ATTUALITA
2011.03.29 – IMMIGRAZIONE PILOTATA ???
Mentre ad Annozero Sandro Ruotolo raccoglie il malcontento dei lampedusani per la pessima gestione da parte del governo dell’arrivo di qualche migliaio di cittadini nordafricani, Angela Maraventano, senatrice della Lega Nord e vicesindaco di Lampedusa, interviene su Radio Padania per mettere in guardia dall’opera di “disinformazione” operata dalle “televisioni di sinistra”:
“Quelle che vengono sull’isola sono tutte televisioni di sinistra, come Annozero, i cui reporter lavorano 24 ore per andare a cercare con la candela 4 o 5 persone di sinistra da intervistare.
Non intervistano le nostre persone, non intervistano persone come me che dicono la verità.
E la verità è che coloro che si stanno ribellando non sono il popolo, ma solo un gruppetto di duecento persone di sinistra: il popolo di Lampedusa è a casa che aspetta le risposte del ministro Maroni”.
Ma non è tutto.
In virtù di evidenti indizi, Angela Maraventano e i due conduttori che la intervistano si dicono pure convinti che quella in atto sia una “immigrazione pilotata”, con dietro “una regia, un progetto di conquista e colonizzazione” appoggiato “anche dalle nostre parti, a livello europeo”: “La gente ha capito che c’è qualcosa che non va, ma le televisioni fanno vedere solo quel che vogliono perché sono gestite da persone che la pensano diversamente da noi”.
Gli evidenti indizi?
Tra gli immigrati sbarcati a Lampedusa “ci sono persone che sanno cosa significa il mondo, persone istruite, che hanno studiato.
Addirittura alcuni parlano italiano.
Questa è la cosa più preoccupante”.
Una minaccia davvero, per molti leghisti.
I quali vengono severamente ammoniti: “Dinanzi a situazioni difficili che hanno dietro progetti mondialisti, è dovere morale non abbandonare la Lega e il nostro ministro Maroni”.
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2011.03.29 – USATI FONDI INPS PER COPRIRE SPESE CORRENTI

Inutili le rassicurazioni: il governo fa sapere che “il Fondo TFR sarebbe in equilibrio (anche nel medio e lungo periodo) ogni qualvolta la crescita annua del monte retributivo risulti superiore alla crescita delle prestazioni. Di conseguenza, non sarebbe necessaria alcuna forma di accantonamento per eventuali future esigenze connesse all’erogazione delle prestazioni medesime da parte del Fondo neppure in riferimento ad un orizzonte di medio e lungo periodo”. Parole fumose non sorrette da conteggi e proiezioni concrete.
E’ evidente come – nel breve periodo – il saldo contabile risulti attivo, dal momento che ai 50 o più dipendenti delle aziende interessate alla contribuzione ne corrisponde una percentuale molto minore richiedente la prestazione. E, tuttavia, a maturare il diritto alla prestazione, sia pure scaglionato nei tempi futuri, saranno lavoratori dipendenti in numero maggiore rispetto a quelli azionanti il diritto alla liquidazione nei singoli esercizi di riferimento.
articolo tratto da: clicca qui
mejo ridare: lessione de bela dissione
ANONIMA MAGNAGATI: www.magnagati.it
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mejo ridare: ipocrisia italica
ma questa non fa ridere però!!!

vignetta tratta dal profilo di Facebook di Tiziano Carrarini: clicca qui
mejo ridare: inno veneto
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mejo ridare: veneti a new york
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mejo ridare: menù parlamentare
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2011.03. 25 – ELEZIONI 2011 PER IL NUOVO PARLAMENTO VENETO… MAH!
puoi scaricare il modulo elettorale in formato A/4:clicca qui
Via l‘italia dalla nostra terra!
W San Marco, e che ci aiuti!

2) compilare le venti (20) caselle con i dati e la firma dei votanti negli appositi spazi
3) inviare il modulo elettorale completo all'indirizzo riportato alla fine dello stesso;
4) completato il modulo,inviarlo all'Ufficio Anagrafe Centrale del Popolo Veneto che, verificatene la regolarità, registrerà l'avvenuta elezione comunicandola all'eletto e alla Presidenza del Governo del Popolo Veneto;
5) la prima riunione del Parlamento Veneto avrà luogo a Venezia il 25 aprile 2011 (festa di San Marco).
Anagrafe del Popolo Veneto
via Pio X, 6 – 31027 Spresiano (Tv)
puoi scaricare il modulo elettorale in formato A/4:clicca qui
2011.03.25-LA NOSTRA BANDIERA
Secondo la tradizione, fu l'Evangelista Marco ad iniziare la conversione al Cristianesimo delle città della X Regio Venetia et Histria nel primo secolo d.C., fondando quello che doveva divenire il Patriarcato di Aquileia.Narra la leggenda che sulla via del ritorno da Aquileia, una violenta tempesta sospinse la sua nave nella Laguna Veneta, facendola incagliare sui lidi delle isole ancora disabitate di Rialto.
Scampato alla tempesta, l'evangelista scese a terra, si coricò presso la riva e si addormentò.
Gli apparve in sogno un angelo del Signore, che gli disse: "Pax Tibi, Marce, Evangelista Meus, hic requiescet corpus tuum …".
Questa profezia si ritenne avverata quando nell'828, Bon da Malamocco e Rustego da Torcello riuscirono a trafugare il corpo del Santo sepolto ad Alessandrio d'Egitto, ormai terra d'infedeli.
Ebbe così inizio un legame fortissimo fra i veneti e San Marco, ancora oggi estremamente sentito.
Non appena il corpo dell'Evangelista giunse a Venezia, San Marco fu adottato come protettore della Repubblica Veneta che stava iniziando a far valere la propria autonomia rispetto all'Impero Bizantino; non è un caso che il nuovo protettore vada a sostituire quel San Teodoro, greco, che sarebbe stato imposto da Narsete, generale bizantino.
San Marco divenne non solo protettore ma anche sovrano della città e dello stato: il doge derivava la sua autorità direttamente da san Marco, rendendo superflua qualunque investitura imperiale.
L'evangelista comincia a comparire sui vessilli veneti a partire dal XII secolo (la prima citazione è del 1177), inizialmente riportando l'immagine del santo e quindi, a partire dal '300, sostituendolo con il suo simbolo, il Leone alato.
Questi veniva riportato in varie fogge, col tempo si impose la positura araldica del leone passante per la bandiera, mentre sugli stemmi e i sigilli compariva normalmente in posizione di fronte e accovacciato, tradizionalmente detto "in mołeca", dal nome veneto del granchio nella fase in cui cambia il guscio.
Quanto ai colori, inizialmente sugli stendardi compariva il leone rosso in campo bianco, successivamnete si consolidò l'uso del leone d'oro in campo rosso (cremisi o rosso veneziano).
Per gli stemmi si utilizzava normalmente il campo d'azzurro.
Da notare che l'azzurro è da tempi antichissimi un colore associato ai veneti, tanto che in latino venetus era sinonimo di azzurro; azzurro era il colore delle fanterie venete.
