ATTUALITA

2011.12.02 – DALLA LIBIA AL SUDAN UN UNICO OBIETTIVO: FERMARE LA CINA


Scritto il 28/9/11

 
Prima la Tunisia, frontiera ovest. Poi l’Egitto, frontiera est. Restava un ultimo ostacolo: Gheddafi.
Non solo per mettere le mani sul petrolio libico, ma anche e soprattutto per tagliare la strada alla Cina, che era riuscita a inserire nel proprio network energetico persino il poverissimo Ciad, ai confini meridionali della Libia, mentre appena più a ovest la secessione del Sud Sudan, preparata da Washington, ha sottratto al controllo africano, e quindi cinese, le maggiori risorse del sottosuolo sudanese.
L’analisi, dedicata agli entusiasti che in questi mesi hanno fatto il tifo per le “Twitter revolutions”, è firmata da William Engdahl del “Global Research Institute” canadese diretto da Michel Chossudovsky. Aprite gli occhi, avverte Engdahl: il regista del Risiko africano è il Pentagono.
Obiettivo dell’assalto strategico affidato alla Nato: porre sotto totale controllo quello che è il tallone d’Achille della Cina, e cioè la sua dipendenza strategica dalle enormi quantità di petrolio greggio e gas che vengono importate dall’estero.
Oggi la Cina è il secondo maggior importatore mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti e la distanza tra i due si sta rapidamente colmando.
«Se diamo un’attenta occhiata ad una cartina dell’Africa e poi osserviamo l’organizzazione in Africa del nuovo African Command (Africom) del Pentagono, il quadro che ne emerge è quello di una strategia accuratamente predisposta per controllare una delle più importanti fonti strategiche della Cina per l’approvvigionamento di petrolio e materie prime». Sbarrare l’accesso cinese al petrolio, aggiunge Engdahl, significa controllare direttamente la Cina.
Secondo i dati del 2006, la Libia possedeva le più ampie riserve petrolifere accertate di tutta l’Africa, superiori di circa il 35% a quelle della stessa Nigeria.
In anni recenti, concessioni petrolifere erano state accordate a compagnie cinesi, russe e di altri paesi.
Non c’è da sorprendersi se ora i “ribelli” di Bengasi spalancano le porte alle compagnie occidentali ma frenano, avanzando «riserve politiche», su Russia, Cina e Brasile, cioè i paesi che all’Onu si sono opposti all’attacco della Nato.
E ora il passo successivo: la demonizzazione sistematica di Pechino.
«Nel giro di due o forse di cinque anni, a seconda di come il resto del mondo reagirà o giocherà le sue carte – scrive Engdahl – la Repubblica Popolare Cinese verrà dipinta dai media di regime dell’Occidente come una nuova “Germania hitleriana”.
Se questa sembra oggi una cosa difficile da credere, si pensi a come ciò è stato fatto con altri ex alleati di Washington quali l’Egitto di Mubarak o lo stesso Saddam Hussein».
Dipingere la Cina come il nuovo “nemico” è stato complicato, ammette l’analista di “Global Research”, visto che Washington dipende dalla Cina per l’acquisto della maggior parte del debito governativo americano, sotto forma di buoni del Tesoro.
Eppure il Pentagono ha già lanciato l’allarme ad agosto, spiegando che la potenza tecnologica cinese, ormai anche militare, sta crescendo fino a preoccupare la superpotenza americana.
«La stessa efficiente macchina di propaganda del Pentagono, guidata dalla Cnn, dalla Bbc, dal “New York Times” e dal “Guardian” londinese, riceverà da Washington l’ordine discreto di “dipingere a fosche tinte la Cina e i suoi leader”».
Pechino, aggiunge Engdahl, sta diventando troppo forte e troppo indipendente per i gusti di molte persone a Washington e a Wall Street.
Impressionante, del resto, la recente penetrazione cinese in Africa: da quando il suo futuro fabbisogno energetico è divenuto evidente, la Cina è diventata uno dei principali partner economici del continente nero, in un crescendo che ha raggiunto l’apice nel 2006, quando Pechino ha letteralmente srotolato il tappeto rosso ai capi di oltre 40 nazioni africane, discutendo con essi un ampio ventaglio di questioni economiche.
La Cina si è spostata in paesi che erano stati virtualmente abbandonati da ex potenze coloniali europee, quali Francia, Inghilterra e Portogallo.
Un caso emblematico è il Ciad, appena a sud della Libia, dove nel 2007 il gigante petrolifero cinese Cnpc progettò una raffineria e due anni dopo avviò la costruzione di un oleodotto lungo 300 chilometri.
Le attività petrolifere della Cina in Ciad sono straordinariamente simili ad un altro grande progetto petrolifero cinese, realizzato in quella che era all’epoca la zona sudanese del Darfur, ai confini col Ciad.
Nel 1998, continua Engdahl, la Cnpc iniziò a costruire un oleodotto di 1500 chilometri che andava dai giacimenti del Sudan meridionale fino a Port Sudan sul Mar Rosso, e allo stesso tempo iniziò a costruire una grande raffineria vicino Khartoum.
Il Sudan fu il primo, grande progetto petrolifero d’oltremare realizzato dalla Cina. All’inizio del 2011, il petrolio del Sudan, proveniente quasi tutto dal sud agitato dalle guerre, garantiva circa il 10% delle importazioni petrolifere cinesi e rappresentava oltre il 60% della produzione quotidiana di petrolio del Sudan (490.000 barili).
