di ENZO TRENTIN
Ai giornalisti capita spesso di frequentare riunioni, conferenze, convegni.
Quasi sempre il loro lavoro e relazionare sui personaggi, i dibattiti, gli argomenti.
Meno spesso sono chiamati ad intervenire essi stessi.
Per cui capita di sentire l’accorato intervento di un presidente di partito indipendentista che si affanna – non a torto – a sostenere che bisogna andarcene al più presto dall’Italia.
Che non importa avere prima un quadro istituzionale già pronto.
Egli si chiede, con parole disperate: «Chi mai dovrebbe approvare una nuova Costituzione?».
Tra il pubblico qualcuno gli risponde: «Il popolo sovrano!».
Ma il nostro stenta a capire.
Eppure se guardiamo ad eventi lontani nel tempo fu proprio così che nacquero nuove nazioni. E qui, più che altri eventi, ci piace ricordare la nascita della Svizzera.
Il patto Grütli è del 1291, e ci appare senz’altro come una breve carta costituzionale, atta a regolare rapporti fra comunità determinate a unirsi attorno a regole comuni, non soltanto a fini di resistenza contro nemici comuni, contro possibili invasori, ma per poter far valere princìpi comuni, ai quali tutte richiamarsi, per poter affrontare entro un certo ambito comuni destini, per veder sortire un comune progresso civile e politico, nel limite delle rispettive autonomie.
Il patto è molto più di un “patto di alleanza”: è un riconoscersi in una comune logica di vita civile, di scelte politiche.
Venne stipulato “in princìpio del mese d’agosto” del 1291, sulle rive del lago oggi detto dei Quattro Cantoni, nei prati della pianura del Grütli, “nell’interesse comune, per durare, se il Signore lo consente, in perpetuo” (il testo del patto – in lingua latina – si richiama tuttavia, per rinnovarla, a un’antica, già giurata confederazione: antiquam confederationis formam juramento vallatam innovanda).
Le tre comunità originarie affermarono il loro diritto ad autodeterminare il modo di governarsi, in nome di tutti gli abitanti delle tre valli, anche dei non liberi.
Questi ultimi sono cosi soggetti prima di tutto all’alleanza confederale sancita dal patto, e poi ai rispettivi signori che continuano a servire.
Il patto supera cosi i confini del diritto feudale e afferma in embrione la natura dello Stato moderno.
Ciò che è meno noto al grande pubblico è che per molti anni fu considerato quale atto fondativo non già il Patto di Grütli, bensì quello detto di Brunnen.
Tale nuovo patto prende le mosse dalla battaglia di Morgarten, che nel mattino del 15 novembre 1315, vide di fronte da una parte le truppe asburgiche – più numerose e che contavano su di una ben addestrata cavalleria – capeggiate dal duca Leopoldo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Alberto, e dall’altra l’esercito montanaro dei Waldstätten.
Fu la Legnano elvetica. I fanti forestali, sul loro terreno, batterono la cavalleria asburgica che aveva baldanzosamente puntato verso Svitto.
Nacque la fama dell’imbattibilità della fanteria svizzera.
Leopoldo, che aveva congegnato un attacco su tre lati seguendo un brillante piano strategico, fu battuto sul tempo dall’attacco svittese, salvò a stento la vita, e la sua cavalleria fu in buona parte annientata e posta in fuga precipitosa.
Emilio R. Papa nella sua Storia della Svizzera edita da Bompiani, c’informa che A suggellare il trionfo confederale, dopo qualche settimana dalla vittoria, il 9 dicembre, i tre cantoni confermarono il patto del 1291, stringendo un nuovo giuramento e ampliando i contenuti della loro alleanza-unione.
Il nuovo patto, detto di Brunnen, dal luogo ove venne stilata la nuova, potremmo dire, carta costituzionale, è in lingua tedesca, e non è più un patto segreto, è un atto pubblico. Esso contiene una clausola estremamente qualificante: il divieto per i tre cantoni di contrarre alleanze separate.