2011.03.23 – SERGIO PES
Sono nato a Cagliari, la capitale dello Stato Sardo, il 02 ottobre 1959 in una famiglia molto unita ed ho avuto un’infanzia che oserei chiamare felice. Mi sono diplomato nel 1981 in un Istituto Tecnico Industriale dove ho ottenuto la specializzazione in Chimica Industriale. Successivamente mi sono iscritto all’università dove seguivo il corso di laurea in Scienze Biologiche ma la mia carriera universitaria non fu portata a compimento in quanto il lavoro e lo sport mi lasciavano ben poco tempo a disposizione da dedicare allo studio. Subito dopo aver conseguito il diploma, infatti, cominciai subito a lavorare presso un laboratorio di patologia clinica in qualità di Tecnico di Laboratorio di Analisi Cliniche. Successivamente feci anche l’Informatore Medico Scientifico e, per tanti anni, sia l’agente che il grossista di apparecchiature e materiali per uso scientifico. Nella mia vita ha avuto un ruolo molto importante e formativo anche lo sport agonistico, sia nella disciplina delle arti marziali ( judo e ju-jutsu ) che nel calcio; da ambedue ho avuto delle belle soddisfazioni. Adoro il mare, infatti mi ritengo un “animale marino” ed ho praticato, fin da bambino, tutti gli sport acquatici possibili, soprattutto il windsurf e la pesca subacquea. Fino dalla più tenera età mi sono sempre sentito “sardo”. Mai italiano, neppure per un attimo! Ho sempre rinnegato l’italia come patria e credo fermamente nella potenzialità della mia Terra. Purtroppo il colonialismo e la dittatura di uno stato che ha invaso e condizionato psicologicamente il mio Popolo ha portato la Sardegna, una terra carica di storia e di fierezza ad essere una regione depressa, ricca solo di povertà e con opportunità lavorative quasi inesistenti. Tutto questo è stato causato anche con la responsabilità dei politici sardi che, per avido opportunismo, non hanno lavorato per il bene della loro Patria ma solo per guadagnarsi un posto di lavoro ben remunerato, rinnegando la loro Terra, una poltrona nelle istituzioni straniere italiane. Considero l’italia uno stato occupante e straniero che sta distruggendo senza alcun diritto la mia Terra, imponendogli servitù militari nei quali centri si utilizzano sostanze radioattive che stanno creando gravi problemi di salute alla mia gente. Negli stessi vengono compiuti anche vari esperimenti scientifici tra i quali quelli ambientali che ne stanno sconvolgendo il clima provocando addirittura alluvioni e altri seri danni. Insomma è in atto un vero e proprio annientamento e genocidio del Popolo Sardo. Considero la costituzione italiana una carta che nega il diritto all’autodeterminazione della mia Patria Sarda, quindi una legge straniera impostaci senza alcuna legittimità giuridica e politica. La storie del popolo italiano non è la storia dei sardi, se non in misura marginale e incidentale. Non abbiamo niente a che fare con la lingua dato che in Sardegna l’italiano è arrivato come una lingua straniera solo nella seconda metà del Settecento e, come lingua comunemente impiegata, solo dagli anni Sessanta del Novecento. Non abbiamo niente a che fare col senso di appartenenza alla nazione italiana di stampo illuminista e romantico, dato che i sardi tra il Settecento e l’Ottocento furono impegnati nel tentativo di liberarsi dal giogo feudale e monarchico, prima con la Sarda Rivoluzione, poi con i tentativi repressi nel sangue dei patrioti repubblicani fino al 1812. Mentre in italia prendeva piede il Risorgimento, la Sardegna viveva un’epoca tra le più buie della sua storia. Dall’”Editto delle Chiudende” (1820) alla “Caccia Grossa” (spedizione militare contro il banditismo, 1899), trascorrono decenni di imposizioni dall’alto, di smantellamento del tessuto produttivo e culturale autoctono, di repressioni e rivolte, di scelte economiche di stampo coloniale. Nel 1861 la Sardegna non era certo più italiana di quanto lo fosse cento, duecento, trecento anni prima. Ancora per decenni dopo questa data un intenso lavoro intellettuale cercherà di giustificare la difficile integrazione dei Sardi nel contesto culturale nazionale italiano, ma senza mai spingersi a considerare i Sardi come italiani. Secondo me essere indipendentisti significa avere un progetto di “rottura” con quel legame che ci tiene soggiogati politicamente, culturalmente ed economicamente allo stato occupante avendo come primo scopo il raggiungimento della piena autodeterminazione. Vivo stabilmente in Veneto ormai da tredici anni e ho trovato un popolo in cui riscontro tante analogie con il mio. La stessa voglia di liberarsi dallo stato straniero occupante, la stessa voglia di libertà, la stessa stanchezza nel sentirsi sfruttati dal governo di Roma. Rivendica giustamente il diritto di essere padroni, in casa propria, del proprio destino.
Tutto questo coincide perfettamente con il mio modo di pensare ed è in questo contesto che si realizza la mia militanza nel Movimento di Liberazione del Popolo Veneto. Combattere per gli ideali di questa Gente è, per me, come combattere per la mia Gente della quale non mi sono dimenticato, anzi questa lotta mi porta ad essere ancora più presente nella battaglia per l’indipendenza della Sardegna essendo ben cosciente che la liberazione dell’una significherà la liberazione dell’altra. Il mio impegno in questa dura battaglia lo sento, dentro di me, come un preciso dovere verso la giustizia e verso i nostri figli che hanno diritto di vivere una vita libera senza dover sottostare ad uno stato straniero corrotto, che non ci da la possibilità di emergere come la nostra storia ci impone. Uno stato italiota che, comunque, non è il mio Stato, non lo è mai stato e mai lo sarà !!! SERGIO PES 2011.03.18-L’ITALIA SI GUARDA ALLO SPECCHIO DOPO 150 ANNI

2011.03.08 – GABRIELE DE PIERI: VENETISTA TRATTENUTO DAI CARABINIERI…
tratto da IL MATTINO DI PADOVA: clicca qui
Gabriele De Pieri, di Loreggia, fermato in auto da una pattuglia a Campodarsego per un normale controllo dopo un sorpasso. Si dichiara “presidente dello Stato di Padova della Repubblica Veneta” e resta quattro ore in caserma. “Non sono italiano, e loro non hanno sovranità sul territorio veneto”. In suo soccorso il “presidente dello Stato di Treviso”
CAMPODARSEGO. Incidente “diplomatico” ieri pomeriggio a Campodarsego: i carabinieri si sono permessi di fermare Gabriele De Pieri, 43 anni, presidente dello “Stato di Padova della Repubblica Veneta”, e persino di trattenerlo quattro ore in caserma prima di lasciarlo andare con una sfilza di verbali di multa. Non una burla di Carnevale, ma un episodio che accade nella zona che è stata la culla dei Serenissimi, quelli del Tanko battezzato “Marcantonio Bragadin”, che nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1997 occupò piazza San Marco a Venezia.E’ lo stesso De Pieri, autista degli autobus di Aps Padova, a raccontare quello che gli è capitato. «Erano le 15.30 e stavo tornando a Loreggia – racconta irritato – lungo la regionale del Santo. Ero fermo al semaforo di Campodarsego. Dietro è arrivata un’auto dei carabinieri”. Al verde è ripartito. Ma, trovandosi davanti un veicolo lento, dopo un paio di chilometro l’ha sorpassato. “La linea di mezzeria era tratteggiata, quindi ho sorpassato in modo regolare”, assicura l’autonominato “presidente dello Stato di Padova”. Per i carabinieri, evidentemente, così non era. Tant’è che hanno lampeggiato e hanno tirato fuori la paletta intimandogli di accostare. De Pieri si è fermato all’altezza della trattoria Quaglia, a San Giorgio delle Pertiche. Patente e libretto. “Ho mostrato il libretto e, in anteprima, la nuova patente veneta. Me l’hanno contestata: non è valida. Questo lo dice lei, ho replicato, a casa mia, nel Veneto, è validissima. Ho tentato di spiegare a quei signori che non sono italiano, che loro non hanno sovranità sul territorio veneto. Ma loro niente, non è valida, ci segua in caserma. Ero solo e non avevo testimoni. E visto ciò che è successo a Cucchi, ho detto: gente, non vi seguo, ho bisogno di tutela, sono presidente dello Stato di Padova. E ho chiamato il presidente dello Stato di Treviso, Daniele Quaglia, e anche la Finanza che mi mandasse una pattuglia”. Ma i finanzieri hanno risposto che non si occupano di questi episodi e di chiamare la polizia. “E il 113 mi ha detto di rivolgermi ai testimoni di Geova, che non si occupano delle cose dei carabinieri perché sono una forza di polizia militare. E’ incredibile che certe persone, stipendiate da noi, agiscano così. Mi domando in quale paese che si definisce civile una forza militare interferisce con la popolazione civile”. De Pieri è stato fermato. “Mi hanno portato in caserma contro la mia volontà, io non avevo fatto niente di male – afferma – non ero ubriaco. Ho dichiarato di essere cittadino veneto, titolare di sovranità originaria e in virtù di questo fatto non riconosco l’amministrazione né l’autorità italiana sul territorio veneto. In caserma mi hanno spento e ritirato il cellulare, palese violazione dei diritti umani, e mi sono stati sequestrati patente e carta d’identità veneta. Ora sono senza documenti, sono mister X”. Il racconto di De Pieri continua, dettagliato: “Quando è arrivato Quaglia è stato costretto ad aspettare nella guardiola. Mi sono trovato da solo con tre carabinieri che mi facevano pressioni psicologiche. Devi firmare, senno ti si aprono le porte del carcere, continuavano a ripetermi. Io non ho firmato niente. Poi mi hanno lasciato andare con una sfilza di verbali in lingua italiana che non so leggere, mentre li avevo chiesti esplicitamente in lingua veneta. Ma ora mi rivolgo alla Corte europea dei diritti umani». De Pieri non aveva con sé la patente, quella vera, che per lui è invece falsa: l’aveva lasciata a casa. Così sono scattate le sanzioni.