Il Sudan è diventato un punto vitale per la sicurezza energetica nazionale della Cina: proprio per questo è stato spezzato in due con la secessione, sottraendo al controllo cinese il sud ricco di petrolio.
«Secondo le prospezioni geologiche, il sottosuolo che va dal Darfur (in quello che era un tempo il Sudan meridionale) fino al Camerun, passando per il Ciad, è un unico, immenso giacimento petrolifero, equiparabile forse per estensione alla stessa Arabia Saudita», spiega Engdahl.
«Controllare il Sudan meridionale, così come anche il Ciad e il Camerun, è vitale per la strategia del Pentagono di “impedimento strategico” ai futuri approvvigionamenti petroliferi cinesi». Finché a Tripoli fosse rimasto in carica un regime di Gheddafi stabile e forte, questo controllo sarebbe stato assai problematico.
Quindi: «La simultanea separazione della Repubblica del Sudan Meridionale da Khartoum e il rovesciamento di Gheddafi a favore di deboli bande ribelli sostenute dal Pentagono, era una priorità strategica per il “dominio ad ampio raggio” progettato dagli Usa».
La risposta americana non è fatta attendere e ha impiegato l’Africom, lo speciale comando militare creato da Bush nel 2008 per contrastare l’influenza cinese in Africa.
Già alla fine del 2007, ricorda Engdahl, il super-consigliere Peter Pham (Dipartimento di Stato e Difesa) aveva chiarito che l’obiettivo dell’Africom sarebbe stato quello di «proteggere l’accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l’Africa possiede in abbondanza».
In altre parole, si sarebbe trattato di «tutelarsi contro la vulnerabilità di queste ricchezze naturali e assicurarsi che nessuna terza parte interessata, come Cina, India, Giappone o Russia» ottenesse «il monopolio di esse o un trattamento preferenziale».
Visione confermata sempre nel 2007 al Congresso: «La Cina importa attualmente circa 2.6 milioni di barili di greggio al giorno, approssimativamente la metà di ciò che consuma; più di 765.000 di questi barili – quasi un terzo delle sue importazioni – provengono da fonti africane, in particolare dal Sudan, dall’Angola e dal Congo (Brazzaville)».
Per Pham, l’Africa è il cuore dello sviluppo strategico cinese.
Ed ecco allora il “domino” che ha investito la regione: prima Tunisi e poi il Cairo, quindi il Sudan, e soprattutto la Libia, crocevia nordafricano saldamente affacciato all’Europa grazie alle infrastrutture italiane dell’Eni.
Così meglio si spiegano le «“Twitter revolutions” finanziate da Washington, nel corso della cosiddetta “primavera araba”», fino alla secessione filo-americana del Sudan meridionale, che nel luglio 2011 «si è portata via il grosso delle ricchezze petrolifere conosciute del paese, cosa che non ha certo fatto piacere a Pechino».
Un coro statunitense: dall’ambasciatrice Susan Rice al presidente Obama, tutti in difesa del “popolo sudanese”, anche se in realtà «la separazione è stato un progetto guidato e finanziato da Washington fin da quando, nel 2004, l’amministrazione Bush decise di farne una priorità», come ricorda Rebecca Hamilton nel suo studio sulla crisi del Sudan citato dal centro del Premio Pulitzer.
Ora il Sudan ha improvvisamente perso la sua principale fonte di guadagno, quella dei profitti petroliferi, continua Engdahl.
La secessione del sud, dove vengono estratti i tre quarti dei 490.000 barili che costituiscono la produzione giornaliera del paese, ha aggravato le difficoltà economiche di Khartoum, eliminando il 37% dei suoi introiti complessivi.
Se le raffinerie sudanesi e l’unico itinerario per l’esportazione si trovano per ora nel nord, non c’è problema: l’ostacolo sarà aggirato.
Il Sudan Meridionale è stato ora incoraggiato da Washington a costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione, indipendente da Khartoum, attraverso il Kenya, che resta una delle zone dell’Africa in cui è più forte l’influenza militare americana.
«L’obiettivo del cambiamento di regime orchestrato dagli Usa in Libia, così come quello dell’intero progetto per un Grande Medio Oriente che si cela dietro la Primavera Araba – scrive l’analista di “Global Research” – è quello di assicurarsi il controllo assoluto sui maggiori giacimenti petroliferi conosciuti al mondo, allo scopo di controllare le future politiche di altri paesi, in particolare quella della Cina».
Si dice che, negli anni ’70, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger che all’epoca era probabilmente più potente dello stesso presidente degli Stati Uniti, abbia affermato: «Se si controlla il petrolio, si controllano intere nazioni o gruppi di nazioni».
Per la sua futura sicurezza energetica, la Cina dovrà trovare riserve sicure in casa propria: fortunatamente, conclude Engdahl, esistono nuovi metodi per rilevare e mappare la presenza di petrolio e gas: «E’ forse questo l’unico modo per uscire dalla trappola in cui la Cina è stata attirata».
(William Engdahl è autore di libri come “The Energy Wars” e “Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order”. L’intervento integrale “Libia: le vere ragioni della guerra”, è stato tradotto in italiano da Gianluca Freda e pubblicato da “Megachip”).
 

