delle gasazioni in massa. Le prove più importanti sono tre.
La prima prova si riferisce alla previsione delle SS riguardo al numero dei cremati nel marzo 1943. La nota per gli atti della Bauleitung del 17 marzo 1943 espone la stima del consumo di coke previsto per i quattro crematori di Birkenau. Il tempo di attivitá dei crematori indicato é di 12 ore. La lettera menziona anche il consumo di coke previsto, sicché si può calcolare il quantitativo di cadaveri che era possibile cremare: circa 360 cadaveri emaciati di adulti al giorno. Dal 1 al 17 marzo la mortalità media di Birkenau fu di 292 detenuti al giorno, che, in termini di consumo di coke, rappresenta l' 80% della previsione delle SS. Ció significa che questa previsione è stata calcolata sulla base della mortalità media effettiva piú un 20% come margine di sicurezza e non include affatto i presunti gasati, i quali, in questo periodo, secondo il Kalendarium di Auschwitz, furono 1.100 al giorno. Se dunque la cremazione dei cadaveri dei presunti gasati non fu prevista dalla Bauleitung, ciò significa che non ci fu alcuna gasazione omicida.
La seconda prova riguarda il consumo di coke dei crematori di Auschwitz-Birkenau. Dal 1 marzo al 25 ottobre 1943 ai crematori di Auschwitz- Birkenau furono fornite complessivamente 641, 5 tonnellate di coke. In questo periodo il numero dei detenuti morti di morte naturale fu di circa 27.300, quello dei presunti gasati secondo il Kalendarium di Auschwitz di circa 118.300, complessivamente circa 145.600 morti; ora, per i detenuti morti di morte naturale risulta una disponibilità media di coke di circa 23,5 kg per ogni cadavere, che concorda perfettamente con i consumi dei forni; per i presunti gasati più i detenuti morti di morte naturale, invece, risulta una disponibilità di 4,4 kg, il che é termotecnicamente impossibile. Perció il quantitativo di coke fornito ai crematori dal marzo all' ottobre 1943 dimostra che i crematori hanno cremato soltanto i cadaveri dei detenuti immatricolati morti di morte naturale e, conseguentemente,che non c' è stata nessuna gasazione in massa.Ricordo che, secondo la storiografia sterminazionista, in questo periodo non furonomai usate " fosse di cremazione ".
La terza prova concerne la durata della muratura refrattaria dei forni crematori. Nel suo ultimo libro Pressac afferma che ad Auschwitz ci furono 775.000 morti, di cui almeno 675.000 furono cremati nei crematori di Birkenau. La cifra di cremati addotta da Pressac é tecnicamente impossibile. L' ing. Rudolf Jakobskàtter, parlando, nel 1941, dei forni Topf con riscaldo elettrico del crematorio di Erfurt, dice con orgoglio che il secondo forno era riuscito ad eseguire 3.000 cremazioni, mentre normalmente la durata della muratura refrattaria dei forni era di 2.000 cremazioni. Il forno Topf a 2 muffole di Gusen resistette a circa 3.200 cremazioni, dopo di che fu necessario smantellarlo e sostituire la sua muratura refrattaria. La durata di una muffola fu dunque di circa 1.600 cremazioni. Ora, anche supponendo che i forni di Auschwitz-Birkenau fossero stati usati fino al limite estremo di 3.000 cremazioni per ogni muffola, complessivamente avrebbero potuto cremare circa 156.000 cadaveri – incidentalmente, secondo Pressac il numero totale delle vittime tra i detenuti fu di 130.000 – , mentre la cremazione di 675.000 cadaveri avrebbe richiesto almeno quattro sostituzioni complete della muratura refrattaria di tutte le muffole: per i crematori II e III, sarebbero state necessarie 256 tonnellate di materiale refratta soltanto rio e un tempo di lavoro di circa 7.200 ore.
Tuttavia, negli archivi della Bauleitung, che furono lasciati "intatti" dalle SS di Auschwitz e che Pressac ha esaminato integralmente, non esiste traccia di questi enormi lavori, perció questi lavori non sono mai stati eseguiti.Dunque la cremazione di 675.000 cadaveri nei forni crematori é tecnicamente impossibile, di conseguenza ad Auschwitz-Birkenau non è stato perpetrato alcuno sterminio in massa.
Veniamo ora alla questione delle camere a gas omicide.
La tesi di fondo di Pressac é che i crematori II e III furono progettati e costruiti come normali installazioni igienico-sanitarie, ma furono successivamente trasformati in strumenti criminali installando nel loro seminterrato camere a gas omicide. Non c' è dubbio che a partire dalla fine del 1942 il seminterrato dei crematori II e III abbia subito varie trasformazioni rispetto al progetto iniziale, come non c' è dubbio che la sala dei forni, per quanto concerne il loro numero e la loro capacitá di cremazione, non ha subito alcuna modifica rispetto al piano iniziale.
Come spiegare questa incongruenza?
Se i crematori II e III erano stati progettati come semplici installazioni sanitarie, adeguate per il tasso di mortalitá naturale del campo, la loro trasformazione in strumenti di sterminio in massa avrebbe richiesto un corrispondente ampliamentodella capacitá di cremazione dei forni, ma ció non è accaduto. A Pressac non resta dunque che triplicare o quadruplicare la capacitá di cremazione reale dei forni e dichiarare, contraddittoriamente, che dei forni progettati in una prospettiva sanitaria potevano far fronte senza difficoltà anche ad uno sterminio in massa.
La realtá è ben diversa.
L' installazione nei crematori II e III di una camera a gas di 210 m2 (tale era la superficie del Leichenkeller 1 o camera mortuaria seminterrata 1) in cui, secondo Pressac, si sarebbero potute gasare senza difficoltá 1.800 vittime (ma i testimoni oculari parlano anche di 3.000), per la cremazione in giornata dei cadaveri, avrebbe richiesto 75 muffole, in luogo delle 15 esistenti, le quali, per la cremazione dei corpi delle vittime, avrebbero impiegato cinque giorni, creando un gravissimo ostacolo al processo di sterminio. Il fatto dunque che la sala dei forni non sia stata trasformata, dimostra che le trasformazioni dello scantinato non erano criminali.
Il progetto finale delle SS, quello effettivamente realizzato, secondo Pressac fu la trasformazione del Leichenkeller 1 in camera a gas omicida e del Leichenkeller 2 in spogliatoio. A sostegno della sua tesi, Pressac adduce una serie di indizi, i piú importanti dei quali sono ricollegabili agli impianti di ventilazione dei crematori e ai Gasprüfer.
E` noto che, nelle camere a gas di disinfestazione, a causa dell' estrema tossicitá dell' acido cianidrico, il problema della ventilazione era di importanza vitale.
Pressac afferma che un elemento importante della trasformazione criminale dei crematori fu l' aumento della portata dei ventilatori della presunta camera a gas omicida da 4.800 a 8.000 m3 di aria all' ora. Questo aumento sarebbe stato deciso per sopperire all' inconveniente derivante dal fatto che questo impianto di ventilazione era stato progettato e costruito per una normale camera mortuaria. Ciò dimostrerebbe la trasformazione del locale da camera mortuaria in camera a gas omicida. Per simmetria, Pressac dichiara che anche la portata del ventilatore del presunto spogliatoio fu aumentata da 10.000 a 13.000 m3 di aria all' ora. La fonte addotta da Pressac a sostegno di questa variazione della portata dei ventilatori é lafattura della Topf n.729 del 27 maggio 1943 per il crematorio III.
Lo studio degli impianti di ventilazione dei crematori II e III dimostra al contrario che il Leichenkeller 1 non fu trasformato in una camera a gas omicida. Anzitutto, la fattura della Topf menzionata da Pressac prevede per la presunta camera a gas omicida un ventilatore con portata di 4.800 m3 di aria all' ora, non di 8.000, e per il presunto spogliatoio un ventilatore con portata di 10.000 m3, non di 13.000. Dunque Pressac ha falsificato i dati di questo documento.
In secondo luogo considerando i volumi dei due locali, risulta che per la presunta camera a gas omicida le SS avevano previsto 9,5 ricambi di aria all' ora, mentre per il presunto spogliatoio 11 ricambi di aria all' ora: dunque la camera a gas era meno ventilata dello spogliatoio!
Ciò è tecnicamente insensato.
Nell' opera classica dell' ing. Heepke sulla progettazione dei crematori si legge che per le camere mortuarie bisognava prevedere come minimo 5 ricambi di aria all' ora, ma in caso di intenso utilizzo fino a 10 ricambi. Ció dimostra che l' impianto di ventilazione del Leichenkeller 1, con i suoi 9,5 ricambi di aria all' ora, é stato progettato e costruito per una camera mortuaria e che il locale in questione non è stato trasformato in camera a gas omicida. A titolo di confronto, per le camere a gas di disinfestazione ad acido cianidrico con sistema DEGESCH-Kreislauf, cioé a circolazione di aria calda, si prevedevano 72 ricambi di aria all' ora.
Riassumendo, Pressac afferma che i crematori II e III furono progettati e costruiti come normali impianti igienico-sanitari, ma poi furono trasformati in strumenti di sterminio; tuttavia, dopo la presunta trasformazione criminale, la sala forni dei due crematori aveva ancora lo stesso numero di forni che era stato previsto per la mortalità naturale dei detenuti, e i ventilatori del Leichenkeller 1 avevano ancora lastessa portata che era stata prevista per normali camere mortuarie. Ma allora in che cosa consiste la trasformazione criminale dei crematori?
Passiamo alla questione dei Gasprüfer. Il 26 febbraio 1943 l'amministrazione del crematorio II di Auschwitz chiese alla ditta Topf l' invio di 10 Gasprüfer. A Mosca Pressac ha scoperto la lettera di risposta della ditta Topf, datata 2 marzo 1943, nella quale i Gasprüfer vengono definiti " Anzeigegeräte für Blausäure-Reste ", apparati di indicazione per residui di acido cianidrico. Pressac scrive ingenuamente che questo documento costituisce la prova definitiva dell'esistenza di una camera a gas omicida nel crematorio II. In realtá questo documento puó essere al piú un indizio, non una prova definitiva, dell'esistenza di una camera a gas, ma che questa camera a gas sia omicida, è una semplice affermazione arbitraria di Pressac.
Riguardo a questo documento osservo sommariamente quanto segue:
a) i Gasprüfer, nella terminologia tecnica tedesca, erano dei semplici analizzatori di gas di combustione;
b) l' apparato che veniva utilizzato per la prova dei residui dell' acido cianidrico si chiamava " Gasrestnachweisgerät für Zyklon", cioè apparato di prova del gas residuo per lo Zyklon;
c) questo apparato era in dotazione obbligatoriamente a tutte le installazioni di disinfestazione ad acido cianidrico, comprese quelle di Auschwitz;
d) la richiesta di 10 analizzatori di gas combusti ad una ditta che produceva impianti di combustione è perfettamente comprensibile: ma per quale motivo la Bauleitung di Auschwitz avrebbe dovuto richiedere 10 apparati di prova dei residui di acido cianidrico ad una ditta che produceva appunto impianti di combustione, invece di ordinarli direttamente alle ditte che li distribuivano insieme allo Zyklon B e alle maschere antigas – cioè la DEGESCH e, in particolare, la ditta Tesch und Stabenow – con le quali l' amministrazione di Auschwitz era regolarmente in contatto?
La conclusione è che i 10 Gasprüfer erano dei semplici analizzatori dei gas di combustione per i crematori. Essi erano destinati ai 10 condotti del fumo dei crematori II e III oppure alle 10 canne fumarie dei crematori di Birkenau.
Il documento scoperto da Pressac è perciò senza dubbio un falso.
Come ho accennato all' inizio, Pressac ha voluto studiare tecnicamente la questione dei forni crematori e delle presunte camere a gas omicide di Auschwitz-Birkenau, però non avendo la minima competenza tecnica per intraprendere tale studio. Tuttavia egli ha dovuto accettare il principio metodologico, propugnato dai revisionisti secondo il quale, dove esiste discordanza tra le testimonianze e la tecnica, é quest' ultima che deve prevalere. In tal modo egli ha aperto una falla irreparabile nella storiografia sterminazionista, perché la tecnica dimostra l' impossibilità materiale di uno sterminio in massa ad Auschwitz-Birkenau.
I colleghi di Pressac hanno capito immediatamente la pericolosità di questa metodologia e sono corsi prontamente ai ripari. In effetti, il libro ANATOMY OF THE AUSCHWITZ DEATH CAMP, recentemente pubblicato da Yisrael Gutman e Michael Berenbaum in collaborazione con l' Holocaust Memorial Museum di Washington, piú che contro i revisionisti, sembra diretto contro Pressac: esso costituisce infatti una ferma negazione della metodologia storiografica di Pressac, di cui smentisce le tre piú importanti conclusioni, affermando che:
1) tutti i crematori di Birkenau furono progettati fin dall' inizio a scopo criminale 2) il numero delle vittime di Auschwitz fu di 1.100.000 3) i crematori di Birkenau potevano cremare 8.000cadaveri al giorno.
Con ciò il dogmatismo teologico propugnato nel 1979 dagli storici francesi, incautamente violato da Pressac, è ora pienamente ristabilito: a Pressac non resterà che fare pubblica ammenda. A quanto pare, egli ha già cominciato a farla, prestando la sua collaborazione suicida a questo libro.
Per i revisionisti, invece, i libri di Pressac rappresentano la fine di una leggenda.
I “NUOVI” DOCUMENTI SU AUSCHWITZ DI BILD.DE:
UNA BUFALA GIGANTESCA?
Nella foto a sin. Il sionista netanyahubenjamin , con Ralf Georg Reuth, BERLINO, Thu Aug 27, 2009,cercano le camere a gas di Birkenau, sforzandosi di capire di mappe e disegni tecnici.BW5a
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Di Carlo Mattogno (2008)
L’8 novembre 2008 il giornale tedesco Bild.de ha pubblicato un articolo a firma dello storico Ralf Georg Reuth intitolato “Bild mostra i documenti dell’atrocità che sono stati trovati ora a Berlino. I disegni costruttivi di Auschwitz”[1], che in Italia ha provocato eccitazione e commenti tracotanti contro i “negazionisti”.
___________________ …e lui ,prontamente,le esibisce all'incompetenza dell'ONU!
Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu United Nations General Assembly at U.N. headquarters in New York, September 24, 2009.BW5a.
___________________
Sebbene l’importanza della scoperta sia già stata drasticamente ridimensionata da due storici ebrei, Israel Gutman e Robert Jan van Pelt[2], vale comunque la pena di approfondire la questione, se non altro a beneficio di quei creduloni sempre pronti ad ingoiare senza battere ciglio qualunque panzana – si tratti di testimonianze, come quella di Shlomo Venezia[3], o di documenti, come quelli in oggetto – purché porti acqua al mulino olocaustico.
Reuth informa che «a quanto pare (angeblich)[!] nello sgombero di un appartamento di Berlino» sono state trovate 28 piante originali risalenti agli anni 1941-1943.
«Sono documenti dell’atrocità. Accuratamente disegnati. Planimetrie, piante e viste laterali di edifici, tutto su carta ingiallita, generalmente in scala 1:100. Sono piante del campo di sterminio nazionalsocialista di Auschwitz».
