TRATTAMENTO SANITARIO E PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE

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Il principio di autodeterminazione al trattamento sanitario: origine, sua applicazione e problematiche
di Stefania Cerasoli
Nell’ordinamento giuridico italiano (quindi non VENETO sia chiaro) è oggi principio pacifico che nessun trattamento sanitario possa essere compiuto o proseguito in difetto del previo ed esplicito consenso manifestato dal soggetto interessato.
Il diritto del malato a decidere in piena coscienza e libertà se, da chi e come farsi curare discende dall’art. 32 della nostra Costituzione secondo il quale “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge".
Il cambiamento della sede del processo decisionale dal medico al paziente, con la necessità di un consenso libero ed informato all'atto medico rappresenta il frutto di una evoluzione che da un atteggiamento "paternalistico" del medico è giunto alla cosiddetta "alleanza terapeutica".
Sin dalle origini della professione medica il rapporto tra medico e malato nel mondo occidentale secondo la tradizione del medico greco Ippocrate si è attenuto ad un ordine preciso: il medico aveva il dovere di fare il bene del paziente ripristinando l'ordine della natura sconvolto dalla patologia; il malato non poteva non considerare buono ciò che il medico proponeva come tale e aveva quindi il dovere di accettarlo.
In tale visione etica, di tipo naturalistico, il medico era una specie di sacerdote, egli agiva da mediatore con la divinità e aveva potere sulla vita e sulla morte.
Il cristianesimo si è innestato in questa visione della medicina, contribuendo a universalizzare l'etica ippocratica.
Il medico cristiano sentiva l'importanza della sua missione che veniva paragonata ad un sacerdozio, e, investito dall'autorità che derivava dalla professione, riteneva suo compito guidare il paziente verso il ripristino dello stato di salute.
Nel periodo medioevale la medicina e la salute rimangono essenzialmente doni di Dio; la malattia era qualcosa che turbava l'ordine naturale delle cose; il medico era l'unico abilitato ad intervenire; il paziente non aveva né le conoscenze né l'autorità morale per contrastare il volere del medico che sapeva quale fosse il bene per il paziente.
In tale scenario il consenso all'atto medico viene ritenuto implicito, nella stessa richiesta di aiuto da parte del paziente.
L'atteggiamento paternalistico sopravvive per secoli e ha cominciato ad incrinarsi solo con l'avvento del pensiero illuministico grazie al quale è iniziato il lento processo di riconoscimento dell’opportunità di dare al paziente informazioni circa il suo stato di salute e sulla terapia in atto.
Ciononostante il principio che informava questo comportamento non era dettato dal riconoscimento del diritto di autodeterminazione dell'uomo, bensì dalla convinzione che la consapevolezza del malato potesse determinare un beneficio terapeutico.
Nel 1847 Thomas Percival pubblica un fondamentale lavoro che fu la base del primo codice di deontologia medica della American Medical Association nel quale viene codificato il diritto del malato all’informazione pur persistendo il diritto del medico al cosiddetto “inganno caritatevole”, nei casi di prognosi sfavorevoli.
Furono il processo e la sentenza di Norimberga e la dichiarazione di Ginevra del 1948 ad introdurre internazionalmente il principio del diritto del malato alla autodeterminazione ripreso ormai da tutti i codici di deontologia medica.
Il rapporto medico-paziente è oggi quindi costruito su una relazione equilibrata, che pone sullo stesso piano la libertà di chi assiste e di chi viene sottoposto a cure.
Il consenso informato diventa, quindi, un fattore di espressione della libertà del singolo e si colloca tra i diritti fondamentali riconosciuti dal nostro ordinamento giuridico.
In particolare l’art. 13 della nostra Costituzione (italiana si intende) riconosce l'inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito deve ritenersi ricompresa anche la libertà di salvaguardare la propria salute ed integrità fisica, escludendone ogni restrizione, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge.