2011.12.02 – GHEDDAFI GIUSTIZIATO SENZA PROCESSO: TUTTO COME PREVISTO


Scritto il 21/10/11

Quello che resta di quarant’anni di potere è un corpo, ferito e rivoltato nella polvere: Muhammar Gheddafi macellato sul posto, il 20 ottobre, lungo la strada tra Sirte e Misurata, dopo un raid Nato che ha probabilmente messo in fuga il dittatore, costringendolo a lasciare l’ultima roccaforte dopo quasi otto mesi di resistenza.
Facendo il verso alle didascalie con cui tutti i media hanno presentato il tremendo video di Al-Jazeera sugli ultimi istanti del Colonnello, il sito “Megachip” avverte: “Attenzione, segue una serie di immagini shock su Gheddafi che possono urtare la vostra suscettibilità”.
La drammatica sequenza che il 20 ottobre ha fatto il giro del mondo – il dittatore ferito e insanguinato, strattonato dai miliziani e poi giustiziato – ricorda le immagini di piazzale Loreto, la fine di Mussolini: fino all’ultimo, la sorte del leader libico richiama ancora una volta l’Italia, già padrona della Libia e sterminatrice coloniale della resistenza araba, della cui memoria lo stesso Gheddafi nutrì la propria mitologia personale: dalla devastazione dei cimiteri italiani fino alla foto dell’eroe nazionale Omar Al-Mukhtar appuntata sul petto durante la prima, storica visita a Roma, sotto la protezione dell’amico fraterno Silvio Berlusconi, dopo che nel 1987 un altro premier italiano, Bettino Craxi, aveva salvato la vita al Colonnello permettendogli di sfuggire al sanguinoso raid aereo su Tripoli ordinato da Ronald Reagan.
Dopo il lancio di due missili Scud finiti nel mare davanti a Lampedusa, al selvaggio bombardamento americano sulla capitale libica (che fece strage di civili) Gheddafi reagì con analoga azione terroristica, facendo esplodere in volo l’aereo di linea precipitato a Lockerbie in Scozia: episodio che gli costò un embargo infinito, interrotto poi da Bush che nel 2003 lo arruolò tra gli alleati della “guerra al terrorismo” di Al Qaeda, convinto che il Colonnello si sarebbe rassegnato a porre anche la Libia sotto il controllo militare americano attraverso il network strategico che oggi si chiama Africom.
Proprio il rifiuto di Gheddafi a sottomettersi fino ad entrare nei ranghi della “Nato africana” avrebbe provocato l’ultima, fatale crisi, risolta oggi dalla Nato atlantica, nuova padrona della Libia. 
Come Mussolini, Gheddafi il 20 ottobre 2011 sarebbe stato raggiunto durante la fuga e ferito nel corso della cattura, scrive Christian Elia su “PeaceReporter”: «Avrebbe implorato pietà, morendo poco dopo per le ferite riportate.
E sollevando insorti e alleati Nato dalla gestione di un prigioniero scomodo, che avrebbe fatto del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja che lo attendeva una tribuna politica molto scomoda per tutti coloro che in questi quarant’anni lo hanno sostenuto e finanziato», in prima linea le potenze occidentali, per conto delle quali Gheddafi ha combattuto guerre sanguinose.
Il Colonnello è anche accusato di aver organizzato con la Francia e la Cia l’omicidio di Thomas Sankara, il temibile leader rivoluzionario del Burkina Faso che, dalla conferenza panafricana di Addis Abeba nel 1987, aveva avvertito l’Occidente: l’Africa è stanca di essere sfruttata e non pagherà più il debito-capestro contratto con la finanza internazionale.
«Gheddafi è morto, dunque – scrive Elia – ma sono tante le questioni che la sua scomparsa non risolve, in primo luogo quello della guerra nel Paese nord africano».
La più semplice interpretazione, aggiunge “PeaceReporter”, sarebbe quella di immaginare un pugno di lealisti, irriducibili e fedeli fino alla morte al Colonnello, che adesso deporranno le armi.
«Non è così.
Le tribù di Sirte, città natale di Gheddafi, non sono state fedeli tanto alla persona del Colonnello, quanto al potere che per mezzo di lui hanno esercitato per anni».
Grazie ai proventi del petrolio «come un bancomat», migliaia di notabili «hanno cogestito il potere con il Colonnello e hanno combattuto, e combatteranno ancora, per difendere la loro vita.
Non è prevista, nella Libia di oggi, una via di mezzo.
Chi vince non farà prigionieri e chi perde non si aspetta un finale differente dalla lotta fino all’ultimo sangue».
Difficile stabilire quanto tutto questo possa andare avanti: le riserve di denaro contante e di armi che Gheddafi ha portato con sé a Sirte non sono quantificabili.
Di sicuro si chiude la fase ufficiale del conflitto, ma le divisioni tra gli insorti si riveleranno in tutta la loro complessità, avverte ancora Elia: «Un esempio è proprio il fatto che il corpo del raìs viene portato a Misurata, città martire di questo conflitto.
I suoi combattenti si sono guadagnati un posto di rilievo in questa rivoluzione e non hanno alcuna voglia di cedere il passo – senza una succosa contropartita di potere – al gruppo di potere di Bengasi.
Il tutto condito dalla presenza di armi ovunque, nel Paese».
Altro aspetto che la morte di Gheddafi non chiarisce: il ruolo della rivolta in Libia all’interno della “primavera araba”.