Tra questi documenti ci sono anche «un impianto di disinfestazione (Entlausungsanlage) con camera a gas (Gaskammer)»[4] e un crematorio[5].
Documento 1
Documento 2
Viene anche dato risalto al fatto che
«una delle planimetrie è stata siglata personalmente, con matita verde, dall’allora Reichsführer-SS e capo organizzatore del genocidio Heinrich Himmler»,
ma senza specificare di quale planimetria si tratti.
Il direttore archivista dell’Archivio Federale (Bundesarchiv) di Berlino, Hans-Dieter Kreikamp
[a destra nella foto.BW5a]
ha attribuito un’ «importanza straodinaria» ai documenti, dichiarando al giornale che
«i piani sono le testimonianze autentiche del genocidio degli Ebrei europei sistematicamente progettato».
Dal canto suo lo storico aggiunge che «i documenti confutano inoltre gli ultimissimi negatori dell’Olocausto». Indi descrive le due terribili “prove”.
«Il documento dell’atrocità più sconvolgente: la pianta di un “impianto di disinfestazione” (Entlausungsanlage). Da uno “spogliatoio” (Auskleideraum) delle porte conducono ad una “sala lavaggio e doccia” (Wasch- und Brauseraum) e di lì ad un “vestitoio” (Ankleideraum). Ma dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” [locali di compensazione della pressione] in una “camera a gas”. Sulla pianta è scritto nero su bianco: “Gaskammer”.
Il fatto che nella grossa “camera a gas” di 11,66 x 11,20 metri[6] non si dovessero disinfestare capi di vestiario coll’agente a base di acido cianidrico solitamente usato dalle SS, bensì gasare esseri umani, dev’essere considerato molto probabile (sehr wahrscheinlich). Infatti (denn) la pianta, che fu disegnata ad Auschwitz da un “detenuto n. 127”[7], risale all’8 novembre 1941. In questo periodo il comandante del campo Rudolf Höss faceva già esperimenti coll’agente a base di acido cianidrico “Zyklon-B”, col quale nel campo principale di Auschwitz fece uccidere detenuti malati e prigionieri di guerra russi».
Reuth rileva poi che il presunto sterminio sistematico degli Ebrei europei non fu deciso alla conferenza di Wannsee, ma ben prima, e commenta:
«Non è noto se l’“impianto di disinfestazione” di Auschwitz-Birkenau fu costruito esattamente come fu disegnato nei piani. Certo è che le gasazioni in massa di Ebrei europei ad Auschwitz cominciarono nella primavera del 1942 in una ex casa colonica, la cosiddetta “casa rossa” ».
La seconda “prova” riguarda ovviamente il crematorio.
«Gli Ebrei uccisi furono cremati inizialmente in fosse scavate nel terreno. Già nell’ottobre dell’anno precedente fu presa in considerazione la costruzione di un grosso crematorio. Nel novembre furono poi realizzati i primi disegni. Il piano in possesso di Bild.de mostra un primo schizzo con viste laterali e piante sempre in scala 1:100.
Particolarmente istruttivo: il disegno del piano interrato. Esso mostra i basamenti per i forni crematori, che furono successivamente forniti dalla ditta “Topf und Söhne” di Erfurt. Nella pianta è schizzato anche il “L-Keller” (Leichenkeller: scantinato obitorio), che ha una larghezza di otto metri. I progettisti delle Waffen-SS non avevano stabilito la sua lunghezza. Vi si può leggere: “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” ».
Questo presunto «vero scoop storico», come lo definisce Il Messaggero[8], è in realtà una vera bufala. I documenti in questione sono noti da anni agli specialisti, essendo stati pubblicati da Jean-Claude Pressac tra il 1989 e il 1993. Io stesso li ho consultati a Mosca nel 1995 nell’ Archivio russo di Stato della guerra (Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv: RGVA).
Nel suo studio Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers[9], il ricercatore francese dedicò un capitolo alle “Installazioni di spidocchiamento e disinfestazione nel KGL [campo per prigionieri di guerra] di Birkenau costruzioni BW[10] 5a e 5b” (pp. 53-62) nel quale presentò i progetti originali dell’ “Entlausungsanlage” summenzionata (pianta 801 dell’8 novembre 1941: “Entlausungsanlage für K.G.L., impianto di disinfestazione per il KGL”)[11], comprendenti anche la pianta dell’approvvigionamento idrico e della rete fognaria dell’impianto (pianta 1293 del 9 maggio 1942)[12], la pianta relativa all’installazione al suo interno di una sauna (pianta 1715 del 25 settembre 1942)[13] e quella riguardante la trasformazione della camera a gas del BW 5b in impianto di disinfestazione ad aria calda (pianta n. 2540 del 5 luglio 1943)[14].
Documento 3
Documento 3a
Documento 4
Documento 5
Documento 6
Questi progetti si riferivano a due cosiddette “Entlausungsbaracken” (in realtà strutture in muratura) che furono costruite una nel settore femminile BIa di Birkenau (BW 5a), l’altra nel settore maschile BIb (BW 5b) esattemente secondo i piani. Una lettera redatta il 9 gennaio 1943 dal capo della Zentralbauleitung di Auschwitz, SS-Hauptsturmführer Karl Bischoff, con oggetto “Installazioni igieniche nel K.L. e nel K.G.L. di Auschwitz” elenca appunto tutte le installazioni igieniche presenti nei campi di Auschwitz e Birkenau, tra le quali le due summenzionate, descritte così:
«1 apparato di disinfezione [Desinfektionsapparat] (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda [Heissluftapparat] (ditta Hochheim), così pure una sauna [Saunaanlage] sono installati nella baracca di disinfestazione [Entlausungsbaracke] del campo maschile del KGL, BAI [il BW 5b] e sono in funzione dal novembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico [Kammer für Blausäurevergasung] che è già in funzione dall’autunno del 1942.
1 apparato di disinfezione (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda (ditta Hochheim), così pure una sauna sono installati nella baracca di disinfestazione del campo femminile del KGL, BAI [il BW 5a] e sono in funzione dal dicembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico che è già in funzione dall’autunno del 1942»[15].
E una “Lista degli impianti di disinfestazione, bagni e apparati di disinfezione costruiti nel KL e nel KGL di Auschwitz” stilata dall’impiegato civile della ZentralbauleitungRudolf Jährling il 30 luglio 1943, in riferimento ai «B.W. 5a und 5b» menziona una «Blau[säure]gaskammer», una camera a gas ad acido cianidrico[16]. Il termine “Gaskammer” designava dunque una vera camera di disinfestazione e l’ Entlausungsanlage un vero impianto di disinfestazione.
Del resto, come risulta dal suo testo[17], Pressac non è stato sfiorato neppure lontanamente dall’idea balzana che queste due installazioni fossero state progettate a scopo omicida; e Robert Jan van Pelt, nel suo ponderoso The Case for Auschwitz. Evidence from the Irving Trial[18], non accenna nemmeno fugacemente a una tale possibilità, che non è mai stata avanzata da nessuno storico e da nessun testimone.
Reuth pretende invece che lo scopo criminale dell’impianto di disinfestazione sia «molto probabile» perché, a suo dire, nel novembre 1941 Höss faceva già esperimenti di gasazione omicida con lo Zyklon B. Il riferimento è alla storiella della prima gasazione omicida nel Bunker del Block 11 di Auschwitz, che ho già smantellato da anni[19].
Quanto alla descrizione della pianta secondo la quale «dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” in una “camera a gas”», bisogna rilevare che essa è a dir poco maliziosa, perché le parti destra e sinistra dell’impianto di disinfestazione erano simmetriche; e se è vero che dal vestitoio una sola porta conduceva in una sola anticamera e poi, attraverso un locale di compensazione della pressione, nella camera a gas, è altrettanto vero che il medesimo percorso era specularmente possibile anche dallo spogliatoio. Per poter insinuare che la pianta in questione mostri un impianto omicida, Reuth ha infatti taciuto il fatto essenziale che l’Auskleideraum, lo spogliatoio, è designato nella pianta “unreine Seite”, lato contaminato, l’Ankleideraum, il vestitoio, “reine Seite”, parte incontaminata. Ciò spiega chiaramente la finalità e il funzionamento dell’impianto. I detenuti contaminati (infestati da parassiti) entravano nell’ Auskleideraum, si spogliavano nudi e poi entravano attraverso l’apposita porta nel Wasch- und Brauseraum, dove si lavavano; indi, uscendo dalla porta opposta, entravano nell’ Ankleideraum, dove ricevevano e indossavano i vestiti disinfestati.
Parallelamente, infatti, i vestiti contaminati lasciati dai detenuti nell’ l’Auskleideraumvenivano raccolti e trasportati, attraverso il Vorraum e la Schleuse, nella camera a gas dove venivano disinfestati; poi, passando per la seconda porta che dava sull’altra Schleuse e sull’altro Vorraum, venivano riportati nell’ Ankleideraum ai detenuti[20]. Le due anticamere e le due camere di compensazione della pressione non comunicavano e non potevano comunicare l’una con l’altra, per evitare una eventuale contaminazione che avrebbe reso vano l’intero processo di disinfestazione. Per questo Bild.de ha deciso maliziosamente di pubblicare soltanto la sezione della pianta che riguarda la camera a gas[21].
Passiamo alla pianta del crematorio. Anche qui nessuna novità. Essa era già stata pubblicata da Pressac nel libro Les crématoires d'Auschwitz.La machinerie du meurtre de masse[22], documenti 10-11 fuori testo. Si tratta della pianta redatta nel novembre 1941 dall’archietto Werkmann, un impiegato civile che faceva parte della Sezione II/3/3 (Affari edilizi dei campi di concentramento e campi per prigionieri di guerra) [Abteilung II/3/3 (Bauangelegenheiten der KL und KGL)] dell' Hauptamt Haushalt und Bauten (Ufficio centrale bilancio e costruzioni).
Reuth richiama l’attenzione sul fatto che la lunghezza del Leichenkeller non è menzionata, ma al suo posto appare l’indicazione “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno”. Nel suo resoconto già citato, Il Messaggero a questo punto, tagliando e rimettendo insieme a casaccio spezzoni del testo di Bild.de, commenta:
«La lunghezza esatta del forno crematorio non viene ancora definita e sarà fissata “a seconda delle esigenze”. Un particolare, questo, decisamente macabro che secondo il direttore dell'Archivio federale tedesco Hans Dieter Kreikamp “è una prova autentica del genocidio degli ebrei europei sistematicamente progettato dal regime nazista”».
La pianta in discussione era la revisione da parte di Berlino del progetto eseguito ad Auschwitz dall’SS–Untersturmführer Walter Dejaco il 24 ottobre 1941 su suggerimento dell’ingegnere della Topf Kurt Prüfer, parimenti pubblicato da Pressac (documento 9), in cui il Leichenkeller, al pari della pianta di Werkmann, è disegnato solo in parte, ma reca l’indicazione delle misure: m 8 x 60. Dato che la scala del progetto è di 1:100, si comprende facilmente perché il Leichenkeller non sia stato disegnato per intero. La pianta di Werkmann ha solo l’indicazione della larghezza, 8 metri, sicché la scritta “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” fa pensare più a una riduzione che a un aumento della lunghezza di 60 metri. In effetti, nei crematori di Birkenau questo locale divenne il Leichenkeller 2, che era lungo 49,49 metri.
Il bello è che il libro di Pressac fu prontamente tradotto anche in tedesco[23], sicché Bild.denon ha alcuna giustificazione.
Il contesto storico reale nulla concede all’ipotesi che il crematorio di questo progetto servisse a scopo di sterminio. Pressac afferma esplicitamente che «il fabbricato concepito da Prüfer e migliorato da Werkmann, non era stato progettato a questo scopo», con riferimento ai «trattamenti omicidi col gas»[24].
Nel mio studio Genesi e funzioni del campo di Birkenau[25] ho documentato che il Kriegsgefangenenlager di Birkenau fu progettato il 30 ottobre 1941 per 125.000prigionieri di guerra sovietici che dovevano essere impiegati in lavori di costruzione nel quadro del “Generalplan Ost” (“progetto generale Est”), un piano di colonizzazione tedesca dei territori orientali incorporati dalla Germania (soprattutto i ReichsgaueDanzica-Prussia orientale e Wartheland) per mezzo di manodopera coatta – prigionieri di guerra sovietici, poi Ebrei – concentrata nei campi di Birkenau, di Lublino e di Stutthof. In tale contesto rientra anche la decisione di costruire il crematorio in oggetto, che è spiegata così in una lettera di Bischof, all’epoca Bauleiter di Auschwitz, al Rüstungskommando (comando degli armamenti) di Weimar del 12 novembre 1941:
«La ditta Topf & Söhne, impianti tecnici di combustione, Erfurt, ha ricevuto da questo ufficio l’incarico di costruire il più presto possibile un impianto di cremazione, perché al campo di concentramento di Auschwitz è stato annesso un campo per prigionieri di guerra che in brevissimo tempo sarà occupato da circa 120.000 Russi. La costruzione dell’impianto di cremazione è diventata perciò assolutamente necessaria per prevenire epidemie e altri pericoli».
[«Die Firma Topf & Söhne, feuerungstechn. Anlagen, Erfurt hat von der hiesigen Dienststelle den Auftrag erhalten, schnellstens eine Verbrennungsanlage aufzubauen, da dem Konzentrationslager Auschwitz ein Kriegsgefangenenlager angegliedert wurde, das in kürzester Zeit mit ca. 120 000 Russen belegt wird. Der Bau der Einäscherungsanlage ist deshalb dringend notwendig geworden um Seuchen und andere Gefahren zu verhüten»][26].
Himmler, in qualità di «Commissario del Reich per il consolidamento del germanesimo» (Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums), era responsabile del “Generalplan Ost” e dunque della progettazione e costruzione del campo di Birkenau, perciò c’è poco da stupirsi se qualche pianta fu siglata da lui personalmente «con matita verde».
In questa gigantesca bufala chi fa la figura più grama sono Hans-Dieter Kreikamp e Ralf Georg Reuth. Si stenta a credere che uno storico e un «direttore archivista dell’Archivio Federale di Berlino» abbiano dato prova di un’ignoranza storica così grottesca.
E se questi sono gli storici e gli archivisti tedeschi, i dilettanti allo sbaraglio italiani sono in ottima compagnia.