2011.03.08 – GABRIELE DE PIERI: I CARABINIERI LO FERMANO PER UN SORPASSO E LUI…
Supera un’auto in modo non regolamentare e quando i carabinieri di Campodarsego gli contestano la multa esibisce una carta di circolazione veneta anziché italiana, con tanto di timbri dell’Onu, ottenuta nella sua qualità di presidente dello «Stato di Padova della Repubblica veneta».
Per tutta risposta i militari, come riportano i giornali locali, portano Gabriele De Pieri, 43 anni, in caserma, per contestargli una serie di verbali di multa, oltre a una denuncia per resistenza a pubblico ufficiale.
«Ho esibito la nuova patente veneta – racconta l’uomo – non valida, dicono.
Ma io ribatto che a casa nostra è validissima e che qui loro non hanno sovranità».
De Pieri è talmente convinto della sua tesi da aver fatto verbalizzare ai Carabinieri di dichiararsi «cittadino del popolo veneto e titolare di sovranità originaria» e in quanto tale non asservito «all’autorità dello Stato italiano».
I verbali di multa sono stati scritti, ovviamente, in italiano, lingua che il venetista dichiara di non saper leggere e per questo di aver richiesto una traduzione in veneto.
Anche per questo De Pieri annuncia di volersi rivolgere alla Corte Europea dei diritti umani.
UNITA’ D’ITALIA NEL PALLONE – NAPOLI DA’ UN CALCIO ALL’IPOCRISIA E ALLA RETORICA!
2011.03.03 – BRUCIANO LA SAGOMA DI GARIBALDI PER FESTEGGIARE IL CAPODANNO VENETO
bruciano la sagoma di Garibaldi per festeggiare il Capodanno veneto
SCHIO (Vicenza) – Sul rogo per festeggiare il Capodanno veneto alla fine c’è finita la sagoma di Giuseppe Garibaldi. È accaduto qualche sera fa al termine di una festa organizzata in una discoteca a Schio dall’associazione venetista «Raixe Venete», alla quale hanno preso parte simpatizzanti (che hanno poi messo materialmente la sagoma) e anche amministratori locali, quando all’esterno è stato allestito un falò con un fantoccio raffigurante l’eroe dei Due mondi. «Garibaldi – ha detto Giorgio Roncolato, consigliere comunale leghista di Arzignano, al Giornale di Vicenza – è un eroe negativo per gli indipendentisti, esaltato dalla retorica risorgimentale nonostante fosse in realtà un bandito che a noi ha recato solo danni». «Spero – ha ribattuto Pietro Da Dalt, consigliere della lista civica Unione per Schio – che il falò sia stata una goliardata». Da Dalt ha chiesto al consiglio che in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia venga esposto il tricolore nei negozi ed edifici cittadini. «Io amo il Veneto. Mi ritengo venetista, ma bruciare una sagoma è un segnale a cui stare attenti»: Luca Zaia, presidente del Veneto, appare molto perplesso davanti al gesto di chi ha dato fuoco a un falò con in cima una sagoma di Garibaldi. Zaia pare prendere le distanze quando ricorda che dietro a una figura «c’è una persona», che non bisogna trasmettere messaggi sbagliati ai giovani e che la libertà di ognuno finisce dove inizia quella del prossimo. Altra questione, invece, per Zaia, è il giudizio storico su Garibaldi: «Bisognerebbe metterlo in discussione per alcune cose, e non mi riferisco solo allo sbarco dei Mille, ma ai suoi dibattiti con Cavour, dove quest’ultimo aveva una visione assolutamente diversa rispetto all’operazione. Quando si brucia una sagoma poi mi viene in mente chi va nelle piazze in qualche altra parte del mondo». Una pessima dimostrazione di un venetismo privo di qualsiasi seguito storico e culturale»: è molto critico il giudizio di Laura Puppato, capogruppo del Pd in consiglio regionale veneto, sul falò con la sagoma di Garibaldi. «Il nostro – ha aggiunto – è un giudizio molto negativo, è un fatto inaccettabile. È una sceneggiata davvero priva di senso». (Ansa)
2011.03.02 – PASSIONE E VOGLIA DI VERITA’ STORICA
CHI NON RICONOSCE LA PROPRIA STORIA NON RICONOSCE I PROPRI GENITORI ! QUALE FUTURO SENZA UN PASSATO ?
http://www.schuetzentrient.it/
Anagrafe degli Schuetzen Trentini
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2011.03.02 -STORIA DEL TIROLO
così come ce la raccontano.
Furono i cacciatori del Mesolitico i primi uomini a lasciare delle tracce nella Valle dell'Adige, nel VI millennio a.C. seguiti nel IV, da popolazioni che praticavano allevamento e agricoltura.
Nel II secolo a.C. tutta l'area fu romanizzata. Nel 15 a.C., con la guerra retica, Claudio Druso conquistò l'Alto Adige, fondando Castrum Majense (Merano) e villaggi in altre parti dell'Alto Adige. Sotto Ottaviano Augusto queste zone presero il nome di X regio, di Noricum e di Raetia. L'evangelizzazione iniziò nel II secolo, ma si consolidò in modo significativo solamente dopo il V secolo. Con la caduta dell'Impero romano e le invasioni barbariche le città e le campagne subirono devastazioni e saccheggi.
Margherita Contessa del Tirolo
Con i Longobardi nel 569, il Trentino divenne un ducato, con i Franchi una marca, quindi nel 788, fu incorporato nel Sacro Romano Impero insieme all'Alto Adige. Nell'814 queste zone passarono sotto Lotario, uno dei successori di Carlo Magno. Ricominciarono le invasioni, fino a quando il Trentino-Alto Adige venne a costituire l'ultimo lembo meridionale dell'Impero. Nel 1027 l'Imperatore Corrado II decise di dare un nuovo ordinamento ai rapporti dei feudi imperiali e diede ai vescovi Uldarico di Trento e Albonio di Bressanone il titolo di principe, ovvero di vassallo-elettore diretto dell'imperatore con diritto di partecipazione alla Dieta imperiale. Il primo aveva giurisdizione su una parte dell'Alto Adige e il Trentino; il secondo sull'alto Isarco e la Pusteria. Nella seconda metà del XIII secolo la debolezza dei principi-vescovi di Trento e Bressanone, che detenevano leggitimamente il potere, indusse Alberto III del Tirolo a solidarizzare con i vicari imperiali per rivendicare il potere temporale dei vescovi locali (ma anche di Coira e Salisburgo), tanto che nel 1252 ottenne con la forza dal vescovo di Trento anche i feudi dell'estinta casa dei conti di Appiano (dopo aver ottenuto nel 1248 i feudi comitali di Bressanone). È nel corso del governo di Mainardo II, attorno al 1259, che risale l'appropriazione del titolo di 'conte' (che spettava di diritto ai vescovi di Trento e Bressanone in quanto principi diretti dell'Impero) da parte del consortile dei Tirolo, il quale cominciò a farsi chiamare non più "conti di Tirolo" bensì "conti del Tirolo". Attraverso la politica matrimoniale del tempo, la primitiva dinastia dei Conti di Tirolo venne sostituta, nel XIII secolo, da quella dei Tirolo-Gorizia, il cui esponente di maggior spicco fu Mainardo II, che ristrutturò la Zecca di Merano e diede nuovo impulso al commercio. Nel 1363 Margherita Maultasch, nipote di Mainardo II, rimasta vedova e senza eredi, cedette la corona a Rodolfo IV d'Asburgo. I nuovi dominatori cercarono di ripristinare i sistemi feudali e sembra che nel 1407, il duca Federico Tascavuota avesse favorito alcune rivolte. Anche a Trento vi fu una sollevazione e venne imprigionato il vescovo. Federico, pur favorendo l'indebolimento vescovile, decise di impedire le sommosse.