«Sarebbe un grave errore ritenere quello che è accaduto in Libia simile alle rivolte popolari in Egitto e Tunisia», scrive “PeaceReporter”: «Mubarak e Ben Alì non sarebbero mai finiti come Gheddafi, per il semplice motivo che i movimenti egiziani e tunisini sono legati al ruolo svolto dalla forze armate.
Che, ritenuti ormai indifendibili i dittatori, di fronte alla pressione popolare spontanea e appoggiata dall’estero, li hanno messi da parte.
Nessuno, però, avrebbe accettato che Mubarak e Ben Alì finissero così».
La guerra in Libia, invece, «dal primo momento, è stata una guerra decisa altrove».
Una guerra «finanziata attraverso la fornitura di armi ai ribelli, preparata con l’acquisto del voltafaccia di una serie di ex sodali di Gheddafi».
E quando il Colonnello, «faticosamente rientrato nel novero degli amici dell’Occidente, ha ancora una volta cambiato opinione rispetto ai rapporti con Europa e Nord America, è stato deposto».
Gheddafi l’aveva promesso: il più longevo leader arabo della storia non sarebbe mai scappato.
E infatti è stato preso, armi in pugno, nella città dov’era nato nel 1942.
Figlio di beduini, cresciuto nel mito panarabista dell’egiziano Nasser, fu allevato dall’esercito britannico e rientrò in Libia nel 1966 come ufficiale.
Tre anni dopo guidò il golpe anti-occidentale che portò alla caduta della monarchia e riaprì il contenzioso con l’Italia, fino ad ottenere il recente, storico maxi-indennizzo per i danni coloniali.
Finanziatore dell’Olp di Yasser Arafat, la sua ideologia anti-israeliana e anti-americana lo portò a sostenere gruppi terroristici, dall’Ira irlandese al Settembre Nero palestinese.
Negli anni ‘90 condannò l’invasione dell’Iraq ai danni del Kuwait, ma poi si oppose alla guerra contro Saddam.
Recente il suo riavvicinamento problematico all’Occidente, favorito dall’Italia con cui Gheddafi ha sempre intrecciato relazioni strategiche, dalla cessione privilegiata del petrolio all’Eni all’ingresso del capitale libico nella Fiat.
«Oggi inizia la nuova Libia?», si domanda Christian Elia.
«No, oggi potrebbe essere il giorno nel quale nasce la Libia, che fino a oggi non è mai esistita.
Una colonia per secoli, dagli antichi romani ai turchi, fino alla conquista degli italiani.
Un gruppo di tribù senza legami, uniti a forza sotto una bandiera.
Poi la guerra e la monarchia fantoccio, rovesciata dal golpe di Gheddafi nel 1969.
Ecco che per la prima volta il popolo che abita quella terra, senza una società civile (altro elemento di fondamentale differenza da Egitto e Tunisia) dovrà essere capace di gestire il proprio futuro.
Come insegnano l’Iraq e l’Afghanistan, però, l’aiuto occidentale non è mai a costo zero», aggiunge “PeaceReporter”.
«Proprio nei giorni che hanno preceduto la morte di Gheddafi, senza che se ne parlasse troppo, il Cnt si è diviso e infiammato in una polemica rovente, sulla questione dei contractors.
Veniva chiesto loro, infatti, di ratificare accordi con le compagnie di sicurezza privata, ma alcuni esponenti del Cnt hanno rifiutato.
Gesto interessante, ma che rende l’idea di come la Nato va via per lasciare il posto a una serie di interessi che adesso sono tutti da valutare».
Resta un rapporto speciale con l’Italia: dall’espulsione degli ex coloni italiani nel 1970 al ruolo (passivo) nella strage di Ustica, fino ai migranti usati come un’arma, per volontà di un ferreo regime autocratico che non ha esitato a sterminare oppositori inermi senza per questo imbarazzare i partner italiani, interessati più che altro ai «patti di amicizia firmati da governi di centrodestra e centrosinistra, senza differenze e senza dignità».
“Sic transit gloria mundi”, ha commentato Berlusconi, interrogato sulla morte del vecchio amico.
«Purtroppo, oltre alla gloria, in Italia passa in fretta anche la memoria», conclude Christian Elia.
E i dubbi di “PeaceReporter” diventano certezze nell’analisi che Giulietto Chiesa affida allo spazio web di “Megachip”: «L’Impero non perdona. Crea i diavoli e poi li uccide, inesorabilmente. Chi disobbedisce, chi si oppone, chi semplicemente si trova nel crocevia sbagliato – a prescindere dalle sue colpe – deve essere punito».
Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan e Libia: «A chi tocca un processo, a chi un linciaggio, a chi tocca semplicemente di sparire.
La nostra epoca attuale – epoca che precede una nuova guerra, che minaccia di essere grande e terribile, più delle precedenti – è puntellata di dittatori da eliminare.
Prima di liquidarli – aggiunge Chiesa – li si trasforma in mostri, secondo la neolingua dell’Impero: satana, hitler, affinché le folle impaurite applaudano, liberate per un attimo dal terrore.
Che però un attimo dopo viene ricreato, per non dare tregua alla paura, perché i consumatori possano tornare, inquieti ma sazi, a comprare nella discarica in cui vivono».
E’ toccato a Slobodan Milošević, poi a Saddam Hussein, poi a Osama bin Laden, adesso a Muhammar Gheddafi.
«Morti diverse, significato unico: chi osa resistere sarà annientato.
Non c’è eccezione a questa regola.
È la regola non degli imperi che nascono, ma di quelli che muoiono».
 