L’art. 32, II comma, specifica invece che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge, la quale non può, in ogni caso, violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Tali principi trovano ulteriore conferma e specificazione nell'articolo 33 della legge n. 833 del 1978, istitutiva del Servizio sanitario nazionale, che stabilisce che gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari; qualora previsti, i trattamenti sanitari obbligatori devono comunque rispettare la dignità della persona, i diritti civici e politici, compreso, per quanto possibile, il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura.
L’esame non può definirsi completo senza un riferimento alla Convenzione di Oviedo ("Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità dell'essere umano nei confronti delle applicazioni della bioloia e della medicina: Convenzione sul diritti dell'uomo e la biomedicina") adottata a Nizza il 07.12.00 e ratificata dallo Stato italiano con legge 28.03.01, n. 145.
Si tratta di un provvedimento di fondamentale importanza che stabilisce che il consenso libero e informato del paziente all'atto medico non vada considerato solo sotto il profilo della liceità del trattamento, ma deve essere considerato prima di tutto come un vero e proprio diritto fondamentale del cittadino europeo, che riguarda il più generale diritto alla integrità della persona.
Tale documento, nel dedicare un intero capo al tema del consenso, stabilisce all’art. 5, quale norma generale che “un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero e informato. Tale persona riceve preliminarmente informazioni adeguate sulle finalità e sulla natura del trattamento nonché sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, revocare liberamente il proprio consenso”.
I principi di cui alla Convenzione di Oviedo sono stati recepiti dal Codice deontologico della Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici e degli Odontoiatri approvato il 25 giugno 1995.
Più precisamente in maniera molto dettagliata l’attuale Codice Deontologico sancisce l’obbligo di informazione al paziente (art. 30) o all’eventuale terzo (art. 31), nonché l’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente (art. 32) o del legale rappresentante nell’ipotesi di minore (art. 33).
Lo stesso Codice Deontologico stabilisce poi l’obbligo di rispettare la reale ed effettiva volontà del paziente (art. 34) nonché i comportamenti da tenere nell’ipotesi di assistenza d’urgenza (art. 35). Si può pertanto sostenere che sussiste un obbligo diretto, di natura deontologica, all’informazione al paziente, nonché all’acquisizione del consenso informato. Obbligo che, ove non ottemperato, potrebbe dar luogo di per sé, indipendentemente da eventuali danni in capo al paziente, all’apertura di procedimento disciplinare a carico del sanitario, avanti all’Ordine professionale competente.
Esaurita questa premessa è opportuno passare all’esame dei requisiti che il consenso deve avere nella sostanza perché possano dirsi soddisfatti i principi appena delineati.
  • La prima condizione di validità è rappresentata dalla corretta informazione che deve essere fornita da parte del medico al paziente sul trattamento sanitario, sugli eventuali rischi connessi e le eventuali alternative possibili.
Solo in questo modo la persona è in grado di costruire un proprio parere libero (e quindi revocabile) e consapevole e, dunque, di scegliere se sottoporsi al trattamento o rifiutarlo. Il medico nel fornire l’informativa non potrà prescindere dal livello culturale e dalle capacità di comprensione del singolo individuo avendo quindi cura di usare un linguaggio semplice e accessibile.
Non solo ma con riferimento ad informazioni in ordine a “prognosi gravi o infauste, o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente” le stesse dovranno essere fornite “ con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti, senza escludere mai elementi di speranza" (cfr art. 30, IV comma).
Il tutto nel pieno rispetto del testo costituzionale che, come noto, interpreta la tutela della salute nella sua accezione più ampia di integrità fisica e psicologica.
Il paziente ha diritto di chiedere e ricevere informazioni più dettagliate, oppure può scegliere di non essere informato o delegare una terza persona a ricevere le informazioni ed esprimere il consenso.
  • Il secondo elemento di validità dell'atto è costituito dall'espressione personale del consenso da parte dell’avente diritto, ovvero dal legale rappresentante se trattasi di incapace.
Il consenso informato è, infatti, un atto personalissimo delegabile solo in casi eccezionali.