Carlo Mattogno
12 novembre 2008
Bild.De: Bufalaecontrobufala
Il 16 febbraio 2009 è stata allestita a Berlino una esposizione delle piante di Auschwitz trovate nel novembre 2008 e presentate dal quotidiano Bild.De nel numero dell’8 novembre 2008 come una scoperta sensazionale, anzi sconvolgente, perché, per la prima volta su una pianta, era «scritto nero su bianco “Gaskammer”», camera a gas. Ho già dimostrato che questi documenti erano noti da anni e che la “Gaskammer” in questione era semplicemente la camera a gas di dinfestazione ad acido cianidrico progettata e costruita nelle due “baracche di spidocchiamento” dei settori BIa e BIb di Birkenau, designate appunto “Entlausungsbaracken” e indicate come BW 5a e 5b[1]. Foto satellitare dell'impianti in questione. Cerchiato di rosso.BW5a
Bild.De è ritornato sulla questione proprio nel numero del 16 febbraio, con un articolo intitolato Perlaprimavoltavengonomostratiidocumentidell’atrocitàinGermania. IdisegnicostruttividiAuschwitz[2]. A differenza della pubblicazione precedente, però, in cui campeggiavano le piante dell’edificio di accesso (Eingangsgebäude) al campo di Birkenau, della “Gaskammer” e del crematorio, in questo numero del quotidiano appare soltanto il crematorio[3]. La pianta della “Gaskammer” è scomparsa. E non solo la pianta. Ecco infatti il relativo commento:
«L’autenticità dei documenti è stata verificata dall’Archivio Federale. Nella perizia si dice: “Il risultato è l’accertamento che sull’autenticità delle fonti di storia contemporanea non sussiste alcun dubbio”. Nell’esposizione tra l’altro vengono mostrati i progetti di ampliamento del campo principale. Un primo disegno in bella copia del futuro KL Birkenau, che fu costruito per ordine di Himmler. Unapiantadelcrematorioconspogliatoioecameraagas»(corsivo mio).
In precedenza Bild.De aveva parlato di «un impianto di disinfestazione (Entlausungsanlage) con camera a gas (Gaskammer)» e di un crematorio, che aveva descritto così:
«Particolarmente istruttivo: il disegno del piano interrato. Esso mostra i basamenti per i forni crematori, che furono successivamente forniti dalla ditta “Topf und Söhne” di Erfurt. Nella pianta è schizzato anche il “L-Keller” (Leichenkeller: scantinato obitorio), che ha una larghezza di otto metri. I progettisti delle Waffen-SS non avevano stabilito la sua lunghezza. Vi si può leggere: “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno”».
Ora invece la «camera a gas» trasmigra inspiegabilmente dall’impianto di disinfestazione al crematorio, che acquisisce per di più anche uno «spogliatoio».
Mentre prima si poteva attribuire la bufala soprattutto all’ ignoranza storica dei redattori, nella controbufala la malafede è evidente.
Ma non è per questo che ho esposto questa sordida operazione giornalistica, quanto piuttosto per mostrare la metodologia dei giornalisti (e degli storici) di regime.
Il testo di Bild.De dell’8 novembre 2008 fu semplicemente tradotto – o riassunto – e come tale apparve in una miriade di mezzi di informazione.
Ci fosse stato un giornalista cui sia balenato il dubbio, o che abbia soltanto sentito se non il dovere, almeno la curiosità di ascoltare il parere di uno specialista!
Un’eco della controbufala in Italia
Auschwitz 1,2,3 Gennaio 2012,BW 5a,impianto disinfestazione. BW5a
Il Messaggero del 22 febbraio 2009, nella rubrica “Esteri”, rende conto dell’esposizione in un breve articolo di Walter Rauhe con un titolo illuminante:Mostraanti–negazionismo. Espostiiprogettipercostruirela“fabbricadellamorte”. Questo resoconto si arricchisce di ulteriori corbellerie. Apprendiamo così che le piante conterrebbero i
«piani per la costruzione del più gigantesco e moderno campo nazista munito di 174 baracche in grado di accogliere ciascuna fino a 744 deportati (130mila in tutto), progettiperl’aerazionedicamereagas»(!),
e che il ritrovamento avrebbe rappresentato
«una piccola sensazione storica [?] dal momento che documentava le concrete intenzioni del regime nazista di erigere ad Auschwitz un campo di sterminio di dimensioni gigantesche ancor prima dell’approvazione della soluzione finale della questione ebraica e quindi dell’Olocausto durante la famigerata conferenza di Wannsee il 20 gennaio del 1942.
I piani scoperti dalla BildZeitung e ora esposti a Berlino risalgono infatti alla primavera del 1941 e sono controfirmati da Heinrich Himmler, il capo delle SS ed uno dei più stretti collaboratori di Adolf Hitler.
Ancor prima dell’invasione dell’Unione Sovietica e dell’avvio sistematico della Shoah, il regime nazista aveva ben chiaro in testa le dimensioni e le modalità dello sterminio degli ebrei europei, camere a gas e forni crematori compresi».
Lasciando da parte il significato attribuito alla conferenza di Wannsee, che risale ad una trentina d’anni fa ed è stato ampiamente superato e invalidato dalle ricerche olocaustiche degli ultimi due decenni, la pretesa che il campo di Birkenau fosse stato progettato fin dall’inizio come “campo di sterminio” è francamente ridicola.
Primo, perché il primo progetto del campo di Bireknau, denominato «Rapporto esplicativo del progetto preliminare per la nuova costruzione del campo per prigionieri di guerra delle Waffen-SS, Auschwitz, Alta Slesia» (ErläuterungsberichtzumVorentwurffürdenNeubaudesKriegsgefangenenlagersderWaffen–SS, AuschwitzO/S)[4], proprio quello che prevede le 174 baracche summenzionate, risale al 30 ottobre 1941, non già «alla primavera del 1941».
Secondo, perché esso fu progettato come Campo per prigionieri di guerra sovietici (Kriegsgefangenenlager), non per detenuti ebrei.
Terzo, perché il campo di Birkenau fu istituito come campo di lavoro nel quadro del “GeneralplanOst”, come ha mostrato lo storico olocaustico Jan Erik Schulte nell’articolo articolo intitolato Dal campo di lavoro al campo di sterminio. Storia della genesi di Auschwitz-Birkenau 1941-1942 (VomArbeits– zumVernichtungslager. DieEntstehungsgeschichtevonAuschwitz–Birkenau1941/42)[5].
Di ciò mi sono occupato nell’articolo Genesi e funzioni del campo di Birkenau. 2008[6].
Quarto, perché, come riconoscono due tra i più considerati storici olocaustici di Auschwitz, Jean-Claude Pressac e Robert Jan van Pelt, il progetto del campo di Birkenau non considerava ovviamente la presenza di camere a gas omicide.
Il nostro valente giornalista aggiunge:
«“La realtà dell’Olocausto non ha più bisogno di essere provata”, dichiara un portavoce della casa editrice tedesca [Springer, che ha organizzato l’esposizione]. “Ma i progetti originali che mostrano i piani per il campo, le camere a gas dove centinaia di migliaia di deportati ed ebrei vennero assassinati col gas Zyklon B, dimostra ancora una volta la dimensione di questi crimini».
Ribadisco, a costo di apparire tedioso, che non esiste alcun piano di una camera a gas omicida.
Ed ecco la chicca finale:
«Ora possono visionare di prima mano questi progetti dell’orrore nutrendo magari l’augurio che un giorno a guardarseli sia anche il vescovo Williamson e tutti gli altri negazionisti».
Per quanto mi riguarda, caro Walter Rauhe, questi progetti li ho visionati e me li sono guardati a Mosca fin dal 1995, li ho fatti fotocopiare e li ho studiati con tutta calma. Per la precisione, ho visionato 88.200 pagine di documenti originali, di cui quelli trovati a Berlino sono un’infima parte. E proprio questa documentazione mi ha convinto profondamente che ad Auschwitz-Birkenau non esistettero mai camere a gas omicide.
3)La“pensatrice”italianadell’anti-“negazionismo”
Questi esempio mostrano a sufficienza che la metodologia di questa gente è quella del copia-incolla. La verifica delle fonti non esiste. Ciò dipende dal fatto che, soprattutto in certi campi, non è lecito verificare. Qualcuno ha già pensato per loro. Qualcuno ha già scritto per loro. Essi devono soltanto copiare-incollare.
In campo olo-revisionistico, questo qualcuno è Pierre Vidal-Naquet, un dilettante della storia contemporanea che aveva acquisito qualche nozioncina storica dagli scritti di Georges Wellers e aveva tratto il suo impianto argomentativo dall'articolo di Nadine Fresco Lesredresseursdemorts[7], uno dei primi saggi contro il revisionismo in cui erano già fissati quasi tutti gli argomenti capziosi adottati dagli olo-propagandisti successivi[8].
In Italia, per nostra somma fortuna, abbiamo addirittura la versione femminile di Vidal-Naquet: Valentina Pisanty, una dottoressa in semiotica incautamente prestata alla storiografia. Costei fu infatti indotta a redigere un'opera di una mediocrità disarmante, dal titolo L’irritantequestionedellecamereagas. Logicadelnegazionismo[9], in cui pretendeva di dimostrare che il revisionismo non è una storiografia scientifica, ma una strategia ingannatrice, basata su una metodologia fallace, mirante a negare per scopi inconfessabili (ma sempre riconducibili all' “antisemitismo”) la realtà della Shoah. Dato che la dottoressa prendeva in esame anche qualche presunta fallacia tratta da qualcuno dei miei scritti, risposi prontamente col libro L'«irritante questione» delle camere a gas ovvero daCappuccettorossoad…Auschwitz. RispostaaValentinaPisanty, pubblicato nel 1998 dall'Editore Graphos di Genova. Riassumo lapidariamente: Laqualificazioneelacompetenzaspecifica della Pisanty in campo storiografico sono nulle, trattandosi di una dottoressa in semiotica, esperta in favole, con specializzazione in Cappuccetto Rosso.
Il titolo stesso del libro è ingannatore, in quanto fa riferimento a una presunta frase di Paul Rassinier contenuta in una inesistente “seconda edizione” del suo memoriale Passagedelaligne.
La bibliografia è in massima parte un’accozzaglia eterogenea di opere di argomento disparato in cui quelle olocaustiche sono poche, mal lette e mal digerite, senza alcuna opera in tedesco, lingua fondamentale per questo genere di studi, che la dottoressa Pisanty ignorava. Preselezioneopportunisticadelleopererevisionistiche: Le pochissime opere revisionistiche citate sono il frutto di una spietata preselezione, grazie alla quale la Pisanty ha escluso dal suo campo di indagine tutti gli studi più documentati e più recenti.
Metodologia:
– Citazioni: Si dividono in due grandi categorie: quella dei testi che la Pisanty ha letto e che indica con il riferimento esatto (autore, titolo, anno di pubblicazione e pagina) e quella dei testi che non ha letto ma che finge di aver letto e spaccia per sue. La seconda categoria comprende parecchie citazioni di seconda o di terza mano per le quali l’Autrice non sa indicare il riferimento completo.
– Documenti: La Pisanty non fornisce i riferimenti esatti neppure dei documenti che cita. La cosa non stupisce, perché essa li trae quasi sempre dai testi revisionistici.
– Plagiostorico–criticoeargomentativo: Nel libro della Pisanty l’appropriazione indebita (senza riferimento alla fonte) di fonti o documenti di altre opere non è un fenomeno sporadico, ma una vera e propria metodologia. Il suo intero libro è, in massima parte, il risultato di un inverecondo saccheggio di testi altrui, revisionistici e non revisionistici, dalle chiavi interpretative alle argomentazioni, dalle obiezioni agli inquadramenti storici, fino alle osservazioni e alle spiegazioni più minute. Ciò che la Pisanty ha aggiunto di proprio, sono soltanto delle osservazioni semiotiche decisamente insulse o cavillose. Ho elencato minuziosamente i passi originali e i passi da lei plagiati. Per quanto riguarda l’aspetto qui considerato, i testi saccheggiati sono quelli di Deborah Lipstadt[10] e di Pierre Vidal-Naquet[11].
Nel mio studio citato sopra Olocausto: dilettantiallosbaraglio avevo già confutato le elucubrazioni sofistiche dei suoi due maestri, Vidal-Naquet e Lipstadt[12], e si comprende facilmente perché la nostra esperta in favole non l’abbia menzionato neppure di sfuggita.
– Plagiodeimieitesti: In relazione al “rapporto Gerstein”, la Pisanty plagia sfrontatamente addirittura il mio libro[13], non solo le mie indicazioni storiografiche relative alla storia processuale dei documenti, ma addirittura le critiche da me rivolte agli altri autori revisionisti, appropriandosi di esse senza il minimo riferimento alla fonte e spacciandole per sue!
Argomenti e strategie ermeneutiche:
– La «premessaindiscussa»: La Pisanty parte dall’assunzione aprioristica, fideistica e indiscutibile della realtà storica dello sterminio ebraico. Da ciò scaturiscono due princìpi ermeneutici aberranti che infirmano radicalmente i suoi argomenti: ilprimatodellatestimonianzasuldocumento (in senso stretto) e l’accettazioneaprioristicadell’attendibilitàdellatestimonianza. Il primo principio comporta il rovesciamento della normale metodologia storiografica. Il secondo conduce inevitabilmente alla negazione del più elementare senso critico, alla fede cieca nella veridicità delle testimonianze e, alla fine, al loro travisamento sistematico. Ciò si concretizza infatti nei seguenti
– Sofismiepistemologici
Confondendo «iprincipifondamentalideldiritto» con i principi fondamentali della storiografia, la Pisanty pretende che le testimonianze abbiano «valore di prova», e presume, sempre fideisticamente, che:
1) tutte le testimonianze siano indipendenti,
2) tutte le testimonianze siano veridiche e contengano solo errori marginali e involontari,
3) al di là di questi errori esse abbiano tutte un «nucleo essenziale» di verità.
Sulla base di questi presupposti dogmatici, la Pisanty si lambicca il cervello nel tentativo di spiegare razionalmente le assurdità e le contraddizioni di cui esse sono cosparse, minimizzandole, arrampicandosi sugli specchi per escogitare una spiegazione plausibile, appellandosi all’ ignoranza generale delle circostanze (che è in realtà soltanto sua), tacendole semplicemente, quando sono troppo assurde e troppo contraddittorie.
Confutazionedelle “confutazioni”:
Nel capitolo III ho confutato le “confutazioni” della Pisanty riguardo a:
– Il diario di Anna Frank
– Il diario del dottor Kremer
– I “Protocolli di Auschwitz”
– I manoscritti dei membri del Sonderkommando
– Le fotografie
– IlcapitoloIV, IlrapportoGersteineil “campodisterminio” diBelzec, contiene la replica, punto per punto, a tutte le argomentazioni addotte dalla Pisanty contro il mio studio IlrapportoGerstein: Anatomiadiunfalso.
La Pisanty in questo libro preseleziona alcuni capitoli nei quali preseleziona alcune obiezioni, quasi sempre marginali ed isolate dal contesto. Con questa tecnica ella frantuma la struttura argomentativa dell’opera; indi critica in modo capzioso questi episodi marginali e conclude che, in ogni caso, essi non toccano la «qualità» della «testimonianza oculare» di Gerstein.
La critica della Pisanty alle mie argomentazioni si basa su due presupposti assunti fideisticamente:
1) a Belzec (Treblinka e Sobibór) sono esistite camere a gas omicide, dunque
2) Il rapporto Gerstein è necessariamente veridico.
In altri termini, poiché, per la storiografia ufficiale, il rapporto Gerstein è (ma non per tutti[14]) la prova essenziale dell’esistenza di camere a gas omicide a Belzec, ne consegue che esso è veridico perché è veridico. Sulla base di questi presupposti la Pisanty pretende di spiegare le innumerevoli contraddizioni e assurdità del rapporto Gerstein, ma non sul piano storico e tecnico, bensì su quello meramente semiotico.