Da tale rilievo ha preso il via una oziosa questione storiografica. Se la nascita della Confederazione non debba essere collocata a Brunnen anziché nei prati del Grütli, spostata in avanti di cinque lustri a un dì presso, atteso che oltretutto fu il patto di Brunnen quello conosciuto per quasi cinquecento anni, mentre il patto del Grütli fu dimenticato durante un cosi lungo periodo.
Il nuovo patto non è più un accordo giurato da notabili: è un insieme di grandi norme che saranno lette e giurate – e lo saranno per secoli – in ogni Landsgemeinde, dai confederati. Dai confederati: Eidgenossen, dicono già i documenti, uomini uniti per giuramento.
Insomma, non che ce ne fosse proprio bisogno, ma qui c’è la prova documentale che un nuovo soggetto istituzionale indipendente nasce su precisi accordi, a priori, non come diceva il presidente del partito indipendentista sopraccitato: «prima ci liberiamo, poi pensiamo al resto!»
E cosa può produrre un tale metodo?
Bene!
Tra le tante cose che potremmo scrivere, ci piace invece rimandare a quanto ebbe a scrivere Giancarlo Dillena, direttore del Corriere del Ticino nell’editoriale pubblicato il 31 Luglio 2010 per la festa del 1 di Agosto, compleanno della Confederazione Svizzera.
Egli titola: Perchè amo questo Paese.
«La patria è dove si sta bene», recita un moto latino.
Semplice, quasi banale.
Ma, come ricordava Tolstoj, le grandi idee sono spesso semplici.
Se riferisco questa frase alla mia esperienza – non perché più significativa di altre, ma perché è quella che conosco meglio – devo riconoscere che l’assunto vale: amo questo Paese innanzitutto perché ci sto bene.
Perché mi ha dato un’infanzia, una giovinezza e quel che è seguito nel segno della pace, della tranquillità, della sicurezza.
Senza i travagli, i conflitti, il sangue che hanno conosciuto i nostri vicini.
Il che, la storia insegna, è tutt’altro che scontato.
Ma amo questo Paese anche perché mi ha insegnato a vivere e condividere alcuni valori fondamentali: libertà, democrazia, convivenza nella diversità di lingue e di mentalità.
E mi ha insegnato l’importanza non solo di conquistarli e difenderli, ma anche e soprattutto di praticarli quotidianamente, con costanza, pazienza e moderazione.
Nella consapevolezza che si fondano certo sulla salvaguardia dei miei diritti, ma altrettanto sul rispetto di quelli degli altri e sulla ricerca di un comune terreno d’intesa.
Un esercizio quotidiano faticoso, a volte difficile, che richiede soprattutto pazienza e perseveranza.
E che porta spesso a dover accettare dei compromessi.
Parola sgradita a chi si accontenta degli stereotipi.
Non a chi è consapevole del suo significato originario, cioè «mettere insieme per uno scopo».
E Se lo scopo è il bene comune, nel rispetto delle differenze e delle prerogative di ciascuno, e uno scopo nobile.
Amo questo Paese perché ha saputo coltivare queste virtù.
Frutto non certo di quella pretesa «superiorità» che altri, intorno a noi, hanno sovente rivendicato, con nefande conseguenze per tutti.
No, queste virtù sono essenzialmente il frutto della necessità.
Piccolo, privo di petrolio, di una grande flotta, di un impero coloniale, questo Paese ha dovuto cercare altri modi per non farsi inghiottire e per dare pane, sicurezza e dignità ai propri cittadini.
Non per questo e diventato perfetto, per carità.
E non per questo è autorizzato a credersi migliore degli altri.
In molte cose ha tanto da imparare da chi ha esperienze storiche, sociali, umane diverse dalle sue.
Ma ciò non per dimenticare o peggio rigettare le sue, bensì per cercare, ancora una volta di trarne il meglio.
Per questo amo il mio Paese.
Lo amo anche quando le diversità linguistiche e soprattutto quelle fra mentalità diventano un ostacolo alla comprensione reciproca.