In seguito altre potenze entrarono in campo. Un conte del Tirolo, quel Massimiliano I d'Asburgo che diventò imperatore, si scontrò con la Repubblica di Venezia nel 1508 e riprese il controllo di Rovereto e dell'area circostante. Seguì un periodo nel quale imperversarono i processi per stregoneria, anche se Trento, grazie al vescovo Clesio, riuscì a trovare un po' di pace e dotarsi di un nuovo assetto urbano. Nel 1545-1563 Trento fu sede del celebre Concilio ecumenico. Dopo la Guerra dei Trent'anni, la città di Bolzano accrebbe la propria importanza di centro artistico-culturale. Dal 1665, l'Imperatore Leopoldo I iniziò a governare la regione da Vienna: venne nominato un governatore per il Tirolo, con sede a Innsbruck.
Nel XVIII secolo, sotto il governo di Maria Teresa d'Austria (1740-1770) e del figlio Giuseppe II (1780-90) il Tirolo visse un periodo di sviluppo economico e di radicali riforme nell'ambito dell'istruzione, della giustizia e del culto religioso.
Con l'avvento di Napoleone Bonaparte, i vescovi di Bressanone e Trento dovettero rinunciare al loro potere temporale, mentre iniziarono a circolare idee nazionaliste. Il territorio fu coinvolto nei conflitti e nel 1803 Napoleone decise di inserire l'area nel regno di Baviera.
Nel 1809 divampò una rivolta capeggiata da Andreas Hofer, con la collaborazione di padre Joachim Haspinger e dell'oste Peter Mayr, ma che fu presto soffocata. Nel 1810 il Trentino e l'Alto Adige (che assunse per la prima volta in questo periodo l'attuale denominazione italiana) passarono al Regno Italico, l'alta Pusteria a quello Illirico e il resto alla Baviera, per rimanervi sino al 1815, quando il Trentino, con la Restaurazione venne inglobato nella Contea del Tirolo, con Innsbruck capoluogo.
Nel 1866 Giuseppe Garibaldi durante la terza guerra di indipendenza italiana vinse la battaglia di Bezzecca e stava per aprirsi la strada verso Trento. Venne fermato solo da un ordine del re Vittorio Emanuele II, al quale rispose con il celebre "Obbedisco". Oggi si sa che la difficoltà di Garibaldi sono state decisive. I soldati tirolesi (trentini) hanno combattuto contro le truppe garibaldine e il Trentino restò così all'Austria.
Nel 1919 il Trattato di Saint Germain, in seguito alla sconfitta dell'Austria-Ungheria nella Prima guerra mondiale, determinò la separazione dal Tirolo meridionale, assegnato all'Italia dal Bundesland Tirolo, assegnato alla Repubblica Austro-Tedesca. Svariati furono i tentativi di costituire una regione autonoma o di annettere l'area all'Deutsches Reich. Negli anni venti per merito delle costruzione di infrastrutture (strade, linee ferroviarie, centrali elettriche) e del riavvio del turismo (costruzione di funivie) l'economia si stabilizzò per un breve periodo prima dei contraccolpi della crisi economica mondiale. Nel febbraio del 1934 vi furono alcuni scontri fra lo Schutzbund socialdemocratico e le forze governative.
Il 12 marzo 1938 la Wehrmacht tedesca invase l'Austria. Fu costituito il Gau Tirol-Vorarlberg e il Tirolo Orientale fu assegnato al Gau Carinzia. In seguito agli accordi fra Hitler e Mussolini immigrarono in Austria circa 70.000 persone provenienti dal Sudtirolo (gli Optanti): la metà di queste si insediarono in villaggi appositamente creati. Dopo la guerra circa un terzo degli immigranti tornò nei luoghi di origine. Nel 1943 intensi furono i bombardamenti alleati. Quando il 3 maggio 1945 le truppe americane entrarono a Innsbruck le organizzazioni della resistenza furono in grado di proporre un governo provvisorio. Nell'estate del 1945 il Tirolo faceva parte della zona di occupazione francese mentre il Tirolo dell'Est apparteneva a quella britannica. Nel 1947 il Tirolo orientale fu riunito con quello del Nord. Il 15 maggio 1955 le ultime truppe d'occupazione lasciarono il paese. In questo periodo vi fu una ripresa economica e l'area passò da un'economia prevalentemente agraria ad una basata sull'industria e sui servizi. Notevole fu anche l'espansione dell'industria turistica. Innsbruck fu per ben due volte sede dei Giochi olimpici invernali (1964 e 1976).
Alla fine degli anni cinquanta le reti stradali e autostradali vennero notevolmente espanse. A partire dagli anni ottanta le popolazioni locali hanno ripetutamente manifestato contro l'aumento esponenziale del traffico.
2011.02.23 – LETTERA AL PRESIDENTE ITALIANO DA UN INDIPENDENTISTA SARDO
Lettera inviata tramite posta alla presidenza della Reppublica ItalianaPalazzo del Quirinale
Roma
Ma davvero nutre la pretesa che i sardi festeggino una ricorrenza così sciagurata?
Dovrebbe avere l’ onesta di ammettere una volta per tutte che l’unità d’Italia, per gli italiani e per noi sardi è stata un fallimento totale.
Una entità geopolitica di incerta credibilità sin dalla sua costituzione, creata dalla volontà di una banda di assassini (Savoia) al solo scopo di espandere i propri domini sulla penisola italica, responsabile di indicibili atrocità contro le popolazioni del sud, e che ha costretto la nostra terra a subire un destino di sventure e privazioni, non può e non potrà mai essere festeggiata!
Dovremmo ringraziare quest’Italia per avere trascinato un popolo mite come il nostro in due sanguinose guerre mondiali, e in tutte quelle che ancora oggi si combattono in cui i sardi sono in prima linea come “carne da macello”?
Dovremmo ringraziarla per averci fatto fare l’inebriante esperienza con fenomeni che difficilmente la Sardegna avrebbe vissuto se fosse stata per conto suo: guerre, dittature, persecuzioni politiche ,terrorismo rosso, terrorismo nero, emigrazione di massa, mafia, camorra, n,drangheta; corruzione nell’amministrazione, nei settori industriali e finanziari, e non ultima fenomeni striscianti di razzismo nei nostri confronti (vedi vicende pastori a Cagliari e Civitavecchia): la lista potrebbe continuare all’infinito.
Oppure festeggiare la politica coloniale tesa a depredare le risorse della nostra terra con politiche palesemente sperequative alle quali è seguito il danno psicologico di far credere ai sardi che “erano dei mantenuti” e che “senza l’Italia sarebbero morti di fame”: risorse depredate e danno psicologico che ancora oggi sono difficili da quantificare in termini di “mancato sviluppo.
Forse dovremmo ringraziarla per averci imposto un modello di sviluppo completamente avulso al contesto culturale della Sardegna, al solo scopo di foraggiare con danaro pubblico individui loschi legati a vostri potentati politici ed economici, facendo si che poi fallissero: vedi la chimica.
Dovremmo ringraziarla per averci espropriato enormi estensioni di territorio per scopi militari, così da trasformarci nella più grande base militare d’Europa, in cui, tutti gli anni, si vomitano tonnellate di sostanze chimiche pericolosissime (Quirra, Teulada) che inducono alla morte fratelli e sorelle che hanno avuto l’unica colpa di credere alle vostre false promesse di sviluppo: gli stessi che hanno visto i loro luoghi della memoria trasformati in aree infernali dove si sperimentano armi che poi vengono utilizzate contro popolazioni verso le quali i sardi non nutrono nessuna avversione.