La mia replica riguarda:
– Il primo gruppo di argomenti della Pisanty: pretesi «errori di battitura»
– Il secondo gruppo di argomenti: miei pretesi «errori interpretativi»
– Il terzo gruppo di argomenti: presunte «obiezioni inesistenti»
– Le obiezioni di carattere tecnico
– I punti meritevoli di considerazione
– Le critiche indirette
– Il documento “TötungsanstalteninPolen”
– I garanti di Gerstein: Il barone von Otter, Il vescovo Dibelius, Wilhelm Pfannenstiel, Rudolf Reder
– Le altre testimonianze «non trattate da Mattogno»: Jan Karski, I testimoni SS, Chaim Hirszman.
– NelcapitoloV, RudolfHösseil “campodisterminio” diAuschwitz, ho risposto, anche qui in modo molto dettagliato, alla critica della Pisanty al mio studio Auschwitzle “confessioni” diHöss, prendendo in esame:
– La visita ad Auschwitz di Eichmann
– La prima gasazione omicida
– «La prima gasazione a cui Höss assistette»
– «La prima operazione di sterminio ebraico»
– Le «inesattezze»
– L’ordine di Himmler di sospendere le gasazioni
– Statistiche e cifre
– La visita di Höss a Chelmno [Kulmhof]
– Il grasso umano
– I “Gasprüfer” di Auschwitz
– Il plagio di Filip Müller.
La «cospirazionegiudaicamondiale»:
dall’anti“negazionismo” alvisionarismo.
La Lipstadt sosteneva che il revisionismo è il il risultato di una cospirazione nazista. La Pisanty, sotto la nefasta influenza di questa panzana, congettura che i revisionisti non solo credano ad una «cospirazione giudaica mondiale», ma che questa teoria sia addirittura il fondamento stesso del revisionismo. Le conclusioni generali della Pisanty sull’essenza del revisionismo sono il degno coronamento del suo libro. Ella vi si abbandona ad una sorta di visionarismo apocalittico che chiama in causa – tanto per essere originale – i ProtocollideiSaviAnzianidiSion, altro tema che ossessiona la povera dottoressa. Alla fine la Pisanty mostra il vero significato delle sue elucubrazioni sulla «cospirazione giudaica mondiale» e rientra nell’ortodossia della maestra solo apparentemente sovvertita: il revisionismo non è solo il risultato di una cospirazione nazista; peggio, molto peggio: è l’epigono di quell’ «antisemitismo storico» che trova il suo culmine, appunto, nei ProtocollideiSaviAnzianidiSion! Donde la solenne conclusione che
«i negazionisti raccolgono il testimone dell’ antisemitismo storico»[15].
“Antisemitismo”, ecco la parola magica, che ci porta allo scopo di questo articolo: mostrare, con un altro esempio autorevole, come giornalisti e storici di regime intendano e trasmettano le fandonie pisantyane[16].
Nell’OsservatoreRomano del 26-27 gennaio 2009 è apparso il seguente articolo di Anna Foa (nella foto.BW5a):
«L'antisemitismounicomoventedeinegazionisti
Il negazionismo della Shoah non è un'interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso.
Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un'apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l'antisemitismo. Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l'unico antisemita chiaro e palese.
L'odio antiebraico è all'origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti. Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all'estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l'antiamericanismo, l'ostilità alla modernità. Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l'uno fascista dichiarato, l'altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l'inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.
I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti.
Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla “verità dei vincitori”. La storia della Shoah l'hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze. Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell'epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. “Et voilà”, il gioco è fatto: la Shoah non esiste!
Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l'inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo. È questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.
Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d'Europa, anche se una parte dell'opinione pubblica rimane restia – come chi scrive – a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana. Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c'è un solo movente, un solo intento: l'antisemitismo. Tutto il resto è menzogna»[17].
Non mi soffermo a confutare questo concentrato di sciocchezze, che rasentano spesso la comicità. La storiella del «dopo il 1943», ad esempio, è veramente spassosa. Quale mirabile inventiva!
La cosa più grave è che Anna Foa non è una semplice collaboratrice dell’OsservatoreRomano, ma è soprattutto una storica di prestigio[18], che però non soltanto non si è mai curata di aprire un libro revisionistico, ma non è stata neppure capace di presentare un riassunto decente delle favole pisantyane, avendo profuso nello scritto sopra citato spropositi assurdi che la stessa Pisanty non ha osato neppure sfiorare. Da ciò si desume che questa storica non ha letto nemmeno il libro della Pisanty, ma si è basata semplicemente su resoconti giornalistici. Un copia-incolla di seconda mano.
E questi sarebbero gli “storici” olocaustici: individui che si riducono ad attingere dagli scopiazzatori-giornalisti, ma che, nonostante ciò, rivendicano orgogliosamente la loro qualifica di “storici” accademici, sottolineando con compiacimento e una punta di disprezzo che né «il francese Robert Faurisson» né «l'inglese David Irving» è uno «storico di professione»!
Un indubbio merito, a paragone di uno “storico di professione” olocaustico.
Come quasi sempre, la verità è il contrario di ciò che proclamano gli adepti della HolocausticaReligio:
la Shoah non è un'interpretazione storiografica, ma un articolo di fede, una nuova forma di battesimo in virtù del quale si entra nella communioecclesiale, ma anche una nuova forma di diritto naturale grazie al quale si viene ammessi nel consesso sociale. I reprobi sono relegati nelle tenebre esteriori, dove c’è pianto e stridor di denti.
La fede nella Shoah non ha nulla a che vedere con la storia o la storiografia, ma ha un carattere essenzialmente ideologico.
La stessa storiografia olocaustica, nel suo nucleo centrale, è essenzialmente il risultato di una ideologia[19].
Per questo motivo gli olo-santoni messianici non sono affatto interessati all’accertamento della verità, neppure all’akribéia in campo storico-documentario.
Per questo motivo non si curano minimamente della letterarura scientifica revisionistica.
Valentina Pisanty, novella Pizia, ha vaticinato e non bisogna far altro che diffondere il responso.
E se si trattasse di Oracoli Sibillini?
Questa risposta è a disposizione di Valentina Pisanty da più di dieci anni. E da più di dieci anni la nostra dottoressa in semiotica la ignora, pur continuando a sproloquiare sul “negazionismo”, da ultimo nella trasmissione SorgentediVita, replicata su RAI 2 il 23 febbraio 2009 alle 9,30[20].
Non è ora che si decida a prenderla in considerazione e a controbattere?
In fondo è così facile confutare le “pseudoargomentazioni” revisionistiche! E allora che cosa aspetta a farlo?
Anna Foa vuole che i revisionisti considerino «tutte le fontiebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere»: prescindendo dal fatto che si tratta di una scempiaggine, dal punto di vista metodologico e deontologico, non è più grave fingere che le fontirevisionistiche non esistano affatto?
La "scoperta" del "bunker 1" di Birkenau: vecchie e nuove imposture
DI CARLO MATTOGNO
Secondo il "Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945", a Birkenau, prima della costruzione dei quattro crematori, due case coloniche polacche preesistenti furono trasformate dall'amministrazione del campo in "camere a gas" omicide. La"casetta rossa", o "Bunker 1", entrò in funzione il 20 marzo 1942; la "casetta bianca", o "Bunker 2", il 30 giugno. Il "Bunker 1" fu demolito nel 1943 e di esso si è perduta ogni traccia; il "Bunker 2" fu distrutto alla fine del 1944, ma della casa alla quale fu attribuita questa denominazione e questa funzione restano ancora le fondamenta, che attualmente fanno parte del percorso di visita del campo di Birkenau.
Marcello Pezzetti vi annuncia di aver scoperto il luogo dove un tempo si trovava il presunto "Bunker 1" di Birkenau, luogo nel quale fino a qualche mese fa sorgeva una casa privata abitata da una famiglia polacca, ora in demolizione. Anzi, secondo Marcello Pezzetti, la casa stessa era il "Bunker 1", perché egli "si chiedeva come fosse possibile vivere serenamente in una camera a gas", il che è assurdo, dato che il presunto "Bunker 1" fu raso al suolo nel 1943.
La "scoperta" sarebbe avvenuta nell'estate del 1993, quando "Schloma" [recte: Schlomo; nome polacco: Szlama] Dragon, il fratello Abraham, e Eliezer "Esisenschmidt" [recte: Eisenschmidt] lo avrebbero accompagnato davanti alla casa ritratta nella fotografia piccola a sinistra nella pagina summenzionata [vedi allegato 5].
Chi è Marcello Pezzetti?
pezzetti marcello(nella foto a dex. BW5a)
è un ricercatore del "Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea" (CDEC) di Milano, noto soprattutto per le sue consulenze ai film olocaustici di Spielberg (Schindler's List) e di Benigni (La vita è bella) e per aver curato la realizzazione del CR-Rom "Destinazione Auschwitz" (Proedi, Milano 2000), una specie divideo game creato come strumento di lavaggio del cervello delle giovani generazioni.
Negli ambienti giornalistici italiani, che gli danno largo spazio, Marcello Pezzetti è considerato "uno dei massimi esperti di Auschwitz e Shoah al mondo", e la cosa tragica è che, a quanto pare, lo crede anche lui!
Il primo annuncio della "scoperta"
Marcello Pezzetti aveva già annunciato la prodigiosa "scoperta" del presunto "Bunker 1" di Birkenau quattro anni or sono.
Nel numero del 26 febbraio 1998, il settimanale "Panorama" ha pubblicato un articolo di tale Valeria Gandus intitolato "Operazione memoria" (pp.94-97), concernente la decisione dell'Unesco di inserire l'ex KL Auschwitz
"nel programma destinato al restauro e alla conservazione dei più importanti musei di tutto il mondo" (p.94).
La giornalista informava che ciò che resta dei crematori II e III di Birkenau viene costantemente
"violato e saccheggiato dai naziskin in caccia di macabri souvenir e dai negazionisti alla ricerca di prove "scientifiche"" (p. 94),
perciò l'Unesco sta elaborando un progetto che
"prevede che quel che resta dei due edifici venga protetto (probabilmente sarà messo sotto vetro) e reso accessibile solo agli studiosi" (p.96).
Lo scopo del progetto è chiaro: precludere agli studiosi revisionisti l'accesso alle rovine di queste presunte installazioni di sterminio per impedire ulteriori approfondimenti della questione non certo irrilevante della "chimica dello sterminio". Evidentemente Fred Leuchter e Germar Rudolf hanno lasciato il segno nella cultura ufficiale.
La giornalista ci informa poi che
"membro delegato dall'Unesco al progetto e al controllo dell'operazione è un italiano, Marcello Pezzetti, storico e ricercatore del Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), uno dei massimi esperti mondiali del luogo più oscuro della memoria collettiva d'Europa" (pp.94-95).
Ed ecco l'annucio della straordinaria "scoperta":
"studiando le mappe originali del campo e interrogando gli ultimisopravvissuti della prima squadra di "sonderkommando" [sic] (i prigionieri addetti alla spoliazione delle vittime e alla raccolta [!] dei cadaveri) Pezzetti ha trovato il luogo e l'edificio. "Del Bunker 1 avevano parlato, nei processi celebrati dopo la guerra, pochi testimoni. Nessuno di loro, però, era stato portato fisicamente al campo per identificare il luogo e la costruzione", racconta Pezzetti.
Per una malintesa esigenza di pacificazione, la realpolitik imponeva che non si facessero scomode ricerche su un territorio che avrebbe dovuto essere tutelato e consacrato al ricordo e che veniva invece colonizzato da polacchi in cerca di terreni a buon mercato dove ricostruire le case distrutte dalla guerra e da alcuni vecchi abitanti che a suo tempo erano stati evacuati dai nazisti. Fra questi ultimi, tornarono "a casa" anche coloro che prima della costruzione di Birkenau possedevano e abitavano l'edificio poi trasformato in camera a gas. E sulle rovine della vecchia villetta fatta saltare parzialmente dalle Ss nel novembre del 1944 [sic!], ricostruirono la nuova abitazione""(p.95).
All'epoca questa eccezionale "scoperta" è passata quasi inosservata, ma ora le cose sono diverse, perché questa volta entra in gioco l'industria dell'Olocausto.
Vediamo anzitutto quale sia il valore storico di questa "scoperta". In quel che segue, anticipo alcuni risultati di un mio studio in corso sui presunti "Bunker" di Birkenau.
Il valore storico della "scoperta"
Premetto che i "Bunker" di Birkenau, come installazioni di sterminio, non sono mai esistiti. Intorno al campo di Birkenau esistettero invece varie case polacche; alcune furono demolite; altre furono prese in carico dalla SS-Neubauleitung (poi Bauleitung, infine Zentralbauleitung) di Auschwitz, provviste di numero di "Bauwerk" e di denominazione e impiegate per lo scopo prescelto (ad esempio, la casa polacca censita col numero 44 divenne il "Bauwerk 36c", fu ristrutturata e fu assegnata come alloggio all'SS–Sturmbannführer Cäsar, Leiter der landwirtschaftlichen Betriebe); altre ancora furono lasciate intatte ma non furono prese in carico dalla Zentralbauleitung, perciò rimasero inutilizzate. A due di queste case — con un tortuoso processo letterario che cominciò nell'agosto 1942, si sviluppò tra il 1942 e il 1944 in un coacervo di temi disparati e contrastanti e raggiunse un primo stadio letterario organico nel febbraio 1945 grazie a Szlama Dragon — fu infine attribuita la qualifica di "Bunker 1" e "Bunker 2".
Allegato-1,cliccare sulla foto per ingrandire.BW5a.
Qui però il problema è un altro: la posizione del presunto "Bunker 1" indicata da Marcello Pezzetti è infatti in totale contrasto con l'unica fonte di cui disponga la storiografia ufficiale. Si tratta della relazione della signora Józefa Wisifska resa il 5 agosto 1980 e consegnata al Museo di Auschwitz, che fu protocollata da Franciszek Piper e che si trova attualmente nella collezione "Oswiadczenia", tomo 113, pp. 77-78 [vedi allegato 1].
La signora Wisifska dichiarò che, prima della Seconda guerra mondiale, la sua famiglia abitava nelle immediate vicinanze del campo di Birkenau. Nel 1941 la casa di suo zio, Józef Harmata (e di suo genero Gryzek), fu requisita e trasformata poi dai Tedeschi nel "Bunker 1". Nel 1949 la signora Wisifska tornò nel terreno di sua proprietà: la casa di suo zio (il presunto "Bunker 1") non esistevapiù. A pochi metri dal luogo in cui si trovava fu successivamente costruita una casa che all'epoca apparteneva al signor Stanislaw Czarnik.
Allegati-2,3,cliccare sulle foto per ingrandire.BW5a.
La signora Wisifska allegò alla sua relazione uno schizzo topografico della zona [vedi allegati 2 e 3] in cui è indicata la posizione esatta della vecchia casa di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1") e della nuova casa del signor Czarnik.