Lo amo anche quando, come esponente di una minoranza, devo fare i conti con i «clichés» e i pregiudizi della maggioranza.
Lo amo anche quando una scelta politica lo conduce nella direzione opposta a quella che vorrei.
Perché so che, finché rimarrà fedele a se stesso, mi darà comunque altre opportunità di esprimere e far valere il mio punto di vista.
Ci sono momenti in cui, lo ammetto, questo Paese lo amo un po’ meno.
Quando si lascia prendere dalle opposte nevrosi.
Quella della «cittadella assediata» che nutre l’illusione vagamente medievale, di salvare sé stessa e i suoi valori fondanti semplicemente richiudendosi entro le proprie mura.
Ma ancor di più quella, opposta segnata dall’ossessiva autoflagellazione e dall’altrettanto ossessiva ansia di gettare a mare quello che siamo stati e quello che siamo, per correre affannosamente incontro non si sa bene a che cosa.
Vorrei che il mio Paese si liberasse da queste nevrosi.
Che sapesse guardarsi dentro, senza illusioni e presunzioni, ma anche senza stupidi complessi, ritrovando e rinvigorendo ciò che ha fatto e ancora oggi può fare la sua forza.
E che proprio per questo potesse guardarsi intorno senza paura, con disponibilità e capacità di tenere il passo con un mondo che cambia.
Un Paese aperto, perché saldamente e fieramente ancorato al meglio di se stesso, della sua storia, dei suoi valori.
Un Paese da consegnare alle nuove generazioni con la fiduciosa certezza di dare loro un luogo in cui «state bene» insieme.
Cioè una Patria.
Quale direttore di giornale italiano è in grado di scrivere, senza mentire, che ama questo Paese innanzitutto perché ci sta bene?
Senza travagli, e conflitti sociali e guerreggiati?
Per questo, quindi, è necessario che gli indipendentisti s’impegnino di più sulla strada della redazione di “Patti”, e spendano meno risorse in infruttuosi e scarsi risultati elettorali che comunque li porterebbero ad amministrare con regole che hanno dimostrato di non funzionare.
Quasi sempre il loro lavoro e relazionare sui personaggi, i dibattiti, gli argomenti.
Meno spesso sono chiamati ad intervenire essi stessi.
Per cui capita di sentire l’accorato intervento di un presidente di partito indipendentista che si affanna – non a torto – a sostenere che bisogna andarcene al più presto dall’Italia.
Che non importa avere prima un quadro istituzionale già pronto.
Egli si chiede, con parole disperate: «Chi mai dovrebbe approvare una nuova Costituzione?».
Tra il pubblico qualcuno gli risponde: «Il popolo sovrano!».
Ma il nostro stenta a capire.
Eppure se guardiamo ad eventi lontani nel tempo fu proprio così che nacquero nuove nazioni. E qui, più che altri eventi, ci piace ricordare la nascita della Svizzera.
Il patto Grütli è del 1291, e ci appare senz’altro come una breve carta costituzionale, atta a regolare rapporti fra comunità determinate a unirsi attorno a regole comuni, non soltanto a fini di resistenza contro nemici comuni, contro possibili invasori, ma per poter far valere princìpi comuni, ai quali tutte richiamarsi, per poter affrontare entro un certo ambito comuni destini, per veder sortire un comune progresso civile e politico, nel limite delle rispettive autonomie.
Il patto è molto più di un “patto di alleanza”: è un riconoscersi in una comune logica di vita civile, di scelte politiche.
Venne stipulato “in princìpio del mese d’agosto” del 1291, sulle rive del lago oggi detto dei Quattro Cantoni, nei prati della pianura del Grütli, “nell’interesse comune, per durare, se il Signore lo consente, in perpetuo” (il testo del patto – in lingua latina – si richiama tuttavia, per rinnovarla, a un’antica, già giurata confederazione: antiquam confederationis formam juramento vallatam innovanda).
Le tre comunità originarie affermarono il loro diritto ad autodeterminare il modo di governarsi, in nome di tutti gli abitanti delle tre valli, anche dei non liberi.