Inoltre che dire del nostro patrimonio culturale? …: distrutto scientificamente in quanto ritenuto un ostacolo al processo di omologazione di un popolo oggettivamente “diverso”, al quale, ancora oggi, viene negato, mediante la mancata applicazioni delle leggi, il diritto di usufruire dei “vostri – nostri” mezzi d’informazione con la lingua dei padri.
La nazionalità italiana, oggi, per noi significa distruzione della nostra nazione attraverso il danneggiamento e l’esproprio arbitrario del suo patrimonio ambientale, storico e culturale.
E’ questo che dovremmo festeggiare?
Sig. presidente noi non festeggeremo l’unità di uno stato che per 150 anni ha dimostrato di essere un nemico lontano, che ha prodotto, alla terra millenaria dei sardi, solo sofferenze ed eventi nefasti, palesando un irreparabile rottura che potrà essere risanata solo con la nostra indipendenza.
08 gennaio 2011
2011.02.22 – FABIO PADOVAN: L’IMPRENDITORE E LA SUA GUERRA ALL’ITALIA
tratto da: clicca qui
Fabio Padovan, spalla e mano fracassate nei sit-in, 19 processi in 20 anni, mai interrogato dai magistrati
Infatti sul tetto dello stabilimento sventola il tricolore, anche se accanto, in posizione leggermente sopraelevata, garrisce al vento il vessillo rosso e oro della Serenissima e svetta un capitello con sopra il Leone di San Marco.
«La bandiera cambia a seconda della nazionalità dell’ospite », ci tiene a chiarire Fabio Padovan, «e oggi l’ospite è lei, un italiano.
Fosse arrivato ieri, avrebbe trovato quella dell’Ecuador, perché c’era in visita una delegazione proveniente dall’America Latina».
No, non s’è convertito.
Il titolare della Otlav (Officine tornerie lavorazioni articoli vari) resta in guerra con lo Stato, come da vent’anni a questa parte, e se fossi venuto qui, nella zona industriale di Santa Lucia di Piave (Treviso), solo una settimana fa, ne avrei avuto una prova ancora più plastica: parcheggiato davanti alla fabbrica c’era il tanko usato dagli otto serenissimi per espugnare il campanile di San Marco il 9 maggio 1997, nel bicentenario dell’invasione napoleonica che affossò l’ultramillenaria Repubblica di Venezia.
Il leggendario mezzo blindato è stato il regalo per i 55 anni di Padovan, festeggiati con le maestranze e gli insorti.
ll tanko è rimasto sul piazzale della fabbrica per quattro mesi, venerato come una reliquia da una processione di pellegrini muniti di macchina fotografica.
D’altronde l’imprenditore è stato fra i più munifici sottoscrittori che hanno partecipato alla colletta per riscattare il mezzo blindato sequestrato dall’autorità giudiziaria e ora restituito a Flavio Contin, El Vècio del commando: 6.674 euro.
«All’asta hanno partecipato tre cordate, una anche della polizia di Stato, che avrebbe voluto esporlo nel proprio museo come corpo del reato».
Quando c’è di mezzo la libertà del suo Veneto, il proprietario della Otlav non bada a spese.
Da qualche giorno è particolarmente euforico per l’inedita situazione creata dal ministro della Semplificazione normativa, che nel suo furore iconoclasta ha rottamato senza volerlo un’appendice dell’Unità d’Italia.
Lo si desume dalla mail inviata al direttore amministrativo, Giovanni Tonon, e per conoscenza a tutti i dipendenti.
Oggetto: «Independensa ». Testo: «Tutti sapete come la penso. Ora, per un errore del ministro Roberto Calderoli, è stato formalmente abrogato il Regio decreto 3.300 del 4 novembre 1866, che sanciva la sottomissione di Mantova e della Repubblica di Venezia al Regno d’Italia.
Anche questo doveva capitare nella mia vita.
Il Veneto è indubbiamente e formalmente indipendente.
Adesso si dice che lo Stato italiano può far valere il diritto di usucapione nei confronti dei territori del Veneto.
Mi sembra pazzesco che uno Stato usucapisca un altro Stato, ma tant’è.
Dopo averci dormito su bene, in assoluta serenità d’animo, ho deciso che voglio dare un piccolo segnale di questo evento, che per me è comunque storico, per altri è una cazzata.
Desidero che resti il ricordo del “Giorno de l’Independensa veneta” dalla famelica lupa italica.
Quindi, Tonon, nella prossima busta paga inserisca un bonus di 100 euro.
Grazie».
Esborso a parte, ha festeggiato l’indipendenza conquistata per errore anche con un carosello di auto che, partito da Conegliano, ha toccato Asolo, Treviso, Spresiano, Montebelluna, Pieve di Soligo.
Padovan, cinque figli, laureato in economia e commercio, fondatore e presidente della Life (Liberi imprenditori federalisti europei), già deputato leghista in odore d’eresia, organizzatore delle ronde antifisco e di memorabili scontri con la Guardia di finanza che gli hanno lasciato una lunga cicatrice sull’omero, prende tutto così: di petto.
Né può essere diversamente, visto che nella vita s’è fatto guidare sempre e solo dal cuore.
Non dalle braccia: l’arto destro, deformato, è più corto del sinistro di qualche centimetro e tenuto su da una vite in titanio da quando gli aprirono la spalla durante un sit-in di protesta.
Non dai pugni: le forze dell’ordine gli fracassarono la mano sinistra con una manganellata.
Non dai muscoli: già mingherlino, perse 18 dei suoi 78 chili nelle tre settimane di sciopero della fame e della sete per far cacciare Anna Mazza, vedova del camorrista Gennaro Moccia, che era stata inviata in soggiorno obbligato a Codognè, «e da allora il mio metabolismo è cambiato per sempre».
O forse è cambiato anche perché, raccontano, per 12 anni s’è astenuto dal cibo il 20 d’ogni mese, un ex voto che pare abbia guarito dal cancro una persona cara.
Il cuore di Padovan pulsa in ogni angolo della sua avveniristica fabbrica, a cominciare dal casolìn , lo spaccio interno dove a turno quattro operaie sovrintendono allo scambio di capi d’abbigliamento usati fra i dipendenti e alla consegna della frutta biologica di stagione portata dai contadini di Breda di Piave, «perché questa è una grande famiglia ». Sul portone ha fatto incidere un versetto in latino dal Libro di Giobbe , «Vita hominis militia est», e una frase in italiano, «Hai una possibilità », «questa è mia, per ricordare che tutti sbagliano e hanno dirittoa un’occasione di perdono ».
I carrelli elevatori, grandi tre volte rispetto ai normali muletti, sono guidati da raggi laser, girano per la fabbrica da soli, avanzano, indietreggiano, svoltano, caricano, scaricano, evitano gli ostacoli, robot insomma, che però recano dipinti sul muso nomi e soprannomi di cristiani, «si chiamano Rino, Ciano, Venanzio e Artemio, erano i carrellisti che sono andati in pensione, Artemio purtroppo è già morto, e i suoi tre compagni, quando hanno visto che li avevamo ricordati così, si sono messi a piangere come bambini ». Un altro robot posiziona i pezzi, «un paiasso dentro ’na gabia zala », ride Padovan, «Hic est Bagonghi» avverte un cartello,su calco dell’ «Hic sunt leones» dell’antica Roma e dal nome di un celebre clown, un pagliaccio dentro una gabbia gialla che però costa 600.000 euro.
«L’80% dei macchinari è progettato da noi, sforniamo una media di 12 brevettilanno, un lustro ci ho messo ad automatizzare lo stabilimento per non soccombere sotto i colpi della concorrenza cinese».
Già che c’era, l’ha dotato di aria condizionata per non far sudare gli operai e ha indicato sui muri quella che dev’essere per tutti la meta, 1,618, il “phi” simbolo della divina perfezione, il rapporto costante della sequenza di Fibonacci che si rintraccia nelle sculture di Fidia, nell’ Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, nelle fughe di Bach, nelle piramidi, nelle proporzioni del corpo umano.
La Otlav produce ogni anno 55 milioni di cerniere per serramenti, esporta in 58 Paesi, fattura 22 milioni, ha 172 dipendenti.