La signora Wisifska non aveva ovviamente nessuna prova di nessun tipo che la casa di suo zio Józef Harmata e di suo genero Gryzek fosse stata trasformata dalle SS di Auschwitz in "Bunker 1". Ella era stata evidentemente imbeccata dal Museo di Auschwitz, il quale, fin dal 1978, avendo fissato arbitrariamente in una pianta ufficiale del campo di Birkenau la posizione del presunto "Bunker 1" proprio nel punto indicato nel 1980 dalla signora Wisifska, aveva bisogno di questa "prova" fittizia a posteriori per giustificarsi.
La scelta di un membro della famiglia Harmata si spiegava col fatto che la sentenza del processo Höss (2 aprile 1947) aveva dichiarato che le case polacchepresuntamente trasformate in "Bunker 1" e in "Bunker 2" appartenevano ai contadini di Brzezinka (Birkenau) Wiechuja e Harmata. Tuttavia i nomi di questi due contadini furono scelti arbitrariamente, tra le persone che abitavano nella zona e che erano state espropriate delle loro case dalle SS, soltanto per creare una prova fittizia della localizzazione dei "Bunker". In questa penosa finzione, i giudici attribuirono il presunto "Bunker 1" alla casa della famiglia Wiechuja, il presunto "Bunker 2" a quella della famiglia Harmata. In ciò essi seguirono quanto il perito Roman Dawidowskiaveva scritto nella sua perizia del 26 settembre 1946. La signora Wisifska asseriva invece che la casa presuntamente trasformata in "Bunker 1" apparteneva alla famiglia Harmata e non a quella Wiechuja, il che è una ulteriore conferma del fatto che l'attribuzione dei due "Bunker" alle case delle due famiglie summenzionate non aveva alcun fondamento reale.
A sin,l'allegato-4, cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
A dex,l'allegato-5, cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
Il 20 settembre 1985 Franciszek Piper scattò quattro fotografie di una casa, da lui indicata come quella del signor Czarnik, e le allegò alla relazione della signora Wisifska. Una di queste fotografie, inventariata dal Museo di Auschwitz col riferimento d'archivio "nr neg. 21225/3", mostra una veduta frontale della casa in questione [vedi allegato 4], la quale è identica a quella della fotografia pubblicata nell'articolo menzionato sopra [vedi allegato 5].
Tuttavia questa casa, che anch'io ho fotografato nell'agosto del 2000 [vedi allegato 6], si trova al di là della strada che attualmente fiancheggia esternamente la recinzione ovest del campo di Birkenau, mentre la casa di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1"), come risulta indubitabilmente dallo schizzo topografico della signora Wisifska, era situata molto più a est, all'interno della recinzione del campo e precisamente poche decine di metri a nord delle quattro fosse dell'impianto di chiarificazione ("Kläranlage"), che esistono ancora.
Allegato-7,cliccare sulla foto per ingrandire.BW5a.
La casa indicata da Marcello Pezzetti è posta a ovest di un altro punto di riferimento facilmente individuabile, il monumento ai prigionieri di guerra sovietici. Questo monumento è situato circa 200 metri a ovest dell'impianto di chiarificazione e dunque del punto in cui si trovava la casa di Józef Harmata (presunto "Bunker 1"), in prossimità della recinzione ovest del campo e della strada che la fiancheggia [vedi allegato 7], alla quale si accede attraverso un vecchio cancello. Da qui, procedendo verso destra (nord), la casa in questione si trova a un centinaio di metri.
In pratica, questa casa, la quale, secondo Marcello Pezzetti, sorgeva sulle rovine del "Bunker 1" (o era addirittura il "Bunker 1"!), dista in linea d'aria più di 300 metri dal punto in cui si trovava la casa di Józef Harmata e dunque dal luogo in cui sorgeva il presunto "Bunker 1".
Da quanto sopra risultano tre conclusioni:
1) il fatto che una casa (quella del signor Czarnik) si trovi a pochi metri dalla casa che fu di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1") non è una scoperta di Marcello Pezzetti, ma una rivelazione della signora Wisifska
2) l'identificazione della casa appartenente al signor Czarnik con la casa che appare nella fotografia pubblicata nell'articolo del "Corriere della Sera" è stata effettuata da Franciszk Piper otto anni prima di Marcello Pezzetti
3)questa identificazione è errata, perché la casa ritratta nelle fotografie di Franciszek Piper e di Marcello Pezzetti e nella mia fotografia non può essere la casa del signor Czarnik indicata dalla signora Wisifska, dunque non può essere la casa sorta sulle rovine del presunto "Bunker 1".
Perciò la "scoperta" di Marcello Pezzetti non ha alcun valore storico.
I "testimoni" di Marcello Pezzetti
Marcello Pezzetti racconta che, nel 1993, Szlama Dragon, il fratello Abraham ed Eliezer Eisenschmidt lo guidarono dritto e senza esitazione alla casa dove presuntamente sorgeva il presunto "Bunker 1". Ora — come vedremo sotto — Szlama Dragon nel 1945 era stato interrogato prima dai Sovietici, poi dai Polacchi, ma non aveva mai saputo fornire alcuna indicazione sulla posizione del presunto "Bunker 1".
Come si può dunque credere seriamente che egli abbia individuato con tutta sicurezza un luogo che non era stato capace di trovare 48 anni prima?
La cosa è tanto più incredibilein quanto a Vienna, alla 26a udienza del processo Dejaco-Ertl (2 marzo 1972), questo testimone, dopo aver confuso il giorno prima il crematorio I con il "Bunker 2" (!), fu costretto a confessare:"Ich kann mich heute nach 30 Jahren nicht mehr erinnern…" ("Oggi, dopo 30 anni, non riesco più a ricordare…").
Per un portentoso prodigio della natura, dunque, Szlama Dragon ha ricordato perfettamente dopo 48 anni ciò che non ricordava dopo 30 e non sapeva dopo tre anni!
Il fratello di Szlama Dragon, Abraham, non depose né al processo Auschwitz né al processo della guarnigione del campo, non fece successivamente dichiarazioni giurate né scrisse rapporti sulle sue esperienze; la stessa cosa vale per Eliezer Eisenschmidt. Entrambi hanno raccontato per la prima volta la loro storia negli anni Novanta!.
Nell' intervista riportata in quest'opera, i fratelli Dragon dichiarano di aver lavorato un solo giorno presso il presunto "Bunker 2" nel dicembre 1942; inoltre Szlama vi lavorò per due giorni nel 1944, e questo è tutto! Né Szlama né Abraham furono mai portati al presunto "Bunker 1": ma allora, come poterono localizzarlo con tanta sicurezza nel 1993?
Eliezer Eisenschmidt pretendeva invece di aver lavorato al "Bunker 1" per sei mesi, ma, nonostante ciò, egli non ha saputo fornire neppure un vago indizio sulla sua posizione. Non solo, ma egli ignorava perfino la denominazione di "Bunker" per la presunta "camera a gas", anzi, credeva addirittura che i "Bunker" (al plurale) fossero le presunte "fosse di cremazione"!
"Le fosse o "Bunker", come le chiamavamo, erano grosse e profonde".
Nel libro menzionato sopra, Gideon Greif racconta che nell'estate del 1993, mentre intervistava Szlama Dragon presso le rovine del presunto "Bunker 2", si avvicinò "un amico della televisione italiana" che gli mostrò una pagina della deposizione polacca di Szlama Dragon del 1945. L'italiano, con tale documento, cercava di individuare il luogo delle "fosse di cremazione" e allora Gideon Greif gli disse di interrogare direttamente Szlama Dragon, che era lì presente. Al che, l'italiano rimase "senza parole". D'altra parte, anche Eliezer Eisenschmidt era a Birkenau nell'estate del 1993, perciò è chiaro che l' "amico della televisione italiana" non era altri che Marcello Pezzetti. In questa occasione dunque egli interpellò i tre "superstiti" e "scoprì" il presunto "Bunker 1": ma allora perché Gideon Greif non accenna minimamente alla presunta "scoperta"?
Nel suo libro viene riprodotta la pianta di Birkenau già pubblicata nel "Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945", nella quale la "1.provisorische Gaskammer" (prima camera a gas provvisoria) viene indicata esattamente nello stesso punto (e con lo stesso simbolo) in cui appariva nella pianta pubblicata nel libro "Auschwitz. Nazi Extermination Camp" (1978) — sulla quale ritornerò sotto — cioè poco a nord del Kläranlage del Bauabschnitt III (settore di costruzioni III), nella posizione indicata dalla signora Wisifska. Ora, se è vero che Szlama Dragon, Abraham Dragon e Eliezer Eisenschmidt avevano individuato esattamente la posizione del presunto "Bunker 1" già nel 1993 (evidentemente in presenza di Gideon Greif, che li aveva portati a Birkenau per intervistarli), perché questi non ne parla affatto?
E perché i tre testimoni non corressero la pianta di Birkenau pubblicata nel suo libro?
Marcello Pezzetti pretende che i tre testimoni lo accompagnarono senza esitazionedavanti alla casa polacca summenzionata "partendo dal Krematorium III". Si tratta di una semplice affermazione retorica ad effetto che può solo far sorridere chi abbia una certa dimestichezza con la topografia di Birkenau, tanto più in quanto, dal 1943 al 1993, la zona intorno al campo è cambiata enormemente.
Se dunque la storia della passeggiata a Birkenau è vera, questi tre poveri vecchi hanno semplicemente condotto Marcello Pezzetti dove egli voleva essere condotto.
La posizione del Museo di Auschwitz sulla "scoperta"
Il 20 novembre 2001, "Le Monde" ha pubblicato un breve articolo di Henri Tincq intitolato "Le mystère enfin levé de la première chambre à gaz d'Auschwitz-Birkenau" che è uno scialbo riassunto dell'articolo del "Corriere della Sera". Dal quotidiano parigino la notizia della "scoperta" è successivamente passata nella stampa europea e americana. Perfino il Museo di Auschwitz ha appreso della "scoperta" di Marcello Pezzetti dall'articolo di "Le Monde" e ha risposto con un articolo di Jerzy Sadecki su "Rzeczpospolita" (Repubblica) intitolato "Auschwitz-Birkenau. Le Monde solves a mystery that was no mystery", che contiene anche le considerazioni del direttore del Museo, Jerzy Wróblewski, e di Franciszek Piper. Riporto le parti salienti dell'articolo, che ho tratto dal sito http://www.auschwitz-muzeum.oswiecim.pl/html/eng/aktualno…:
"Non è possibile vivere in qualcosa che non esiste. "Quella famiglia non può aver vissuto in una camera a gas, perché i Tedeschi distrussero la casetta rossa nel 1943. Di essa non rimase alcuna traccia; i Tedeschi non lasciarono sul posto neppure un pezzetto delle sue fondamenta", spiega il dott. Franciszek Piper, del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau. "Solo nel 1955 i proprietari del terreno costruirono una nuova casa sul luogo della camera a gas e ci andarono ad abitare". […].
"Sfortunatamente, quando, nel 1957, furono fissati i confini del campo — dichiara Jerzy Wróblewski, direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, il terreno in cui si trovava la prima camera a gas nel 1942-1943 fu lasciata fuori, sebbene fosse adiacente. Non so per quale ragione all'epoca si prese questa decisione. Forse perché vi era già stata costruita una nuova casa e negli anni di generale ricostruzione dopo le devastazioni della guerra nessuno osò chiedere che fosse demolita".
Wróblewski è perplesso di fronte all'affermazione di Le Monde che il luogo è stato scoperto soltanto ora.
"L'ubicazione è nota da parecchio tempo e non costituisce alcun mistero. L'ubicazione fu identificata nel 1945 nei rapporti sia della commissione sovietica sia di quella polacca. Essa fu indicata da detenuti che testimoniarono all'epoca, incluso Schlomo Dragon. Il comandante del campo, Rudolf Höss, la descrisse nelle sue memorie, che furono pubblicate più tardi". "Tutte le guide che conducono i visitatori per il campo conoscono l'ubicazione",
affermano Piper e Wróblewski.
"Se il giornalista di Le Monde avesse voluto ottenere informazioni alla fonte, al Museo, avremmo potuto mostrargli il noto studio Auschwitz:Nazi Death Camp, pubblicato la prima volta da Interpress nel 1977, che contiene una pianta di Birkenau nella quale è segnato il luogo della prima camera a gas. Già negli Ottanta, prima che qualcuno qui avesse sentito parlare del signor Pezzetti, io consultai i documenti catastali dei proprietari e stabilii al metro l'ubicazione della casetta rossa", dice Piper. Una pianta della casa — egli rileva — si trova a p. 114 del terzo volume del compendio in cinque volumi Auschwitz pubblicato in polacco, in tedesco e in inglese". […].
Marcello Pezzetti apparve ad Auschwitz diversi anni fa e partecipò ai dibattiti su come risolvere il problema del luogo della casetta rossa. Pezzetti trovò uno sponsor, Richard Prasquier.
Dopo lunghe trattative, quest'anno il Museo è riuscito a comprare la proprietà e a trasferire i suoi abitanti in un'altra casa, che fu ricostruita. Squadre di tecnici del Museo hanno smantellato la struttura che era sul luogo della camera a gas e vi hanno realizzato un giardino. "In primavera — dice Wróblewski — vogliamo recintare il terreno, seminarvi l'erba, piantarvi la tuia ed erigervi una targa commemorativa recante una breve storia del luogo e un pavimento della prima cammera a gas"".
Le imposture del Museo di Auschwitz
Dunque il Museo di Auschwitz rivendica a sé la presunta "scoperta", ma, incredibilmente, non contesta affatto che la casa indicata da Marcello Pezzetti si trovasse nel luogo in cui era situato il presunto "Bunker 1". Questa tesi può essere sostenuta dai due personaggi summenzionati soltanto con argomenti menzogneri.
Jerzy Wróblewski afferma che
"l'ubicazione [del "Bunker 1"] fu identificata nel 1945 nei rapporti sia della commissione sovietica sia di quella polacca. Essa fu indicata da detenuti che testimoniarono all'epoca, incluso Schlomo Dragon".
Ciò è completamente falso.
Nessuno dei testimoni oculari interrogati dai Sovietici subito dopo la liberazione di Auschwitz fu in grado di indicarne la posizione né sul terreno né su mappe topografiche. Ciò vale in particolare per Szlama Dragon, il testimone per antonomasia dei presunti "Bunker" di Birkenau, che fu interrogato dai Sovietici il 26 febbraio 1945 e successivamente dai Polacchi il 10 e 11 maggio 1945 e che non fu mai in grado di indicare il punto in cui si trovava il presunto "Bunker 1".
Anzi, nonostante la presenza di Dragon e di altri testimoni, riguardo al presunto "Bunker 1" l'incertezza topografica dei Sovietici era tale che, nella pianta redatta dall'ing. Nosal il 3 marzo 1945 per conto della Commissione sovietica di inchiesta, esso appare in una posizione completamente diversa: al di fuori del campo, a circa 300 metri dalla recinzione nord del BauabschnittIII di Birkenau, ossia circa 500 metri a nord della posizione indicata dal Museo di Auschwitz nelle sue piante ufficiali (a cominciare da quella pubblicata nel libro Auschwitz:Nazi Death Camp). Il perito Dawidowski si limitò ad accettare la posizione indicata nella pianta summenzionata e questa è una riprova del fatto che le famiglie Harmata e Wiechuja non avevano alcuna relazione con le case presuntamente trasformate in "Bunker".