Questi ultimi sono cosi soggetti prima di tutto all’alleanza confederale sancita dal patto, e poi ai rispettivi signori che continuano a servire.
Il patto supera cosi i confini del diritto feudale e afferma in embrione la natura dello Stato moderno.
Ciò che è meno noto al grande pubblico è che per molti anni fu considerato quale atto fondativo non già il Patto di Grütli, bensì quello detto di Brunnen.
Tale nuovo patto prende le mosse dalla battaglia di Morgarten, che nel mattino del 15 novembre 1315, vide di fronte da una parte le truppe asburgiche – più numerose e che contavano su di una ben addestrata cavalleria – capeggiate dal duca Leopoldo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Alberto, e dall’altra l’esercito montanaro dei Waldstätten.
Fu la Legnano elvetica. I fanti forestali, sul loro terreno, batterono la cavalleria asburgica che aveva baldanzosamente puntato verso Svitto.
Nacque la fama dell’imbattibilità della fanteria svizzera.
Leopoldo, che aveva congegnato un attacco su tre lati seguendo un brillante piano strategico, fu battuto sul tempo dall’attacco svittese, salvò a stento la vita, e la sua cavalleria fu in buona parte annientata e posta in fuga precipitosa.
Emilio R. Papa nella sua Storia della Svizzera edita da Bompiani, c’informa che A suggellare il trionfo confederale, dopo qualche settimana dalla vittoria, il 9 dicembre, i tre cantoni confermarono il patto del 1291, stringendo un nuovo giuramento e ampliando i contenuti della loro alleanza-unione.
Il nuovo patto, detto di Brunnen, dal luogo ove venne stilata la nuova, potremmo dire, carta costituzionale, è in lingua tedesca, e non è più un patto segreto, è un atto pubblico. Esso contiene una clausola estremamente qualificante: il divieto per i tre cantoni di contrarre alleanze separate.
Da tale rilievo ha preso il via una oziosa questione storiografica. Se la nascita della Confederazione non debba essere collocata a Brunnen anziché nei prati del Grütli, spostata in avanti di cinque lustri a un dì presso, atteso che oltretutto fu il patto di Brunnen quello conosciuto per quasi cinquecento anni, mentre il patto del Grütli fu dimenticato durante un cosi lungo periodo.
Il nuovo patto non è più un accordo giurato da notabili: è un insieme di grandi norme che saranno lette e giurate – e lo saranno per secoli – in ogni Landsgemeinde, dai confederati. Dai confederati: Eidgenossen, dicono già i documenti, uomini uniti per giuramento.
Insomma, non che ce ne fosse proprio bisogno, ma qui c’è la prova documentale che un nuovo soggetto istituzionale indipendente nasce su precisi accordi, a priori, non come diceva il presidente del partito indipendentista sopraccitato: «prima ci liberiamo, poi pensiamo al resto!»
E cosa può produrre un tale metodo?
Bene!
Tra le tante cose che potremmo scrivere, ci piace invece rimandare a quanto ebbe a scrivere Giancarlo Dillena, direttore del Corriere del Ticino nell’editoriale pubblicato il 31 Luglio 2010 per la festa del 1 di Agosto, compleanno della Confederazione Svizzera.
Egli titola: Perchè amo questo Paese.
«La patria è dove si sta bene», recita un moto latino.
Semplice, quasi banale.
Ma, come ricordava Tolstoj, le grandi idee sono spesso semplici.
Se riferisco questa frase alla mia esperienza – non perché più significativa di altre, ma perché è quella che conosco meglio – devo riconoscere che l’assunto vale: amo questo Paese innanzitutto perché ci sto bene.
Perché mi ha dato un’infanzia, una giovinezza e quel che è seguito nel segno della pace, della tranquillità, della sicurezza.
Senza i travagli, i conflitti, il sangue che hanno conosciuto i nostri vicini.
Il che, la storia insegna, è tutt’altro che scontato.