Fu fondata da Angelo Padovan, che oggi dà il nome alla strada in cui ha sede.
Era il padre dell’attuale titolare.
Anche se morì nel lontano 1990, l’operaio Roberto Gandin, che lavora qui da 35 anni, tiene ancora appeso al tornio il santino che fu stampato per il trigesimo.
E si torna sempre lì, al cuore.
Nel pavimento in plexiglas di un balconcino in stile veneziano, dal quale i visitatori si affacciano per vedere l’interno della fabbrica («da viçin l’è meio de no, i me copia i machinari»), è imprigionata l’eredità del defunto: una moneta da 100 lire, una da 50, una da 10 e una da 5, in tutto 165 lire, «quello che aveva in tasca quando fu colto da un ictus».
Disseminati intorno agli spiccioli, i campioni delle cerniere di varie fogge prodotte dal 1956 a oggi, 1,5 miliardi di pezzi, «nel mondo oltre 700 milioni di porte girano sui nostri cardini».
Siccome Fabio Padovan è stato chierichetto fino all’età di 19 anni, sulla porta del balconcino ha voluto la riproduzione del Padre Eterno dipinto nel 1505 dal veneziano Giovanni Bellini.
Ma non è che una delle 56 serigrafie a grandezza naturale che ornano gli ingressi di tutti gli uffici, copie fedeli di altrettanti dipinti di Tintoretto, Tiepolo, Tiziano, Veronese, Mantegna, Carpaccio, Palma il Giovane, Cima da Conegliano e altri maestri della pittura veneta.
Sulla porta del suo ufficio campeggia un’altra opera di Bellini, il ritratto del doge Leonardo Loredan, che nel 1508 difese Venezia dalla crociata di Papa Giulio II e sconfisse la Lega di Cambrai.
Sull’uscita di sicurezza figura lo sposalizio del mare di Canaletto, con tanto di maniglione antipanico che taglia a metà la facciata del Palazzo Ducale.
Soltanto su una porta, quella degli uffici amministrativi, compare una foto: ritrae Luigia Padoin, detta Gina, all’età di 16 anni, «la nostra più vechia operaia, oggi ne ha 81».
Ed ecco che la porta si apre e compare proprio lei in carne e ossa.
Sua madre.
Sta ancora qui tutti i giorni, fino alle 6 di sera, a occuparsi di contabilità e fornitori.
E non appena sulle labbra del figlio affiora l’antico sogno,«independensa»,parte il rimbrotto: «Tasi! Te si italian.
Vergògnete!».
Sembra un museo, più che un’azienda.
«Pensi che per stampare i dipinti sulle porte ho dovuto pagare i diritti al Louvre, alla National Gallery, al Puskin di Mosca, al Narodowe di Varsavia.
Solo i musei di Venezia mi hanno negato l’autorizzazione, rinunciando a incassare le royalty».
L’incudine all’ingresso che cosa rappresenta?
«È del 1700, proviene dall’Arsenale di Venezia, che varava 40 navi al mese e fu il primo esempio al mondo di lavorazione a catena, con 500 anni d’anticipo su Henry Ford e sul fordismo.
Nel 1574, durante la visita di Enrico III di Francia, una galea fu costruita da zero e messa in acqua in un solo giorno per convincere il sovrano a ordinare una flotta».
Complimenti per il pavimento di marmo nella hall.
«Copia perfetta di quello della Marciana, la più bella biblioteca del mondo.
La Serenissima stampava i libri degli eretici d’ogni risma, perché il patriarca era nominato dal doge e qui l’Inquisizione non ha mai attecchito.
C’è anche un museo all’esterno che ripercorre la vita dell’universo dal Big bang fino al 1866, la vergogna italiana.
Lei cammina e impara.
I passi lungo le aiuole della preistoria equivalgono a 200 milioni di anni, quelli nella storia a 100 anni».
Che farà il 17 marzo per il 150˚dell’Unità d’Italia?
(Telefona al direttore amministrativo: «Tonon, cossa sucede el 17 de marso? Ah, go capìo… Vedarèmo»).
«Mi prenderò un giorno di festa.
Ma contro ’sta specie de unità».
Lei non si sente italiano?
«No.
Mi sentivo, cavoli.
Ho fatto il carabiniere a Cuneo e a Pordenone.
La vista del tricolore mi dava i palpiti.
La patria per me era un ideale.
A Trieste, dove ho frequentato l’università, andavo con la bandiera sotto le finestre del sindaco a protestare contro il Trattato di Osimo che svendeva l’ultima parte dell’Istria alla Jugoslavia.
“Manlio Cecovini / servo dei titini”, gridavo».
Ma da carabiniere ha giurato fedeltà all’Italia.
«All’onestà. Quel giuramento s’è infranto quando ho visto scorrere in televisione le immagini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro trucidati dalla mafia a Palermo.
Ritengo lo Stato responsabile della loro morte.
Ho un ricordo nitido del generale Dalla Chiesa che ci parla a Udine, noi schierati in caserma alle 4 del mattino, lui che ci sprona, ci infonde fiducia, pronuncia un discorso terso come una giornata di primavera, uno di quei discorsi che ti schiudono l’orizzonte.
Quella sera, vedendo il telegiornale, il mio orizzonte s’è chiuso per sempre».
Che Italia vorrebbe?
«Federalista.
Da veneto voglio decidere il futuro mio e dei miei figli senza dover chiedere a Roma».
Che cos’aveva in mente, quando nel 1994 fondò la Life?
«Proprio questo.
Avevo creato il kit del missionario, andavo in giro a catechizzare i miei colleghi, 2.000 iscritti in breve tempo, una sede perfino a Conversano, provincia di Bari.
In caso d’ispezione da parte di un qualsiasi organo dello Stato, ci avvisavamo l’un l’altro e 15 di noi accorrevamo in veste di assistenti fiscali del certificato».
Che significa?
«Testimoni muti.
Non c’è niente che inquieti i burocrati più dell’essere sotto osservazione.
Qualche errore lo commettono sempre.
Così eravamo noi a fare il verbale a loro.
Chiedevamo nome, cognome, grado e li denunciavamo alla stessa autorità da cui dipendevano.
Siamo arrivati al punto che le Fiamme gialle si astenevano dalle verifiche per paura».
Pazzesco.
«Poi un giorno ci schierammo in difesa di un piccolo laboratorio artigianale a Torre di Mosto, nel Veneziano, un padre che produceva sapone con i figli.
Arrivarono i finanzieri con i mitra e il colonnello ordinò: “Spazzatemi via questa marmaglia!”.
Mi toccò denunciare il ministro delle Finanze, Vincenzo Visco.
Cominciò la persecuzione, 19 processi, accuse da ergastolo: associazione sovversiva con finalità di terrorismo, istigazione a disobbedire le leggi, associazione a delinquere, apologia direato.
Ma non m’interessava nulla di quello che lo Stato italiano faceva contro di me.
Per me non esisteva più, era morto.
Per mia madre no, poveretta, per lei esisteva ancora: perquisizioni in casa alle 6 del mattino, con i carabinieri in cerca di armi.
Ed esisteva ancora anche per mio fratello Massimo, che non c’entrava nulla, ma fu tirato in ballo ingiustamente.
Be’, ci crede?
Sono stato interrogato dai magistrati una sola volta.
E ho avuto un’unica condanna, per diffamazione a mezzo stampa.
Ma allora che cosa dovrei dire io dei servizi usciti sul Gazzettino?
A commento di una mia presa di posizione, il giornalista scrisse: “Sentiamo adesso l’opinione di industriali veri”.
Veri, capisce?
Io ero la scimmia.
I miei colleghi politicamente corretti avrebbero voluto rieducarmi».
Fu accusato di tramare contro lo Stato mediante la creazione della «Polisia nathionale veneta».
«Un’altra invenzione dei giornali.
Non c’entravo niente.
Semmai sono stati i poteri dello Stato a tramare contro di me.
Volevano persino incolparmi del suicidio di un militante leghista di Bocca di Strada.
La moglie, una bidella, fu portata in un ufficio della Guardia di finanza.