Nessuno dei testimoni che apparvero nel 1947 al processo Höss e al processo della guarnigione del campo di Auschwitz fu in grado di indicare la posizione del presunto "Bunker 1", e ciò vale anche per i testimoni che rilasciarono dichiarazioni successivamente.
Wróblewski e Piper rimandano poi al libro "Auschwitz: Nazi Death Camp, first published by Interpress in 1977, which contains a map of the Birkenau camp where the site of the first gas chamber is marked".
Allegato-8,cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
E' vero che questo libro (apparso nel 1978) contiene una pianta del campo di Birkenau nella quale è indicata la posizione del "Bunker 1", ma questo non è situato al di fuori del campo, dove pretendono di averlo "scoperto" Franciszek Piper prima, Marcello Pezzetti poi, bensì davanti (a nord) alKläranlage, esattamente nella posizione indicata dalla signora Wisifska! [vedi allegato 8].
Dunque i due esponenti del Museo di Auschwitz mentiscono sapendo di mentire.
L'impostura viene completata da Franciszek Piper con questa affermazione:
"Già negli Ottanta, prima che qualcuno qui avesse sentito parlare del signor Pezzetti, io consultai i documenti catastali dei proprietari e stabilii al metro l'ubicazione della casetta rossa".
Qui Piper si riferisce alla relazione della signora Józefa Wisifska resa il 5 agosto 1980 e protocollata proprio da lui. Tuttavia, come ho spiegato sopra, la signora Wisifska, per il "Bunker 1", ha indicato "al metro" una posizione completamente diversa, perciò anche in questo caso Franciszek Piper mentisce sapendo di mentire.
Marcello Pezzetti non è da meno.Egli, nell'articolo del "Corriere della Sera" trasforma la relazione della signora Wisifska in una
"mappa del catasto, con tanto di documento autografo della proprietaria e l'indicazione gaskammer [sic]",
il che è pura fantasia.
(nella foto il pezzetti)
La realtà è che, secondo varie mappe tedesche dell'area di Birkenau, tra cui quella importantissima del 5 ottobre 1942, a est del futuro Bauabschnitt III del campo, entro un limite di 500 metri dalla recinzione, c'erano soltanto sei costruzioni, esattamente corrispondenti a quelle dello schizzo della signora Wisifska (ad eccezione della costruzione n. 6, una stalla, che non appare nella mappa). Nell'area in cui si trovava la casa polacca nella quale Marcello Pezzetti ha voluto ravvisare il "Bunker 1", invece,non è mai esistita alcuna costruzione!
E questo fatto dimostra inoppugnabilmente che la "scoperta" del presunto "Bunker 1" non è un errore in buona fede, ma una volgare impostura.
E che si tratti di un'impostura è confermato — senza ombra di dubbio — dal fatto che,nelle piante di Birkenau contenute nel CR-Rom "Destinazione Auschwitz" menzionato sopra e nel libro che da esso è stato tratto. In questo libro, pubblicato nel gennaio 2002 con la "consulenza storica" di Marcello Pezzetti, appare un disegno su due pagine del campo di Birkenau in cui il "Bunker 1" è ubicato esattamente nel punto indicato dalla signora Wisifska, cioè accanto al Kläranlage del Bauabschnitt III!.
Ma ciò non ha impedito al nostro "esperto mondiale di Auschwitz" di pubblicare anche una fotografia della casa polacca al di fuori della recinzione del campo oggetto della sua presunta "scoperta" con la seguente didascalia:
"Abitazione costruita da contadini polacchi sui resti del Bunker n. 1, smantellato dai nazisti nella primavera del 1943".
Se questa non è malafede deliberata, allora è tragica ottusitàstoriografica. Entrambe le eventualità sono indegne di chi pretenda di impartire agli altri lezioni di storia e di morale.
Ilbusinessdella "scoperta"
La presunta "scoperta" ha naturalmente un risvolto propagandistico-economico.
Riguardo alla casa che, secondo Marcello Pezzetti, sorgerebbe sulle rovine del presunto "Bunker 1", il "Corriere della Sera" scrive:
"Oggi casa e terreno sono stati acquistati, l'edificio abbattuto per scoprire le fondamenta del vecchio bunker [il presunto Bunker 1 C.M], "il terreno sarà compreso nel percorso [di visita al campo C.M.] del museo, restituito alla memoria e alla preghiera",spiega Pezzetti. Tutto grazie a lui e al dottor Richard Prasquier, un cardiologo parigino che da piccolo scampò con la famiglia alla "liquidazione" del ghetto di Varsavia ed ha finanziato tutta l'operazione".
Un articolo apparso sul "Bollettino della Comunità ebraica di Milano" (Anno 57°, numero 1, gennaio 2002, p. 11) ci svela già nel titolo quale sia la vera finalità della prodigiosa "scoperta" di Marcello Pezzetti:
"Shoà [sic]: la prima camera a gas di Auschwitz diventa museo".
L'articolo si apre con questa informazione:
"Due famiglie di contadini polacchi, gli Harmata e i Wichaj (sei persone tra nonni,figlio con moglie e due nipotini), nel mese di novembre hanno traslocato in una casa tutta nuova, studiata nei minimi particolari, con moquettes e marmi".
La nuova casa, continua l'articolo, è stata costruita grazie alla generosità del cardiologoebreo Richard Prasquier per "restituire alla memoria" il presunto "Bunker 1":
"Sì, perché la famiglia nel '47, alla fine della guerra, era rientrata nella casa che, requisita dai nazisti nel '42, era stata utilizzata fino all'aprile del '43 come camere a gas per gli ebrei".
Dunque nel 1947 "la famiglia" (quale delle due?) era andata ad abitare nientemeno che nel "Bunker 1"! A giustificazione dell'anonimo articolista bisogna dire che questa solenne idiozia gli è stata suggerita daMarcello Pezzettiin persona, di cui egli riporta le seguenti parole:
"Quando otto anni fa ho scoperto che la casa abitata da questa famiglia era nientemeno che il "bunker 1", cioè la prima camera a gas di Birkenau", racconta Marcello Pezzetti della Fondazione CDEC, "ho capito subito che si trattava di un luogo particolarmente importante per la memoria ebraica, che doveva entrare nel circuito museale di Auschwitz-Birkenau".
Marcello Pezzetti racconta poi i mezzi vergognosi con i quali è riuscito a "convincere" a sloggiare la famiglia in questione, che "non aveva alcuna intenzione di lasciare la casa".
Dopo otto anni di pressioni da parte delle "autorità politiche locali", del "nuovo direttore del museo [di Auschwitz] Stefan Wilkanowicz" e perfino dell'
"incaricato del Vaticano in Francia per i rapporti con il mondo ebraico",
e grazie al denaro del "filantropo francese Richard Prasquier, presidente di Yad Vashem Francia", la famiglia alla fine si è arresa e ha accettato di trasferirsi in un villino nuovo costruito a 500 metri di distanza. Nel frattempo Marcello Pezzetti si dava da fare per proprio conto. Egli confessa infatti candidamente che i componenti della famiglia polacca
"hanno forse salutato come la fine di un incubo" questo trasferimento,
"visto che, per farli decidere a trattare, avevo iniziato a portare davanti alla casa pulmann di visitatori ai quali indicavo la casa come la prima camera a gas e il suo giardino come un cimitero. Per anni, al nostro arrivo, usciva l'anziana nonna che tentava di mandarci via con parole e modi bruschi".
La povera famiglia è dunque stata tormentata psicologicamente in questo modo "per anni" da questi "visitatori" — calpestando vergognosamente il suo diritto alla privacy — per portarla all'esasperazione e costringerla a sgombrare dalla propria casa.
Marcello Pezzetti aggiunge che la nuova casa è stata pagata ufficialmente dal governo polacco
"perché la famiglia non voleva che i vicini pensassero che aveva accettato soldi da ebrei".
Il denaro investito dal "filantropo francese" in questo affare sarà senza dubbio ampiamente ripagato dallo sfruttamento propagandistico del nuovo padiglione dell'industria dell'Olocausto. Si può esser certi che la prima operazione commerciale sarà un video (che sarà venduto in milioni di copie) sulla "scoperta" del "Bunker 1".
Non c'è dubbio che anche il Museo di Auschwitz, grazie alla "scoperta", vedrà presto incrementare i suoi profitti.
Naturalmente la "scoperta" ha anche un importante aspetto ideologico-propagandistico: essa arriva infatti in un momento di grande crisi della storiografia ufficiale, la quale, perduto il contributo di Jean-Claude Pressac, si è impantanata in una sterile rimuginazione di temi già logori, del tutto incapace di fare un passo avanti sulla via della ricerca. Precipitata a capofitto da Pressac a van Pelt, essa si dibatte nella mediocrità e non sa più che cosa opporre alla critica revisionistica.
L'impostura del "Bunker 1" diventerà dunque una nuova arma mediatica contro il revisionismo.
L'avverarsi di alcune rivelazioni di papa Pacelli (1876-1958), come il crollo dell'Unione Sovietica e l'elezione di un pontefice polacco, rende credibili e talora allarmanti le "ispirazioni profetiche" che riguardano il nostro futuro.
La liberazione del popolo cinese, il crollo del capitalismo, l'ingovernabilità dell'Italia, l'invasione dei popoli provenienti dall'est e dai Paesi africani diverranno realtà?
Eugenio Maria Giuseppe Giovanni Pacelli nacque a Roma il 2 marzo 1876, terzogenito dell'avvocato della Sacra Rota Filippo Pacelli (1837-1916) e di Virginia Graziosi (1844-1920).
I titoli nobiliari della famiglia Pacelli (nobili romani, nobili di Acquapendente e di Sant'Angelo in Vado, concessi alla famiglia nel 1853 e 1858) erano conseguenza dei tempi della seconda Repubblica Romana (1848-1849), quando il papa-re Pio IX si rifugiò a Gaeta e Marcantonio Pacelli (1804-1902) da Onano (Viterbo), nonno paterno di Eugenio, che aveva seguito il Papa nella cittadina laziale (allora parte del Regno delle Due Sicilie), fu premiato con i titoli di principe e di marchese sia per la sua fedeltà sia per aver contrastato efficacemente dopo la fine della Repubblica, nel ruolo di sostituto del ministro dell'interno, i liberali che si opponevano al governo papalino.
Lo stesso Marcantonio fu, successivamente, tra i fondatori dell'Osservatore Romano (1861).
Dopo le elementari frequentate in una scuola privata cattolica e la frequenza al liceo di Stato "Ennio Quirino Visconti", Eugenio Pacelli entrò nel Collegio Capranica e poi, dal1894 al 1899, studiò teologia alla Gregoriana presso cui si addottorò nel 1901, quando già da due anni era stato ordinato sacerdote (1899).
Del 1902 è la laurea ingiurisprudenza in utroque iure (vale a dire, sia in diritto civile, sia in quello canonico), anche se non ebbe mai modo di praticare l'avvocatura, strada che seguì suo fratelloFrancesco, giurista per la Santa Sede e uno dei principali negoziatori dei futuri Patti Lateranensi del 1929.
Eugenio sentì sin da piccolo la "vocazione": pare che nei momenti liberi amasse far finta di celebrare la messa.
Determinante per la sua formazione fu l'influenza che ebbe, a partire dall'età di 8 anni, il reverendo Giuseppe Lais, scienziato astronomo, discendente da una storica famiglia romana di origine sassone, per molti anni precettore e mentore del futuro papa Pio XII, in seguito insignito da papa Benedetto XV della medaglia d'oro pontificia.
Pio XI morì il 10 febbraio 1939. In qualità di camerlengo, toccò proprio a Pacelli dirigere il conclave che ne seguì.
Il 2 marzo 1939, dopo solo tre scrutini e un giorno di votazioni, la scelta ricadde sullo stesso Pacelli, che si impose il nome di Pio XII, a simboleggiare la continuità dell'operato con il precedente capo della Chiesa.
Fatto insolito per un conclave, fu eletto colui che, alla vigilia, aveva le migliori possibilità di diventare papa.
In effetti Pacelli rappresentava un'ottima scelta politica in quanto era il più esperto in diplomazia tra i cardinali del Collegio.
Pacelli fu il primo segretario di Stato dal 1667 (Clemente IX) e il secondo camerlengo (dopo Leone XIII) a venir eletto papa.
L'elezione e l'incoronazione di Pacelli ebbero un'accoglienza mista in Germania.
Da parte di alcuni settori della stampa tedesca, giunsero commenti alquanto ostili: il Berliner Morgenpost scrisse che «l'elezione di Pacelli non è accolta favorevolmente in Germania poiché egli è sempre stato ostile al nazionalsocialismo»; la Frankfurter Zeitung scrisse che «molti dei suoi discorsi hanno dimostrato che non comprende del tutto le ragioni politiche e ideologiche che hanno iniziato la loro marcia vittoriosa in Germania».
D'altra parte l'elezione fu accolta favorevolmente in ambienti diplomatici: il capo del Dipartimento degli Affari vaticani presso il Ministero degli affari esteri del Reich, il consigliere Du Moulin, redasse un memorandum sulle tendenze politiche e sulla personalità del nuovo pontefice ove si descriveva il neo eletto come «molto amico della Germania».
A Berlino ci si ricordò che Pacelli era stato il promotore del Concordato fra la Santa Sede e il Terzo Reich e che, quando le relazioni fra Chiesa e regime nazionalsocialista si erano fatte tese, l'atteggiamento del segretario di Stato era stato sempre – secondo i dispacci dell'ambasciatore Bergen – molto più conciliante di quello di Pio XI.
Il giorno stesso della elezione del nuovo pontefice, il conte Ciano, ministro italiano degli affari esteri, annotava nel suo diario che alla vigilia Pignatti di Custoza, ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, gli aveva detto essere Pacelli il cardinale favorito dai tedeschi:
« 2 marzo – Viaggio di ritorno.
A Tarvisio ricevo la notizia dell'elezione alla tiara del cardinal Pacelli.
Non mi sorprende: ricordo il colloquio ch'ebbi con lui il 10 febbraio.
Fu molto conciliante.
E pare che nel frattempo abbia anche notevolmente migliorate le relazioni con la Germania, al punto che Pignatti ha ieri riferito essere il Pacelli il cardinale favorito dai tedeschi.
A tavola avevo detto a Edda ed ai miei collaboratori: "Il Papa sarà eletto entro oggi.
È Pacelli, che assumerà il nome di Pio XII".
La realizzazione della mia previsione ha interessato tutti »
(Renzo De Felice (a cura di), Galeazzo Ciano, Diario 1937-1943, Rizzoli, Milano, 1980, p. 259)
Dopo la cerimonia dell'incoronazione, il 12 marzo, Ciano annotò, sempre nel suo diario: Mussolini "è contento dell'elezione di Pacelli.
Si ripromette di fargli pervenire alcuni consigli circa quanto potrà fare per governare utilmente la Chiesa".