 
 

2011.12.02 – IL GENERALE CLARK: LIBIA NEL MIRINO DA ANNI, E ORA SIRIA E IRAN


Scritto il 25/10/11

Circa dieci giorni dopo l’11 Settembre mi sono recato al Pentagono e ho visto il segretario alla Difesa, Rumsfeld, e il vicesegretario Wolfowitz. Sono sceso a salutare alcune persone dello Stato maggiore che lavoravano per me e uno dei miei generali mi chiamò dicendomi: «Venga, le devo parlare un minuto».
E io: ma lei avrà da fare. Lui disse: «No, no. Abbiamo preso una decisione: attaccheremo l’Iraq».
Io gli chiesi: ma perché?
E lui: «Non lo so.
Penso che non sappiamo cos’altro fare».
Domandai: hanno trovato informazioni che collegano Saddam Hussein con Al-Qaeda?
«No, non c’è niente di nuovo», disse, «hanno soltanto deciso di fare la guerra all’Iraq: penso che la ragione è che non si sa cosa fare riguardo al terrorismo, però abbiamo un buon esercito e possiamo rovesciare qualsiasi governo».
Sono tornato a trovarlo alcune settimane più tardi e all’epoca stavano bombardando l’Afghanistan.
Gli chiesi: bombarderanno sempre l’Iraq?
Lui mi rispose: «Molto peggio».
Prese un foglio di carta e disse: «Ho appena ricevuto questo dall’alto», cioè a dire dall’ufficio del segretario alla Difesa.
«Questo è un memo che descrive in che modo prenderemo 7 paesi in 5 anni, cominciando dall’Iraq, poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e per finire l’Iran».
Gli chiesi: è riservato?
Rispose: «Sì, signore».
Queste persone hanno assunto il controllo della politica degli Stati Uniti, e l’ho capito allora: mi sono ricordato di una riunione che avevo avuto con Paul Wolfowitz nel 1991.
Mentre nel 2001 era vice-segretario alla Difesa, nel 1991 Wolfowitz era il sottosegretario, ossia il numero 3 del Pentagono.
A quel tempo mi disse: «Abbiamo 5 o 10 anni per ripulire tutti questi regimi favorevoli all’ex Unione sovietica, la Siria, l’Iran, l’Iraq, prima che la prossima superpotenza emerga a sfidarci».
Si trattava di una dichiarazione stupefacente: l’esercito servirebbe a scatenare delle guerre e a far cadere dei governi e non a impedire i conflitti.
“Stiamo per invadere dei paesi”: i miei pensieri erano in un vortice.
Misi tutto questo da parte, era come una pepita da conservare.
Un gruppo di persone ha preso il controllo del paese con un colpo di stato politico: Wolfowitz, Cheney, Rumsfeld…
Potrei fare i nomi di un’altra mezza dozzina di altri collaboratori del “Progetto per un Nuovo Secolo Americano” (Pnac).
Costoro volevano che il Medio Oriente fosse destabilizzato, che venisse sconvolto e piazzato sotto il nostro controllo.
Tutto questo ci porta ai commenti del 1991.
Siete stati informati in proposito?
Il piano è stato annunciato pubblicamente?
Senatori e deputati hanno denunciato questo piano?
C’è stato forse un dibattito pubblico?
Assolutamente no!
E non c’è ancora!
Sono desiderosi di finirla con l’Iraq solo per andare in Siria.
Oh sì, le nostre legioni ci andranno.
(Wesley Clark, alto ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti: dichiarazioni rilasciate in un’intervista televisiva il 2 marzo 2007 e in una conferenza il 3 ottobre dello stesso anno.
Già comandante supremo della Nato dal 1997 al 2001, il generale Clark è stato a capo dell’Us European Command, cioè di tutte le attività militari americane in Europa, Africa e Medio Oriente. Info: “Megachip” del 24 ottobre 2011).
 