Le fecero pressioni psicologiche affinché firmasse una dichiarazione in cui affermava d’aver sentito il marito accusarmi d’averlo minacciato,in quanto si sarebbe accorto che io avevo rubato i soldi dalla cassa della Lega ed ero andato in Jugoslavia a comprare le armi necessarie per la rivoluzione.
S’immagina che fine avreifatto rinchiuso all’Ucciardone di Palermo?
Ma quella piccola donna, sola, impaurita, resistette eroicamente e si rifiutò di mandarmi in galera».
E tutto questo lei come l’ha saputo?
«Anche nella burocrazia italica vi sono persone d’integrità adamantina, intelligenti, che tengono in piedi la baracca, schifate dall’andazzo generale.
Impiegati dell’Agenzia delle entrate, funzionari dell’Inps, finanzieri.
Solo che non sanno a chi riversare le loro angustie.
Hanno deciso di fidarsi di un tizio che prende botte da tutti.
E così sono venuto in possesso dei dossier confezionati su di me dai servizi segreti.
Li ho affidati a un contadino, che li ha sepolti nella cantina dove tiene appesi i salami.
A futura memoria».
Suggestivo.
Ma un po’ vago.
«Un giorno mi telefona un maresciallo delle Fiamme gialle: “Sono originario di Frosinone, mio padre mi ha educato all’onestà.
Dovrei parlarle”.
Si chiama Oscar D’Agostino.
Ha avuto il coraggio di ribellarsi.
Abbiamo dovuto nominarlo presidente onorario della Life ed eleggerlo consigliere comunale a Santa Lucia di Piave per non farlo trasferire da Treviso a Massa Carrara, per sottrarlo alle grinfie dei suoi superiori, fra cui quel colonnello Mauro Petrassi, comandante del nucleo di polizia tributaria del Veneto, arrestato, condannato e degradato per corruzione, che a Lugano aveva un conto bancario da 4 milioni di euro.
In un rapporto dei servizi segreti si legge che fra me e D’Agostino erano “sorti addirittura legami di amicizia personale”.
Pensi, hanno inventato anche il reato di amicizia!
E infatti oggi il maresciallo D’Agostino mi chiama fratello.
Perché in guerra si diventa fratelli, sa?».
Il padre di un vostro iscritto, Lino Bedendo, 68 anni, commerciante di Rovigo, morì dopo un’atroce agonia:aveva bevuto acido solforico mentre le Fiamme gialle gli stavano sequestrando la contabilità degli ultimi tre anni.
Ha senso suicidarsi per le tasse?
«Un umile riparatore di biciclette, un uomo libero.
Andarono con i mitra a ribaltargli i cassetti della camera, cercavano i registri fra le mutande e le canottiere.
Ho sempre detto e scritto che quando le leggi sono incomprensibili, inapplicabili e irrispettabili, sei costretto a difenderti, perché nel marasma fioriscono la concussione e la corruzione.
Bedendo disse al figlio: “Paga l’Ici e manda via i briganti”.
Il tenente della Finanza lo schernì: “Lei mi sembra agitato”, e ordinò ai suoi uomini: “Accompagnatelo a prendere un po’ d’aria”.
L’artigiano replicò: “Mi portate fuori da casa mia?
Guardi che se lei gratta la calcina di questi muri, vedrà sgorgare il mio sangue”.
Poi scrisse su un foglio: “Sono libero”.
Consegnò il biglietto all’ufficiale e, sotto i suoi occhi, bevve il bicchiere di veleno.
I parenti mi telefonarono disperati, partii subito per Rovigo.
Dall’auto telefonai a Renato Farina, che lavorava al Giornale.
Un uomo sta morendo di fisco, gli dissi.
E ci trovammo a recitargli insieme un’Ave Maria».
Terribile.
«Ho assorbito il dolore del mondo.
Le ho sempre prese.
Date, mai.
Sa quanti samurai veneti ho visto morire?
Una ventina nel solo 2010.
Famiglie pulite, persone buone, perbene, che tiravano la vita con i denti, che non avevano lo yacht ormeggiato a Portofino.
Chiedevano solo di poter lavorare in un Paese dove ci siano regole certe da rispettare.
Era gente che voleva vivere al riparo della legge e non arrivare a sera col terrore d’averla violata senza nemmeno saperlo».
E invece?
«Appena apri una partita Iva sei già fuorilegge.
Io vorrei che mi fosse concesso per un giorno di controllare se all’Agenzia delle entrate tengono i registri in ordine, se rispettano tutte le virgole come prescritto dalle loro regole.
E poi uno Stato non può sottrarre il 70% del reddito d’impresa.
Ma lei lo sa che hanno inventato persino le tasse sulle perdite?
Con l’Irap, introdotta da Visco, paghi il 200%, anche il 300%, perché sei tassato sul monte salari e sugli interessi passivi.
Quindi se assumi personale o se fai investimenti ricorrendo a prestiti in banca, sei penalizzato.
La Otlav versa 4-5 milioni l’anno di tasse.
Nel 2009, a causa della crisi economica, per la prima volta ha avuto una perdita di 45.000 euro, sulla quale ho dovuto pagare al fisco 250.000 euro».
Giorgio Panto, prima di morire precipitando nella laguna di Venezia col suo elicottero, lasciò polemicamente la presidenza della Life sostenendo che molti di voi non volevano semplicemente pagarle, le tasse.
«Abbiamo sempre fatto obiezione fiscale, ma alla luce del sole.
Dicevo agli iscritti: è inutile che lavoriate in nero, perché così avallate il sistema, fate esattamente quello che lo Stato si aspetta che facciate.
Noi invece dobbiamo batterci affinché la tassazione sia portata a un livello accettabile.
E poi chi evade sia sbattuto in galera».
E quale sarebbe un livello accettabile?
«Il 35%. È una media europea, e fra le più alte».
Gian Antonio Stella ha scritto sul Corriere della Sera : «Fabio Padovan, il fondatore della Life, ammette: “Certo che il Nordest va forte anche perché evade. E allora?”».
«Ma evadere rispetto a quale legge?
Europea?
Francese?
Tedesca?
Austriaca?
Se io pagassi il 50% di tasse, anziché il 70%, in Austria sarei considerato un benefattore.
Apra una partita Iva e cominci a confrontarsi con costi e ricavi, poi ne riparliamo.
Lo saprà Stella che Romano Prodi riuscì nell’impresa d’inventarsi una legge con effetto retroattivo che rende indetraibili i costi per l’acquisto dei terreni su cui ti costruisci la fabbrica?
Per cui io mi sono trovato a pagare una montagna di tasse per questo nuovo stabilimento che avrei potuto benissimo aprire in Romania.
Comunque l’anno scorso ho avuto una verifica fiscale e alla fine i funzionari delle imposte ci hanno definito un’azienda modello.
Si sono complimentati per come teniamo la contabilità e mi hanno persino lasciato una dedica sul registro degli ospiti».
Nei due anni in cui è stato deputato della Lega non poteva metterci una pezza?
«Appena arrivato a Roma, stavo negli uffici della Lega fino alle 2 di notte a preparare emendamenti.
Ci credevo.
Pensavo di poter cambiare qualcosa.
Finché un giorno non è andata in discussione a Montecitorio la legge per il finanziamento della Regione Siciliana. Eravamo 90 in aula.
Passò con 150 voti a favore e 30 contrari.
Il doppio dei presenti.
I deputati degli altri partiti s’erano messi d’accordo: venivano in aula una settimana ciascuno, a rotazione, e votavano chi per due, chi per tre, chi per quattro.
Io, fesso, scattai le foto dell’emiciclo semivuoto.
Il presidente della Camera, che allora era un certo Giorgio Napolitano, mi richiamò all’ordine strepitando: “Onorevole collega! Onorevole collega lassù con la macchina fotografica!”.
Feci scivolare la fotocamera nella borsetta della mia vicina di banco, Irene Pivetti, mentre i commessi si fiondavano come falchi verso il seggio per sequestrarmela.
Ecco, lì ho capito che non è una democrazia.
È solo la recita della democrazia.
Dissi a Roberto Maroni: “Mi dimetto”.