Uno dei primi atti di Pio XII dopo la sua elezione fu, nell'aprile del 1939, quello di togliere dall'Indice i libri di Charles Maurras, animatore del gruppo politico di estrema destra – antisemita e anticomunista – Action Française, che aveva molti simpatizzanti e seguaci cattolici; agli aderenti revocò, tra l'altro, anche l'interdizione dai sacramenti irrogata da Pio XI.
Alcuni storici tendono a leggere questo episodio non tanto in chiave antisemita quanto pragmaticamente anticomunista, stante la necessità di favorire gruppi e aggregazioni che sapessero competere, quanto a organizzazione e rapidità di azione politica, con quelli di ispirazione marxista, la cui capacità di mobilitazione nelle Brigate Internazionali nella recente guerra civile spagnola era chiaramente emersa.
Altri storici, comunque, sono del parere che il provvedimento sarebbe stato in linea con una minore riprovazione nei confronti del pregiudizio antisemita, in un periodo storico in cui anche l'Italia iniziava a dar concreta applicazione alle cosiddette leggi per la difesa della razza.
Secondo la sociologa e storica francese Jeannine Verdès-Leroux, i discorsi antisemiti divulgati da L'Action Française hanno contribuito «a rendere "possibile", "accettabile" l'introduzione dello statuto degli ebrei nell'ottobre 1940; l'assuefazione ai discorsi di Maurras e dei suoi accoliti – discorsi che si erano diffusi, avevano oltrepassato la cerchia degli adepti – ha attenuato, in qualche modo, il carattere mostruoso di quelle misure».
Nella sua prima enciclica Summi Pontificatus (1939), Pio XII condannò in nome della pace ogni forma di totalitarismo, nel solco della dottrina della regalità di Cristo che era stata uno dei cardini del pontificato di Pio XI.
Sempre nel 1939, proclamò san Francesco d'Assisi e santa Caterina da Siena patroni d'Italia.
Nel 1940 riconobbe definitivamente le apparizioni di Fatima e consacrò nel 1942 il mondo intero al Cuore Immacolato di Maria.
Inoltre incontrò più volte suor Lucia e le ordinò di trascrivere i famosi segreti di Fatima diventando quindi il primo pontefice a conoscere il famoso terzo segreto, che ordinò però di far restare nascosto.
Eletto in un periodo di grandi tensioni internazionali, con il regime nazista che iniziava ad occupare molti territori europei, il Papa tentò invano di scongiurare il rischio di una nuova guerra mondiale con diverse iniziative fra cui la più famosa è il discorso alla radio del 24 agosto 1939 in cui pronunciò la frase simbolo del suo pontificato: "Nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra".
Tuttavia tali iniziative furono inutili.
Il 1º settembre, la Germania invase la Polonia e il 3, Francia e Regno Unito risposero all'attacco: è la seconda guerra mondiale.
Papa Pacelli tentò con altri appelli di far cessare le ostilità e organizzò aiuti alle popolazioni colpite e creò l'ufficio informazioni sui prigionieri e sui dispersi.
Cercò, inoltre, di distogliere il fascismo dall'idea di far entrare in guerra l'Italia, ma nonostante ciò il 10 giugno 1940 anche l'Italia entrò in guerra.
Vari e ripetuti furono gli appelli del Papa in favore della pace.
Vanno ricordati in particolare i radiomessaggi natalizi di Pio XII del 1941, 1942 e 1943, in cui Pacelli delineò anche un nuovo ordine mondiale basato sul rispetto reciproco fra le Nazioni e i popoli.
Mussolini commentò il radiomessaggio del 1942 con sarcasmo: «Il Vicario di Dio – cioè il rappresentante in terra del regolatore dell'universo – non dovrebbe mai parlare: dovrebbe restare tra le nuvole.
Questo è un discorso di luoghi comuni che potrebbe agevolmente essere fatto anche dal parroco di Predappio».
Nel 1941 trasformò la Commissione delle Opere Pie, nata nel 1887, nell'Istituto per le Opere di Religione (IOR).
Durante l'occupazione nazista dell'Italia, dopo l'8 settembre, offrì asilo politico presso la Santa Sede a molti esponenti politici antifascisti tra cui Alcide De Gasperi e Pietro Nenni, appellandosi al fatto che la Città del Vaticano era uno Stato sovrano.
Non sempre i tedeschi rispettarono l'extra-territorialità di alcune altre aree a Roma di pertinenza della Santa Sede: nell'inverno del 1943 i tedeschi fecero irruzione nella basilica di San Paolo fuori le mura, dove arrestarono chi vi si era rifugiato, ed è stato scoperto di recente un piano segreto di Hitler che prevedeva l'occupazione del Vaticano e l'arresto di Pio XII, il quale secondo il dittatore nazista ostacolava i piani della Germania.
A questo proposito, per evitare che Hitler tenesse prigioniero il papa, Pio XII preparò una lettera di dimissioni da utilizzare in caso di propria cattura, dando istruzioni di tenere un successivo Conclave a Lisbona.
Nel 1943, quando i tedeschi imposero agli ebrei romani di versare oro in cambio di un'effimera e temporanea salvezza, il Vaticano contribuì fornendo 20 dei 50 chili d'oro richiesti. Durante il corso della guerra, nonostante le numerose informazioni ricevute Pio XII non condannò mai né si impegnò mai pubblicamente per fermare le deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento.
Secondo lo storico vaticanista Alberto Melloni, i tedeschi avrebbero poi organizzato il ratto del ghetto di Roma proprio per fare un affronto a papa Pacelli.
Il 19 luglio 1943, dopo il violento bombardamento di San Lorenzo a Roma, si recò nei quartieri colpiti, uscita eccezionale del Pontefice dal Vaticano (allora il Papa usciva dal suo Stato in casi estremamente rari); l'episodio è ricordato da Francesco De Gregori nel brano musicale San Lorenzo.
Durante la visita a San Lorenzo, papa Pacelli spalancò le braccia alla folla recitando il salmo De profundis.
Dopo l'armistizio dell'8 settembre e la fuga dei Savoia dalla capitale, Pio XII dovette fronteggiare da solo l'occupazione nazista della città.
Negli ultimi giorni di maggio del 1944, i tedeschi si preparavano alla fuga e avevano minato i ponti sul Tevere per impedire alle forze angloamericane di procedere nell'avanzata verso nord.
Pacelli ammonì: "Chiunque osi levare la mano contro Roma, si macchierà di matricidio".
Il 4 giugno 1944, dopo la Liberazione, ricevette in Vaticano i soldati alleati.
La domenica successiva i romani si recarono in massa a Piazza San Pietro a salutare e a festeggiare il Papa, che, di fatto, era l'unica autorità religiosa, morale e politica rimasta nella capitale dopo l'8 settembre.
Per questo Pio XII fu anche soprannominato "Defensor civitatis".
Negli anni successivi, Pio XII, anche per il suo carattere schivo e introverso, ridusse all'osso l'organizzazione della Curia Romana (dal 1944 non nominò nessun nuovo Segretario di Stato).
Tuttavia fu un Papa particolarmente amato dalla gente: istituì l'Angelus domenicale dalla finestra di Piazza San Pietro e fu il primo Papa le cui immagini vennero trasmesse in televisione (sul cui uso emise anche un'enciclica, la Miranda Prorsus).
Grazie alla conoscenza di numerose lingue, fu uno dei primi a rivolgersi in lingua straniera ai pellegrini che venivano a Roma.
Nel 1950 affermò, nella Humani Generis, la compatibilità tra fede cattolica ed evoluzionismo, nondimeno considerando l'evoluzione una teoria scientifica e non una realtà già dimostrata, e la necessità di doverose ulteriori chiarificazioni concettuali.
Nel 1952 in un famoso discorso alle ostetriche ammise la possibilità che i coniugi avessero rapporti sessuali anche durante il periodo di sterilità naturale della donna che è ancora oggi l'unico mezzo di contraccezione riconosciuto dalla Chiesa.
Inoltre, in molti discorsi ai giovani sposi, rilanciò il ruolo della famiglia e del matrimonio e indicò la Sacra Famiglia come modello di santità per le famiglie.
Venendo incontro alle richieste del mondo moderno autorizzò diversi provvedimenti, preludio delle riforme del Concilio Vaticano II: permise la celebrazione della Messa nelle ore serali, apportò modifiche alla lettura dei Salmi nel Breviario dei sacerdoti, riorganizzò l'ufficio del digiuno eucaristico riducendolo a tre ore per i cibi solidi, a un'ora per le bevande ed eliminandolo del tutto per l'acqua e i medicinali.
Consapevole dei benefici apportati dal progresso, ma anche dei pericoli insiti in esso, aggravati dall'instabilità della situazione internazionale dovuta alla guerra fredda, Pio XII era convinto che la vera pace avrebbe potuto scaturire solo da un nuovo ordine cristiano del mondo.
Un tale ordine gli sembrava minacciato dalla perdita del senso di responsabilità individuale, schiacciato dalla massificazione sociale, in cui ognuno era come diventato una semplice ruota di organismi privi di consapevolezza, e in cui la libertà risultava dunque svuotata:
« È però un fatto doloroso che oggi non si stima e non si possiede più la vera libertà […]
Questa è la condizione dolorosa, la quale inceppa anche la Chiesa nei suoi sforzi di pacificazione, nei suoi richiami alla consapevolezza della vera libertà umana […]
Invano essa moltiplicherebbe i suoi inviti a uomini privi di quella consapevolezza, ed anche più inutilmente li rivolgerebbe ad una società ridotta a puro automatismo.
Tale è la purtroppo diffusa debolezza di un mondo che ama di chiamarsi con enfasi "il mondo libero".
Esso si illude e non conosce se stesso. »
(Radiomessaggio di Pio XII del Natale 1951)
Nel 1953 tenne il suo secondo ed ultimo concistoro per la creazione di nuovi cardinali.
In seguito rivolse la sua attenzione anche alle vicende dei cattolici ungheresi, colpiti dalla repressione militare successiva alla rivoluzione del 1956.
Ai fatti dell'Ungheria dedicò, infatti, tre encicliche:
la Luctuosissimi Eventus
la Laetamur Admodum
la Datis Nuperrime.
La salute di Pio XII si aggravò durante la fine del decennio: fu afflitto per molto tempo da un singhiozzo continuo, dovuto forse ad una gastrite.
Già all'inizio del 1954 una malattia l'aveva portato in fin di vita ma sopravvisse.
Secondo alcune testimonianze, nel dicembre di quell'anno avrebbe avuto un'apparizione di Cristo che lo avrebbe miracolosamente guarito.
Pare che papa Pacelli gli abbia chiesto di "portarlo via" («Voca me!») presumendo di trovarsi in punto di morte, ma Gesù non abbia dato risposta.
L'Osservatore Romano confermò la notizia dell'apparizione.
Tra i suoi ultimi atti ufficiali, l'enciclica Fidei Donum (1957) con la quale invitò la Chiesa intera a riprendere lo slancio missionario soprattutto condividendo i sacerdoti con le giovani chiese.
Pio XII morì a Castel Gandolfo alle 3:52 del 9 ottobre 1958 a seguito di un'ischemia circolatoria e di collasso polmonare, all'età di 82 anni. Il successore di Pio XII, papa Giovanni XXIII, lo bandì a vita dal Vaticano.
Eugenio Pacelli è sepolto nelle Grotte Vaticane vicino alla tomba di Pietro, che egli contribuì a individuare. Il silenzio sull'olocausto
Una delle critiche più gravi rivolte a Pio XII è quella di aver mantenuto il silenzio circa lo sterminio degli ebrei – fatto di cui era a conoscenza, essendone stato informato più volte da più fonti.
Afferma lo storico Giovanni Miccoli: «non vi è dubbio che il Vaticano fu ben presto consapevole del salto di qualità che la persecuzione antiebraica aveva compiuto con lo scoppio della guerra».
Per quanto riguarda la “soluzione finale della questione ebraica”, numerose sono le attestazioni che la Santa Sede ne fu via via largamente informata con sufficiente precisione.
Ad esempio il 12 maggio 1942 don Pirro Scavizzi scriveva a Pio XII che: «la lotta antiebraica è implacabile e va sempre più aggravandosi, con deportazioni ed esecuzioni anche in massa.
La strage degli ebrei in Ucraina è ormai al completo.
In Polonia e in Germania la si vuole portare ugualmente al completo, col sistema delle uccisioni di massa».
Il 29 agosto 1942 monsignor Andrej Szeptycki confermava la gravità delle notizie: «non passa giorno senza che si commettano i crimini più orrendi. […]
Gli ebrei ne sono le prime vittime.
Il numero degli ebrei uccisi nel nostro piccolo paese ha certamente superato i 200.000.
Man mano che l'esercito avanza verso est, il numero delle vittime cresceva.
A Kiev, in pochi giorni, vi è stata l'esecuzione di circa 130.000 uomini, donne e bambini.
Tutte le piccole città dell'Ucraina sono state testimoni di analoghi massacri, e tutto ciò dura da un anno».
Il 18 settembre 1942, monsignor Giovanni Battista Montini, all'epoca impegnato nell'Ufficio informazioni del Vaticano, scriveva: «i massacri degli ebrei hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande e spaventose.
Incredibili eccidi sono operati ogni giorno; pare che per la metà di ottobre si vogliono vuotare interi ghetti di centinaia di migliaia di infelici languenti».
Il 3 ottobre 1942 l’ambasciatore polacco presso la Santa Sede riferì che in tutta la Polonia gli ebrei venivano deportati in campi di concentramento per poi essere uccisi; nel dicembre 1942 il ministro britannico presso la Santa Sede, Francis D’Arcy Osborne, ebbe un’udienza con Pio XII in cui consegnò al pontefice un rapporto redatto da inglesi, americani e sovietici sull’estrema povertà degli ebrei e sul loro sterminio sistematico; e così via.
Nonostante ciò non condannò mai né si impegnò mai pubblicamente per fermare le deportazioni degli ebrei nei campi di concentramento; tale critica è stata sostenuta in particolar modo dalle comunità ebraiche.
Secondo stime indipendenti, e documentate da numerose testimonianze, molti esponenti della Chiesa cattolica (sacerdoti, frati, suore, laici) si attivarono per contrastare il genocidio ebraico, affrontando notevoli rischi e spesso pagando anche con il sangue: una stima imprecisa valuta che circa seicentomila ebrei siano stati salvati dall'Olocausto, un numero superiore a quello ottenuto da tutte le altre organizzazioni umanitarie e chiese cristiane messe insieme; nonostante ciò, Pio XII non si espresse mai pubblicamente in proposito.
Si ricordi che i futuri papi Roncalli, Luciani e Wojtyła salvarono e nascosero ai tedeschi gruppi e famiglie ebree.
Il Papa stesso offrì rifugio a numerosi ebrei nei palazzi del Vaticano e nelle chiese romane.
La strategia del silenzio è stata variamente spiegata dagli studiosi, anche evidenziando l'inaspettato effetto negativo ottenuto dalla condanna, da parte dei vescovi locali, della persecuzione antiebraica in Olanda nel 1942 e dall'enciclica Mit brennender Sorge di Pio XI del 1937, che condannava il nazismo.