 

 

 

2011.12.02 – 11/9, GLI USA SAPEVANO: IMPOSIMATO LI DENUNCIA ALL’AJA


Scritto il 11/10/11

Le autorità americane non potevano non sapere in anticipo dell’attentato del secolo, quello dell’11 settembre 2001 contro le Torri Gemelle.
Ad affermarlo non è l’ennesimo giornalista “complottista” o l’ennesimo tecnico della sicurezza statunitense sconvolto dalle menzogne ufficiali, ma un super-magistrato italiano, Ferdinando Imposimato.
Che ora minaccia di imprimere una svolta storica al dibattito sull’11 Settembre con una decisione clamorosa: trascinare gli Usa davanti al tribunale penale internazionale dell’Aja, lo stesso che processa per crimini contro l’umanità i boia dell’ex Jugoslavia.
Secondo Imposimato, la Cia era al corrente dei piani terroristici poi targati Al Qaeda e inoltre le Twin Towers non crollarono per l’impatto degli aerei dirottati, ma a causa di esplosivi collocati negli edifici.
I periti della Nist, l’agenzia federale di sicurezza degli Usa che ha svolto un’indagine sull’attentato, “sanno” che in quei due grattacieli erano stati collocati degli ordigni, così come in un terzo palazzo adiacente alle Torri Gemelle, l’Edificio 7, che crollò su se stesso – come si vede in alcune riprese televisive – senza aver subito l’impatto di alcun velivolo.
Perché Imposimato intende rivolgersi al Tribunale penale internazionale dell’Aja?
«Diversi esponenti di vertice della Cia non informarono l’Fbi, che è l’unico organismo competente a contrastare il terrorismo in territorio americano, in tal modo lasciando che gli attentati avvenissero eseguiti l’11 settembre 2001», ha dichiarato l’ex giudice istruttore a Raffaele Gambari in un’intervista esclusiva per “Affari Italiani”.
Secondo l’anziano magistrato, coordinatore delle indagini su alcuni tra i più scottanti misteri della “notte della Repubblica” – dal caso Moro all’attentato al Papa – la Cia evitò di avvertire l’Fbi «pur sapendo della presenza di terroristi nel territorio Usa fin dal gennaio 2001, provenienti dall’Arabia Saudita e considerati come sospetti terroristi, e pur sapendo che essi erano arrivati a Los Angeles dal 15 gennaio 2001 per addestrarsi sugli aerei da usare come missili contro edifici americani».
Di qui la decisione di trascinare le autorità statunitensi di fronte al Tribunale penale internazionale: con quali imputati e quali testimoni? «Chiederò di ascoltare gli scienziati e i testimoni che sono stati sentiti nella Ryarson University di Toronto lo scorso settembre, che hanno dimostrato come nelle cosiddette Torri Gemelle e nella terza torre, la numero 7, siano state inserite dolosamente bombe e ordigni incendiari ed altri elementi idonei ad accelerarne il crollo», risponde Imposimato.
L’ipotesi di reato che il super-magistrato italiano ha intenzione di formulare «insieme con altri studiosi ed esperti», è di «concorso nelle stragi che l’11 settembre del 2001 causarono 3.000 morti alle Torri Gemelle più altri decessi nell’attacco al Pentagono».
Parlando con alcuni giornalisti a Latina, a margine del quarto convegno nazionale dei giudici-scrittori, Imposimato ha rivelato che dei retroscena dell’attentato alle Torri Gemelle si è discusso anche nel recente incontro del “Toronto Hearings”, un tribunale internazionale indipendente, riunitosi dall’8 al 12 settembre scorsi a Toronto.