Ma amo questo Paese anche perché mi ha insegnato a vivere e condividere alcuni valori fondamentali: libertà, democrazia, convivenza nella diversità di lingue e di mentalità.
E mi ha insegnato l’importanza non solo di conquistarli e difenderli, ma anche e soprattutto di praticarli quotidianamente, con costanza, pazienza e moderazione.
Nella consapevolezza che si fondano certo sulla salvaguardia dei miei diritti, ma altrettanto sul rispetto di quelli degli altri e sulla ricerca di un comune terreno d’intesa.
Un esercizio quotidiano faticoso, a volte difficile, che richiede soprattutto pazienza e perseveranza.
E che porta spesso a dover accettare dei compromessi.
Parola sgradita a chi si accontenta degli stereotipi.
Non a chi è consapevole del suo significato originario, cioè «mettere insieme per uno scopo».
E Se lo scopo è il bene comune, nel rispetto delle differenze e delle prerogative di ciascuno, e uno scopo nobile.
Amo questo Paese perché ha saputo coltivare queste virtù.
Frutto non certo di quella pretesa «superiorità» che altri, intorno a noi, hanno sovente rivendicato, con nefande conseguenze per tutti.
No, queste virtù sono essenzialmente il frutto della necessità.
Piccolo, privo di petrolio, di una grande flotta, di un impero coloniale, questo Paese ha dovuto cercare altri modi per non farsi inghiottire e per dare pane, sicurezza e dignità ai propri cittadini.
Non per questo e diventato perfetto, per carità.
E non per questo è autorizzato a credersi migliore degli altri.
In molte cose ha tanto da imparare da chi ha esperienze storiche, sociali, umane diverse dalle sue.
Ma ciò non per dimenticare o peggio rigettare le sue, bensì per cercare, ancora una volta di trarne il meglio.
Per questo amo il mio Paese.
Lo amo anche quando le diversità linguistiche e soprattutto quelle fra mentalità diventano un ostacolo alla comprensione reciproca.
Lo amo anche quando, come esponente di una minoranza, devo fare i conti con i «clichés» e i pregiudizi della maggioranza.
Lo amo anche quando una scelta politica lo conduce nella direzione opposta a quella che vorrei.
Perché so che, finché rimarrà fedele a se stesso, mi darà comunque altre opportunità di esprimere e far valere il mio punto di vista.
Ci sono momenti in cui, lo ammetto, questo Paese lo amo un po’ meno.
Quando si lascia prendere dalle opposte nevrosi.
Quella della «cittadella assediata» che nutre l’illusione vagamente medievale, di salvare sé stessa e i suoi valori fondanti semplicemente richiudendosi entro le proprie mura.
Ma ancor di più quella, opposta segnata dall’ossessiva autoflagellazione e dall’altrettanto ossessiva ansia di gettare a mare quello che siamo stati e quello che siamo, per correre affannosamente incontro non si sa bene a che cosa.
Vorrei che il mio Paese si liberasse da queste nevrosi.
Che sapesse guardarsi dentro, senza illusioni e presunzioni, ma anche senza stupidi complessi, ritrovando e rinvigorendo ciò che ha fatto e ancora oggi può fare la sua forza.
E che proprio per questo potesse guardarsi intorno senza paura, con disponibilità e capacità di tenere il passo con un mondo che cambia.
Un Paese aperto, perché saldamente e fieramente ancorato al meglio di se stesso, della sua storia, dei suoi valori.
Un Paese da consegnare alle nuove generazioni con la fiduciosa certezza di dare loro un luogo in cui «state bene» insieme.
Cioè una Patria.
Quale direttore di giornale italiano è in grado di scrivere, senza mentire, che ama questo Paese innanzitutto perché ci sta bene?
Senza travagli, e conflitti sociali e guerreggiati?
Per questo, quindi, è necessario che gli indipendentisti s’impegnino di più sulla strada della redazione di “Patti”, e spendano meno risorse in infruttuosi e scarsi risultati elettorali che comunque li porterebbero ad amministrare con regole che hanno dimostrato di non funzionare.