Il paziente è l’unica persona che può decidere riguardo alla propria salute come, del resto, ben evidenziato dall’art. 32 della Costituzione e dalla Convenzione di Oviedo.
Gli unici casi in cui il consenso e/o dissenso al trattamento sanitario può essere delegato fanno riferimento al paziente minore e al maggiorenne legalmente interdetto e quindi a soggetti considerati dall’ordinamento giuridico incapaci di esprimere un valido consenso.
L’art. 33 del Codice di deontologia medica prevede infatti che qualora “si tratti di minore, di interdetto, il Consenso agli interventi diagnostici e terapeutici, nonché al trattamento dei dati sensibili, deve essere espresso dal rappresentante legale.
In caso di opposizione da parte del rappresentante legale al trattamento necessario e indifferibile a favore dei minori o di incapaci, il Medico è tenuto ad informare l’autorità giudiziaria.”
Per espressa previsione dell’art. 34 del Codice il minorenne ha però diritto a essere informato e a esprimere i suoi desideri, che devono essere tenuti in considerazione“fermo restando il rispetto dei diritti del legale rappresentante”.
Lo stesso dicasi per la persona interdetta, che ha diritto a essere informata e di veder presa in considerazione la sua volontà.
Quid iuris qualora l’avente diritto non sia minorenne o interdetto ma si trovi in una situazione di incapacità transitoria a fornire il proprio consenso (si pensi all’ipotesi di un paziente in coma)?
Esiste un soggetto legalmente autorizzato ad esprimere un consenso valido in materia di diritti personalissimi quali il diritto alla salute e alla libertà personale in sostituzione del soggetto naturalmente incapace?
Accade spesso che il medico si rivolga ai prossimi congiunti, chiedendo loro il preventivo consenso ad un intervento di particolare difficoltà.
Preme evidenziare che il consenso dei prossimi congiunti con riferimento ad un soggetto naturalmente incapace (e non legalmente incapace come il minore o il soggetto dichiarato interdetto) non ha alcun valore giuridico data la natura strettamente personale dell’atto di prestazione del consenso delegabile, come già precisato, in casi eccezionali.
Quanto detto è confermato dalla Corte Costituzionale che, con sentenza nm. 253 del 04.07.06, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la Legge Regionale Toscana n. 63/04 nella parte in cui prevedeva il diritto di ciascuno di indicare la persona delegata ad esprimere il consenso a determinati trattamenti terapeutici nel caso in cui il diretto interessato versasse in condizioni di incapacità naturale e vi fosse urgenza di provvedere.
La Regione Toscana legiferando in tal modo è infatti intervenuta in materia di rappresentanza e quindi di ordinamento civile, materia che rientra nella competenza statale ai sensi dell’articolo 117, secondo comma lettera l) della Costituzione.
Per una corretta impostazione del problema è importante evidenziare che le professioni sanitarie in genere, costituiscono "servizi di pubblica necessità" ai sensi dell'art. 359 c.p., e implicano talora l'uso di violenza personale nell'interesse del paziente.
A questo si aggiunga la posizione di garanzia rivestita dal sanitario pubblico che costituisce espressione dell'obbligo di solidarietà garantito dalla Costituzione (Art. 32 "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti"), funzione che gli conferisce addirittura l'obbligo giuridico di intervenire sancito dall'art. 40 Codice Penale secondo il quale "non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo".
Nelle ipotesi in cui il paziente non possa prestare alcun valido consenso sarà quindi il medico a doversi assumere in prima persona ogni responsabilità.
A tale proposito l’art. 54 del Codice Penale prevede che il sanitario possa prescindere dal consenso (oltre al caso in cui sia stato disposto un trattamento sanitario obbligatorio) qualora sussista “la necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo".
Analoga disposizione è prevista agli artt. 7 e 35 del Codice Deontologico che, in situazioni d'emergenza, prevedono che il medico sia tenuto a prestare la sua opera per salvaguardare la salute del paziente
Ed ancora l’art. 8 della Convenzione di Oviedo secondo il quale, qualora “in ragione di una situazione di urgenza il consenso appropriato non può essere ottenuto si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata”.