Il “tribunale” canadese, composto da giudici internazionali tra cui lo stesso Imposimato, ha ascoltato 17 testimoni.
Di qui la decisione di scomodare il Tpi dell’Aja cercando di portare alla sbarra le autorità americane che nel 2011 potrebbero aver favorito la strage e poi taciuto la verità: «Ritengo che non aver impedito il verificarsi dell’attacco da parte di chi aveva il dovere di impedirlo sia una gravissima colpa», dice ancora l’indagatore dei “misteri italiani”.
Ferdinando Imposimato, che oggi ha 75 anni, si è occupato di lotta alla mafia e al terrorismo: è stato il giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo, tra cui il rapimento di Aldo Moro, l’attentato a Giovanni Paolo II, l’omicidio del vicepresidente del Csm Vittorio Bachelet e dei giudici Riccardo Palma e Girolamo Tartaglione.
E’ stato lo scopritore della pista bulgara in Europa e delle connessioni internazionali del terrorismo, il primo a parlare delle connessioni del terrorismo italiano coi servizi segreti israeliani e della presenza nel caso Moro del Kgb (tesi ribadita, vent’anni più tardi, dal dossier Mitrokhin).
Ha indagato su Michele Sindona, sulla Banda della Magliana e sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, della cui famiglia è tuttora il legale; nel 1983 gli è stato ucciso per ritorsione il fratello, Franco, e tre anni dopo ha dovuto lasciare la magistratura per le continue minacce di Cosa Nostra.
Imposimato ha rappresentato l’Italia a Strasburgo per la strategia europea antiterrorismo e, per conto dell’Onu, ha gestito un programma di contrasto al narcotraffico con Giovanni Falcone, Gianni De Gennaro, Rosario Priore, Giancarlo Caselli e il generale dei carabinieri Mario Mori.
Attivista dei diritti umani, impegnato nel recupero di tossicodipendenti e carcerati, ha svolto missioni in Perù per conto del Dipartimento di Stato Usa. Eletto alla Camera e poi al Senato come indipendente di sinistra a partire dal 1987, per tre legislature è stato membro della Commissione Antimafia, presentando disegni di legge sulla riforma dei servizi segreti, sugli appalti pubblici, sui trapianti, sui sequestri di persona, sui pentiti e sul terrorismo.
Membro della Suprema Corte di Cassazione, oggi ne è presidente onorario aggiunto.
“Uomo dell’anno” nel 1984 per la rivista francese “Le Point”, viene premiato come giudice-coraggio e ottiene anche il premio dedicato a Carlo Alberto Dalla Chiesa per le sue battaglie sulla giustizia.
Nel 1985 il “Times” di Londra gli dedica una intera pagina definendolo “lo scudisciatore della mafia”.
Stessa attenzione da parte della rivista americana “Reader’s Digest”, mentre l’Onu lo sceglie come uomo-simbolo della giustizia.
E ora, l’annuncio forse più clamoroso: ricorrere alla giustizia internazionale per far luce sulla vera storia dell’11 Settembre, costringendo le autorità statunitensi a difendersi dalle gravissime accuse che ormai si addensano attorno agli uomini che nel 2001 “non impedirono” l’attacco alle Torri, che poi usarono per invadere l’Iraq e l’Afghanistan, trascinando in guerra il mondo intero per dare la caccia al fantasma di Osama Bin Laden, a sua volta sparito nel nulla.
 
 

2011.12.02 – FALLITI TUTTI GLI OBIETTIVI DOPO 10 ANNI IN AFGHANISTAN


Scritto il 09/10/11
DIECI ANNI DI GUERRA.
L’ex comandante della missione Nato in Kosovo traccia un bilancio molto negativo della missione afgana ed esprime pessimismo per il futuro