La scelta del silenzio venne peraltro seguita da Pio XII anche in relazione alle migliaia si sacerdoti e religiosi che vennero internati nei campi di concentramento.
Nel 1963, in seguito alla rappresentazione della pièce teatrale Il Vicario, è iniziata una polemica nei confronti di Pio XII, accusato di non essersi adeguatamente adoperato nella difesa degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, fino al punto di essere definito "Il papa di Hitler".
Invece, lo studioso ebraico Pinchas Lapide ha ricordato delle stime per cui tra il 70 e il 90% dei 950 000 ebrei europei sopravvissuti all'olocausto lo devono ad iniziative cattoliche, incoraggiate e sostenute dallo stesso Pio XII.
Occorre poi considerare che, come documenta lo storico svizzero Jean-Claude Favez, la Croce Rossa Internazionale, attraverso suoi informatori, era ben cosciente, già nel 1942, di quanto avveniva nei campi di concentramento tedeschi e, nonostante ciò, decise di tacere temendo che una denuncia pubblica avrebbe scatenato ancora di più i nazisti.
La controversia sul ruolo di Pio XII durante le persecuzioni naziste nei confronti degli ebrei è, comunque, tuttora lungi dall'essere chiusa: lo Yad Vashem, il museo dell'Olocausto di Gerusalemme, ospita dal 2005 una fotografia di Pio XII, la cui didascalia in calce ne definisce «ambiguo» il comportamento di fronte allo sterminio degli ebrei.
A seguito di formale richiesta di modifica di tale didascalia, nel 2006 i responsabili del museo si mostrarono disposti a riesaminare la condotta di Pio XII a condizione che ai propri ricercatori venisse concesso di poter accedere agli archivi storici del Vaticano; tale permesso non fu mai accordato.
Più recentemente, il nunzio apostolico mons. Antonio Franco dapprima declinò, poi decise di accettare, l'invito a partecipare alla commemorazione della Shoah tenutasi al museo il 15 aprile 2007.
Nell'occasione il direttore del museo stesso, Avner Shalev, promise che avrebbe riconsiderato la maniera in cui Pio XII era descritto nella didascalia, l'effettiva riscrittura della didascalia è stata realizzata nel 2012.
Oggi i rapporti tra Israele e la figura storica di Pio XII si sono rasserenati, soprattutto dopo le recenti analisi storiche provenienti proprio da Israele: lo storico israeliano Gary Krupp afferma infatti che Pio XII, durante e dopo la seconda guerra mondiale, fece "tutto quello che era in suo potere per proteggere e difendere gli ebrei, spingendosi ad affermare che abbia salvato più ebrei di tutti i leader del mondo messi assieme.
E soprattutto, adoperandosi da una città in stato di assedio e non da una comoda poltrona a Londra o a Washington".
A conferma delle sue tesi Krupp ha raccolto circa 76000 pagine di materiali originali, oltre alle testimonianze oculari e ai contribuiti di studiosi internazionali di rilievo, che fanno cadere una ad una tutte le leggende nere sul conto di Pacelli.
Inoltre, sempre secondo Krupp, quando Pio XII non sottoscrisse la dichiarazione del 17 dicembre 1942 degli Alleati in cui si condannava il massacro degli ebrei "il papa operò in favore dei perseguitati".
Le tesi di Krupp trovano riscontro anche nel lavoro del ricercatore tedesco Micheal Hesemann, secondo cui Pio XII salvò la vita a più di 11.000 ebrei a Roma durante la Seconda guerra mondiale.
Lo testimonierebbero alcuni documenti ritrovati dal ricercatore tedesco negli archivi della chiesa di Santa Maria dell'Anima.
Anche il museo israeliano dell'Olocausto si è corretto dando spazio nella didascalia ai difensori di Pio XII aprendo di fatto ad una riabilitazione della figura del papa presso il popolo ebraico. Pio XII e l'evoluzionismo
Pio XII, con l'enciclica Humani Generis, fu il primo papa ad ammettere ricerche sull'evoluzionismo applicato al corpo umano, invocando comunque prudenza nel trattare tale questione: « Per queste ragioni il Magistero della Chiesa non proibisce che in conformità dell'attuale stato delle scienze e della teologia, sia oggetto di ricerche e di discussioni, da parte dei competenti in tutti e due i campi, la dottrina dell'evoluzionismo, in quanto cioè essa fa ricerche sull'origine del corpo umano, che proverrebbe da materia organica preesistente (la fede cattolica ci obbliga a ritenere che le anime sono state create immediatamente sia Dio).
Però questo deve essere fatto in tale modo che le ragioni delle due opinioni, cioè di quella favorevole e di quella contraria all'evoluzionismo, siano ponderate e giudicate con la necessaria serietà, moderazione e misura e purché tutti siano pronti a sottostare al giudizio della Chiesa, alla quale Cristo ha affidato l'ufficio di interpretare autenticamente la Sacra Scrittura e di difendere i dogmi della fede. »
Quello che mi ha stupito negli uomini dell’occidente è che perdono la salute per fare i soldi e poi perdono i soldi per recuperare la salute.
Pensano tanto al futuro che dimenticano di vivere il presente in tale maniera che non riescono a vivere ne il presente ne il futuro.
Vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto!
Dalai Lama « Contrastate il male che vi viene fatto ma non odiate nessuno, non lasciatevi trascinare contro e non cercate di vendicarvi.
È questa la vera saggezza. »
(Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama)
— Il titolo di Dalai lama è tratto da una combinazione della parola mongola Dalai, che significa "Oceano", e pronunciabile in tibetano come tale' i, con Lama, equivalente tibetano del termine sanscrito guru, ovvero «Maestro spirituale».
Dalai Lama sarebbe dunque traducibile come «Maestro ocea6no», ma si preferisce utilizzare la più elegante espressione «Oceano di saggezza».
Questa denominazione fu attribuita nel 1578 da Altan Khan, il sovrano dell'Impero mongolo, al monaco buddhista tibetano Sonam Gyatso, aderente alla scuola Gelug e Khenpo del monastero di Drepung, a Lhasa, il più grande monastero del Tibet.
Sonam Gyatso era considerato un tulku, ossia un Lama reincarnato, pertanto attribuì il titolo di Dalai Lama alle sue precedenti incarnazioni, Gendun Gyatso e Gendun Drup, divenendo in tal modo il terzo.
Successivamente, sempre con il sostegno dei monarchi mongoli, il Quinto Dalai Lama divenne anche il sovrano assoluto del Tibet, che a quel punto divenne una teocrazia lamaista.
La sua residenza divenne il Palazzo del Potala, nuovo simbolo del potere sia temporale sia spirituale della nazione insieme al Palazzo d'Estate, il Norbulingka, anch'esso a Lhasa.
Il Dalai Lama è venerato come manifestazione di Cenresig, il Buddha della Compassione, e i tibetani si rivolgono a lui chiamandolo Kyabgon, il «Salvatore», e Kundun, «la Presenza».
Al di fuori del Tibet lo si considera capo dei Gelug, ma in realtà, benché si tratti della massima autorità spirituale e politica del Tibet, la scuola dei Berretti Gialli riconosce il proprio capo nel Ganden Tripa, «Detentore del Trono di Ganden» in tibetano, un lama scelto tramite elezione dai khenpo dei più autorevoli monasteri Gelug, e che in genere rimane in carica per tre anni.
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L'attuale Dalai Lama, il quattordicesimo, è Tenzin Gyatso, nato a Taktser, nell'Amdo, il 6 luglio 1935.
Dal 1959, a causa dell'occupazione politica e militare del Tibet da parte della Cina (che revocò così lo statuto di autonomia di cui il Paese da secoli usufruiva), risiede a Dharamsala, nello Stato di Himachal Pradesh, nel nord dell'India: l'allora Primo ministro indiano Jawaharlal Nehru si prodigò per garantire la sopravvivenza della civiltà tibetana e del Buddhismo, messi in pericolo nello stesso Tibet a causa di una forte campagna voluta dalle autorità cinesi per fare del Paese delle Nevi un avamposto completamente cinese.
Capo del Governo tibetano in esilio fino all'11 marzo 2011, data in cui ha ufficialmente presentato le dimissioni in favore di un successore eletto dal Parlamento esule, dopo aver peraltro promosso una riforma atta a ridisegnare i propri poteri politici, Tenzin Gyatso ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1989 per la resistenza non violenta contro la Cina. Ancora detentore della propria autorità religiosa, oltre a insegnare il Buddhismo in tutto il mondo, guadagnandosi stima e rispetto in buona parte dei Paesi esteri, sostiene energicamente i rifugiati tibetani nella costruzione dei templi e nella salvaguardia della loro cultura.
Il 1 febbraio 1876 gli Stati Uniti dichiararono guerra ai Sioux che non volevano abbandonare i territori dov'era stato scoperto l'oro.
E fu l'inizio del massacro culminato a Wounded Knee
Oggi cade l'anniversario di una dichiarazione di guerra troppo spesso ignorata o non considerata come tale.
Il 1 febbraio 1876 il ministro degli Interni degli Stati Uniti d'America dichiarò guerra ai Sioux “ostili”, quelli cioè che non avevano accettato di trasferirsi nelle riserve, dopo che era stato scoperto l'oro nelle Black Hills, il cuore del territorio Lakota.
Come si potevano traferire migliaia di uomini, donne e bambini dalla terra dov'erano nati, in una stagione dell'anno in cui il territorio era coperto di neve?
Molti indiani pare neanche ricevettero l'ordine, in quanto impegnati nelle loro attività di caccia, lontano dalla propria residenza.
Quella dichiarazione di guerra del 1 febbraio fu l'inizio del massacro degli Indiani d'America, che culminerà con l'eccidio di Wounded Knee, passato alla storia grazie a canzoni, libri e film.
Sul finire del dicembre 1890, la tribù di Miniconjou guidata da Piede Grosso, appresa la notizia dell'assassinio di Toro Seduto, partì dall'accampamento sul torrente Cherry, sperando nella protezione di Nuvola Rossa.
Il 28 dicembre furono intercettati dal Settimo Reggimento, che aveva l'ordine di condurli in un accampamento sul Wounded Knee: 120 uomini e 230 tra donne e bambini furono portati sulla riva del torrente, circondati da due squadroni di cavalleria e trucidati.
“Seppellite il mio cuore a Wounded Knee” di Dee Brown è il libro (anche film) che ha commosso generazioni di persone e ispirato cantanti di tutte le generazioni e latitudini, fino a Fabrizio De Andrè che compose la canzone “Fiume Sand Creek”, Prince e Luciano Ligabue.
Protagonista delle lotte indiane per 40 anni fu il Capo Nuvola Rossa (1822-1909) che si confrontò aspramente con l'agente governativo perché venisse rispettata l'autorità tradizionale dei capi indiani.
Nel 1888 invitò i Gesuiti a creare una scuola per i bambini Lakota nella riserva indiana, una scelta necessaria per mantenere il legame degli Indiani con la loro terra.
Pochi anni prima il governo aveva cercato di obbligare i bambini a frequentare una scuola “bianca” per essere “civilizzati” con risultati disastrosi per la cultura indiana.
Nuvola Rossa andò a Washington più volte di ogni altro capo indiano e rimane il leader più rispettato del suo popolo, insieme ad Alce Nero, noto per la sua forte carica spirituale.
Quest'ultimo aveva 13 anni nel 1876 ed era già impegnato nella causa, tanto che l'anno dopo andò a Londra per incontrare la Regina Elisabetta.
Così racconta il massacro di Wounded Knee: «Brillava il sole in cielo.
Ma quando i soldati abbandonarono il campo dopo il loro sporco lavoro, iniziò una forte nevicata.
Nella notte arrivò anche il vento.
Ci fu una tempesta e il freddo gelido penetrava nelle ossa.
Quello che rimase fu un unico immenso cimitero di donne, bambini e neonati che non avevano fatto alcun male se non cercare di scappare via».
I Sioux, che preferiscono chiamarsi Dakota o Lakota, sono la principale tribù degli Stati Uniti, con 25.000 membri.
Ora vivono in riserve nei loro antichi territori.
Continuare a raccontare la loro storia (pochi giorni fa è stata la Giornata della memoria) è un modo per non dimenticare di cosa è stato capace l'uomo nel corso della storia e fare in modo che episodi simili non si ripetano.
Il più grande bisogno del mondo
è il bisogno di uominiche non si possono né comprare né vendere;
di uomini che sono leali e onesti fino nell’intimo del loro animo;
di uomini che non hanno paura di chiamare il peccato con il suo vero nome;
di uomini la cui coscienza è fedele al dovere come l’ago magnetico lo è al polo;
di uomini che stanno per la giustizia anche se dovessero crollare i cieli.
Ellen Gould White
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Ellen Gould White nata Harmon (Gorham, 26 novembre 1827 – Elmshaven, 16 luglio 1915) è stata una religiosa e predicatrice statunitense.
Fu una dei leader e profetessa della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno sviluppatasi in Battle Creek (Michigan), (U.S.A.), il 21 maggio del 1863, come evoluzione dell'Avventismo millerita, e nel 1925 anche degli Avventisti del Settimo Giorno del Movimento di Riforma come evoluzione della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno.
Ellen Gould Harmon, giovanissima, sposò James Springer White, noto anche come l'Anziano White, che insieme a lei è stato cofondatore della Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno. In seguito, Ellen adottò il cognome del marito diventando così Ellen Gould White.
Ellen White è stata un'autrice cristiana molto prolifica: pubblicò più di 5.000 articoli in periodici religiosi e 46 libri.
Attualmente, considerando anche le compilazioni pubblicate a partire dalle 50.000 pagine di suoi manoscritti, sono disponibili in inglese più di 100 titoli provenienti dalla sua sterminata produzione letteraria.
Ellen White ha scritto principalmente di teologia, evangelizzazione, stile di vita cristiano, educazione e salute.
Ha sempre sostenuto il vegetarianismo e ha promosso la nascita di scuole e ospedali che si ispirassero quanto più fedelmente possibile ai principi cristiani.
La collana denominata Il Gran Conflitto, dal titolo del libro più letto e rappresentativo del suo pensiero sul conflitto tra il Bene e il Male nell'universo, cerca di fare chiarezza sul pensiero della White riguardo all'intervento di Dio nella storia biblica e del suo popolo.
I suoi sostenitori credono che abbia ricevuto il dono spirituale della profezia come rivelato nel capitolo 19 di Apocalisse di Giovanni, ultimo libro della Bibbia.
Nessun leader cristiano o teologo ha esercitato un'influenza così grande, su una Chiesa cristiana così particolare, come Ellen G. White sulla Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno.
Ha scritto 46 libri per un totale di circa venticinque milioni di parole, e i suoi scritti ancora oggi sono tenuti in alta considerazione sia dalla Chiesa Cristiana Avventista del Settimo Giorno che dagli Avventisti del Settimo Giorno del Movimento di Riforma.
Gli Avventisti del Settimo Giorno tengono in grande considerazione Ellen Gould White, ritenendo che essa abbia ricevuto il dono della Profezia secondo l'Apocalisse 19:10: una scrittrice cristiana del XIX secolo e inizi del Novecento, descritta da Randall Balmer, come una delle figure più importanti e colorate della storia della religione americana.
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