Il sanitario quindi, dopo aver valutato la necessità e l'urgenza dell'intervento diretto a prevenire un danno grave alla persona, potrà procedere al trattamento terapeutico anche in assenza di consenso ove per assenza si fa riferimento all’incapacità naturale del soggetto di prestare consenso all’atto sanitario.
Del resto se così non fosse sarebbero violati gli art. 328 (omissione e rifiuto atti d'ufficio) e art. 593 del Codice Penale (omissione di soccorso).
Resta inteso che, qualora l'atto sanitario riguardi interventi non urgenti né indispensabili, il medico dovrà desistere dall'intervenire prima di aver acquisito il consenso.
Corre onere evidenziare che nella pratica diventano sempre più frequenti i ricorsi su istanza di medici curanti o di strutture sanitarie e assistenziali, per la nomina di un amministratore di sostegno al fine di prestare il consenso informato a interventi terapeutici e chirurgici.
Tali richieste si riferiscono non solo a casi di interventi urgenti indispensabili per salvare la vita della persona, in totale stato di incapacità, ma anche a casi in cui la persona ha la capacità, parziale o residuale, ma si rifiuta di aderire alla proposta del medico.
Una applicazione effettuata in modo indiscriminato di tale strumento di tutela ci porterebbe a chiederci se sia lecito proteggere la persona anche da se stessa quando questa è ancora capace di intendere e volere con una indiscussa il tutto accompagnato da una gravissima limitazione della sua capacità di agire.
La giurisprudenza è quindi cauta e compie ogni volta valutazioni molto attente.
Se la persona cui è stato nominato un amministratore di sostegno è capace, anche solo in via residuale, di intendere e di volere, deve sapere e potere esercitare in proprio tali diritti, non essendo consentito, in quanto contrario ai principi costituzionali, limitare il diritto alla tutela della salute e alla scelta delle cure di una persona che si assume essere ancora capace legalmente, fino al momento in cui non la si dichiari interdetta.
L’attività dell’ amministratore di sostegno per quanto attiene la cura della persona dovrà quindi essere limitato a scelte ed attività di tipo ordinario inerenti la sua assistenza, ma non potrà comportare la sostituzione del consenso del malato, in caso di decisioni relative a interventi o terapie già rifiutate dallo stesso, o che lo stesso non è in grado di valutare ai fini della decisione, salvi i casi di urgenza ai sensi dell’art. 405, comma 4, c.c..
Non è escluso, però, data la natura di misura residuale dell’interdizione rispetto all’amministratore di sostegno che il giudice tutelare possa conferire a quest’ultimo ogni potere di rappresentanza della persona, se incapace totale, compresa la possibilità di assumere decisioni inerenti le cure e le terapie mediche.
Quanto alla forma di manifestazione del consenso preme evidenziare che, come per la generalità dei negozi giuridici (eccetto per quelli per i quali espressamente la legge preveda la forma scritta) la forma di espressione del consenso è libera.
Per quanto riguarda il consenso scritto, questo è da considerarsi un dovere morale del medico in tutti i casi cui le prestazioni diagnostiche e/ o terapeutiche in ragione della loro natura sono tali da rendere opportuna una manifestazione in equivoca e documentata della volontà del paziente (come si desume dall’art. 32, comma II del Codice deontologico).
È importante evidenziare che, comunque, non sarà la forma scritta a comprovare l’effettività di un consenso libero e pienamente informato.
In sede processuale il testo scritto costituirà elemento di prova, ma se suffragato da testimonianze, ad esempio di collaboratori, sarà più facile dimostrarne l’effettività dello stesso.
È ovvio che, in caso di urgenza e pericolo di vita di persona impossibilitata ad esprimere un valido consenso, dovrà prevalere lo scopo ultimo che è prestare l’assistenza e le cure indispensabili (cfr. art, 35 Codice deontologico).