All’ultima riunione di partito, Umberto Bossi mi prese le mani fra le sue: “Sparerai contro di me.
Tu non puoi fare politica, perché sei un idealista”.
Però anni dopo, quando ho avviato con 300 volontari della Life l’autoriduzione fiscale e ci siamo messi per qualche tempo a versare le imposte secondo la media europea, pur consapevoli che poi lo Stato ci avrebbe tartassati applicando il 5% di interesi e le sanzioni, il Senatùr venne qui in Otlav a chiedermi: “Facciamo queste cose insieme”».
Oggi per chi vota?
«Ho votato un paio di volte per Silvio Berluconi quando era sotto attacco dei magistrati».
Allora mi sa che le toccherà votarlo per tutta la vita.
«Quando c’era, votavo per il Psdi.
Una volta ho votato per l’Ulivo, ma solo perché volevo che gli italiani provassero i comunisti, e infatti li hanno provati e si sono pentiti subito.
L’ultima volta sono tornato alla Lega Nord».
Lei vagheggia un referendum per decidere se il Veneto debba diventare uno Stato sovrano federato all’Italia. Un’utopia, non crede?
«Nel 2000, candidato alle regionali, persi la mia sfida proprio su questo punto, perché il mio avversario Giancarlo Galan proclamava nei comizi: “Abbiamo già stanziato 4 miliardi di lire per indire il referendum sull’autonomia”.
L’ha mai visto lei?
Luca Zaia, il nuovo governatore, non poteva metterlo al primo punto nel suo programma elettorale?
La volontà popolare no’ conta un casso, questa xe la verità».
Ma, scusi, ammettiamo che fosse stato indetto il referendum e che gli indipendentisti avessero vinto.
Un minuto dopo lei che faceva?
«Facevo scorta di panini e soppressa, andavo in Consiglio regionale, sprangavo le porte, mettevo i materassi per terra e annunciavo: popolo veneto, da questo momento il numero di conto corrente su cui versare le tasse è questo. Dopodiché negoziavo con Roma su quanto darle.
Ma lo decidevo io se doveva essere l’1% o il 5%.
Non è Roma che mi fa i trasferimenti dei soldi miei.
A quel punto venivano i carabinieri, buttavano giù le porte e ci portavano in carcere.
Ma intanto c’era un popolo che aveva votato.
Non esiste altra strada per uscire da questo pantano.
Bisogna che chi è eletto rischi la prigione, anzi vada in prigione».
S’è dimenticato che Roma garantisce sicurezza, sanità, istruzione, trasporti, previdenza sociale?
«Bene, d’ora in poi non garantisce più nulla.
Paghiamo tutto noi.
Possiamo provare ad amministrarci da soli?
Se già mando avanti una famiglia e un’azienda, magari riesco a farcela.
Nel frattempo non è ammissibile che in ospedale mi fissino una visita specialistica dopo otto mesi e che i miei figli a scuola debbano portarsi la carta igienica da casa, come succede adesso».
Mi par di capire che il federalismo ormai alle viste non la entusiasmi.
«Per me non è niente.
Magari mi sbagliassi!
Non credo al federalismo calato dall’alto.
Roma non ci darà mai niente.
Dobbiamo prendercelo.
Col prodotto interno lordo raggiunto dal Veneto, il giorno dopo l’indipendenza le buste paga aumenterebbero del 30% e le pensioni anche di più.
Qui non abbiamo il petrolio: solo le braccia e le teste.
Ognuno dei miei operai sul posto di lavoro è un piccolo imprenditore, fa innovazione continuamente, risolve, migliora, decide di saldare un ferro a T anziché a L, modificando il processo produttivo.
Questo è l’unico federalismo in cui credo».
Perché il Tar del Veneto ha respinto il suo ricorso per ottenere il porto d’armi?
«Perché sono “socialmente pericoloso”. Io, un ex carabiniere. Dopo l’assalto al campanile di San Marco vennero a ritirarmi la Smith & Wesson.Walter Veltroni,all’epoca ministro, mi aveva indicato come il maestro degli otto serenissimi. Il giorno dopo la sentenza del Tar avevo in azienda i banditi».
Fosse stato in possesso della sua calibro 38, l’avrebbe usata?
«Da deputato mi sono battuto per far depenalizzare, limitatamente alla casa propria, il reato di eccesso colposo di legittima difesa.
Io ho il dovere, non il diritto, di difendere la mia abitazione da chi vi entra senza essere invitato.
Un uomo che si rispetti protegge la moglie, la prole, la mamma ottantenne.
Una volta che i delinquenti mi hanno legato, a che mi serve una pistola?
La devo usare prima».
Sa dirmi di che cosa è fatto il miracolo veneto?
«Di tanto, tanto, tanto lavoro.
Mio padre era operaio alla Zoppas, stava 12 ore al giorno in fabbrica, e poi di sera si metteva al suo tornio, che s’era comprato nel 1956 facendosi prestare 400.000 lire dal suocero.
Alle 4 di mattina partiva in Vespa, andava a consegnare il materiale finito e poi tornava in stabilimento.
L’ha fatto per dieci anni, sabati, domeniche, Natali, Pasque e Ferragosti compresi».
Ma chi glielo faceva fare?
«La sua famiglia era la più povera del paese: padre, madre, sei fratelli e due sole stanze.
In terza elementare la maestra gli chiese: “Padovan, perché ieri non sei venuto a scuola?”.
Lui rispose: “Perché a casa non avevamo nulla da mangiare”.
Allora l’insegnante disse agli altri alunni: “Avete sentito, bambini?
Domani portate tutti qualcosa ad Angelo”.
Lui arrossì e giurò a se stesso: “Mai più!”.
E a 8 anni andò a fare il guardiano delle vacche».
Come si batte la concorrenza cinese?
«Non servono dazi e barriere doganali.
Sarebbe sufficiente far entrare in Europa solo i prodotti che rispettano le nostre norme sanitarie.
Ho fatto analizzare alcune cerniere dei miei competitori di Shanghai: contenevano cromo esavalente, una sostanza cancerogena.
Nel 2009 ho voluto andare in Cina a rendermi conto di persona.
Paghe ferme da 10 anni.
Sindacati di regime.
Soldati armati a proteggere le cittadelle dei ricchi.
Con l’euro a 1,50 sul dollaro avevano guadagnato in otto mesi il 22% di competitività.
Non avevano la più pallida idea di che cosa fossero l’igiene, la tossicità degli elementi, le norme di sicurezza.
Come la batti un’economia simile?».
Sia sincero: lei crede nella Padania?
«Non so dove sia, non so dove cominci.
Sento dire che dovrebbe includere l’Umbria e le Marche.
Ma poi: qual è la lingua della Padania?
Si parlano 19 lingue in Italia, oltre all’italiano.
L’ufficiale dei Nocs che arrestò i serenissimi, un meridionale, sentiva gli otto che urlavano: “No’ sparè!”, non sparate. “Comandante, sono greci”, avvisò via radio.
Poi intimò loro: “Mani in alto!”.
E i Contin: “Ghémo i cai ’nte ’e man”, abbiamo i calli nelle mani.
L’ufficiale allora si corresse: “No, comandante, sono tedeschi”.
Come si fa a dire che l’Italia è unita?».
Sarebbe andato sul campanile di San Marco con gli otto?
«Bella domanda.
Loro hanno messo in gioco tutto: la libertà, la reputazione, il posto di lavoro, gli affetti, la vita stessa.
Sono eroi.
Non so se avrei avuto lo stesso coraggio».
Pensa che si arriverà alla secessione?
«No.
Avevamo nel sangue uno spirito indomito, quello che ci vide opporci alla Lega di Cambrai, cioè allo Stato pontificio, al Sacro romano impero, ai regni di Francia, di Spagna, d’Inghilterra, di Scozia e d’Ungheria, ai ducati di Milano, di Firenze, di Ferrara e di Urbino, al marchesato di Mantova, ai Cantoni svizzeri e all’impero ottomano.
Il mondo intero coalizzato contro la Repubblica di Venezia.
Ottomila contadini veneti, tutti volontari, caduti in sola battaglia.
Poi siamo diventati serenissimi.
Talmente serenissimi da addormentarci».