Alla luce dei principi sopra delineati emerge con chiarezza che l’obbligo di fornire informativa al paziente al fine di acquisire un consenso consapevole, in quanto informato, al trattamento sanitario non potrà dirsi adempiuto nel caso in cui il consenso sia stato prestato attraverso formulari prestampati: in tali ipotesi si è sottolineato che “il consenso deve essere frutto di un rapporto reale e non solo apparente tra medico e paziente, in cui il sanitario è tenuto a raccogliere un’adesione effettiva e partecipata, non solo cartacea, all’intervento.
Esso non è dunque un atto puramente formale e burocratico ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito” (cfr. Tribunale Milano, sez. V civile, sentenza 29.03.2005 n. 3520).
La violazione dell’obbligo di informativa al paziente è, concordemente, ritenuta fonte di risarcimento del danno in quanto il soggetto è leso nella libertà di autodeterminazione delle proprie scelte esistenziali e questo anche nel caso in cui la prestazione sanitaria sia stata eseguita correttamente e senza errori (cfr. Cassazione sentenza n. 5444 del 14 Marzo 2006).
L’obbligo informativo ha infatti valore costituzionale e per la sua violazione è previsto un risarcimento autonomo e distinto rispetto al danno alla salute cagionato da errore medico in quanto l’interesse tutelato rientra nella previsione dell’art. 2059 Codice civile (Cassazione sentenze n. 8827/03 e n. 8828/03).
Pertanto, oltre al danno morale soggettivo, quale contigente perturbamento dell’animo, al danno biologico, quale lesione dell’integrità psicofisica della persona, può essere chiesto il risarcimento per danno derivante dalla lesione di altri interessi riconosciuti dalla Costituzione tra i quali emerge il diritto di autodeterminazione. Tuttavia, la comprovata lesione di tale diritto, benché di rango costituzionale, non necessariamente da luogo al risarcimento, in particolare se manca un effettivo pregiudizio alla salute del paziente.
E’ infatti lo stesso paziente a dover dimostrare l’esistenza del danno di cui chiede il ristoro, nonché a dover provare che tale pregiudizio sia conseguenza normale, seppur indiretta, del mancato obbligo di informazione da parte dei sanitari.
 
Nel nostro ordinamento, infatti, la capacità di agire, ossia l’idoneità a porre in essere atti giuridicamente validi (e quindi ad esercitare diritti e ad assumere obbligazioni) si acquista solo al compimento della maggiore età e viene ad essere esclusa nell’ipotesi in cui ricorrano i presupposti dell’interdizione ossia il soggetto, per quanto maggiorenne, si trova “ in condizione di abituale infermità di mente” che lo rende incapace di provvedere ai propri interessi, tanto da dover essere interdetto (cfr. Codice civile art. 414).
Incapace naturale è la persona che, sebbene capace legalmente (in quanto maggiorenne e non interdetta), sia tuttavia incapace di intendere e volere. In tale stato può venirsi a trovare l’anziano, l’infermo di mente, l’handicappato o chi fa uso di sostanze alcoliche o stupefacenti. Si tratta, poi, di una condizione di incapacità che può essere permanente o puramente transitoria.
L’incapacità naturale consiste, infatti, in qualsivoglia stato psichico idoneo a privare il soggetto agente delle facoltà di discernimento nel momento in cui egli compie atti giuridici.
Leicità della contenzione a letto dei malati psichiatrici” -Tesi di Laurea di Alfredo Maglitto
 Giudice Tutelare del Tribunale di Torino del 22.05.2004.
Tribunale Roma, 22 dicembre 2004 – Ricorrono i presupposti affinché la decisione in merito al consenso al trattamento sanitario venga rimessa all'amministratore di sostegno quando l'interessata non abbia la capacità naturale necessaria ad esprimere un consenso od un rifiuto consapevoli in relazione al trattamento chirurgico prospettato dai sanitari, nè vi è la probabilità che l'interessata riacquisti in tempi brevi la capacità d'intendere e di volere idonea a consentirle una decisione consapevole, mentre d'altro canto l'intervento sanitario è manifestamente necessario ed urgente.
 
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