di Enrico Piovesana – peacereporter.net.
Generale Mini, che bilancio traccia di questi dieci anni di guerra in Afghanistan?
Un bilancio del tutto negativo, visto che non è stato conseguito nessuno dei grandi obiettivi con cui gli Stati Uniti e la comunità internazionale hanno giustificato l’intervento in Afghanistan: dalla sconfitta del terrorismo internazionale, che non è certo morto con Bin Laden, alla democratizzazione e ricostruzione del Paese, al contrasto al narcotraffico.
Se la missione Isaf si fosse limitata al suo obiettivo iniziale stabilito a Bonn nel dicembre del 2001, ovvero alla stabilizzazione dell’area di Kabul e al supporto alla creazione di un governo transitorio, le cose sarebbero andate diversamente.
Quando e perché sono cambiati gli scopi della missione afgana?Il fallimento afgano è iniziato quando nel 2003 gli Stati Uniti, per concentrarsi sull’Iraq, hanno lasciato la missione Isaf in mano alla Nato, che ne ha stravolto gli scopi allargandoli ai suddetti obiettivi di antiterrorismo, nation-building e antidroga, ma che poi non è stata in grado di gestire la situazione.
La Nato ha voluto strafare, disperdendo le sue scarse forze su tutto il territorio e finendo così a fare da bersaglio senza riuscire a raggiungere nessuno di quegli ambiziosi convertiti. Il paradosso è che eravamo andati lì per difendere gli afgani, e oggi ci ritroviamo a difendere noi stessi dagli afgani.
Quali sono le sue previsioni sul futuro dell’Afganistan e della missione internazionale?
Riguardo al futuro sono altrettanto pessimista, perché in dieci anni non è stato affrontato nessuno dei problemi sociali e culturali che avrebbe potuto garantire un futuro diverso all’Afghanistan. In tutto questo tempo non abbiamo portato nessun miglioramento dal punto di vista dell’economia, dell’istruzione, delle leggi.
Anzi, con la nostra inazione e i nostri errori abbiamo peggiorato le cose, allontanando sempre più la popolazione dal nuovo governo sostenuto dall’Occidente.
Per riparare ai nostri danni dovremmo rimanere in Afghanistan per decenni!
Quindi non crede che l’occupazione dell’Afganistan finirà nel 2014?
Noi europei ce ne torneremo a casa nei prossimi anni senza aver risolto niente, ma gli americani rimarranno a tempo indeterminato, lasciando basi e forze speciali: loro non usciranno mai più dall’Afghanistan, esattamente come non usciranno mai più dall’Iraq.
E già che ci sono, fanno di necessità virtù: dovendo rimanere per forza, ne approfittano per piantare degli avamposti contro potenziali nemici regionali e globali, Cina in primis, gettando i presupposti per nuove e ben più rischiose guerre globali.
E per rimanerci sono prontissimi a scendere a patti con i talebani.Mantenere i nostri soldati in Afganistan costa a noi italiani 800 milioni l’anno: in tempi di crisi non sarebbe il caso di riportarli a casa subito?Se si considerano i pessimi risultati che abbiamo ottenuto finora potremmo andarcene anche domani, risparmiando un bel po’ di denaro.
Ma per ragioni di politica interna italiana e di rapporti con gli alleati Nato, l’Italia non può permettersi un ritiro unilaterale.Terrorismo, democrazia, ricostruzione, narcotraffico: in dieci anni di guerra in Afghanistan, nessuno degli obiettivi è stato centrato: potremmo tornarcene a casa anche subito, se non fossimo così legati agli Usa – che invece resteranno a Kabul per chissà quanto, anche solo per presidiare la frontiera occidentale della Cina.
Il generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato in Kosovo, è pessimista.
A partire dal bilancio di questo decennio: «Un bilancio del tutto negativo, visto che non è stato conseguito nessuno dei grandi obiettivi con cui gli Stati Uniti e la comunità internazionale hanno giustificato l’intervento in Afghanistan: dalla sconfitta del terrorismo internazionale, che non è certo morto con Bin Laden, alla democratizzazione e ricostruzione del Paese, al contrasto al narcotraffico».
Se la missione Isaf si fosse limitata al suo obiettivo iniziale stabilito a Bonn nel dicembre del 2001, ovvero alla stabilizzazione dell’area di Kabul e al supporto alla creazione di un governo transitorio, le cose sarebbero andate diversamente, aggiunge Mini, intervistato da Enrico Piovesana per “PeaceReporter”.
Il fallimento afghano, continua il generale, è iniziato quando nel 2003 gli Stati Uniti, per concentrarsi sull’Iraq, hanno lasciato la missione Isaf in mano alla Nato, «che ne ha stravolto gli scopi allargandoli ai suddetti obiettivi di antiterrorismo, nation-building e antidroga, ma che poi non è stata in grado di gestire la situazione»
. Per Mini, «la Nato ha voluto strafare, disperdendo le sue scarse forze su tutto il territorio e finendo così a fare da bersaglio senza riuscire a raggiungere nessuno di quegli ambiziosi convertiti. Il paradosso è che eravamo andati lì per difendere gli afgani, e oggi ci ritroviamo a difendere noi stessi dagli afghani».
Riguardo al futuro, Mini è altrettanto pessimista, perché in dieci anni non è stato affrontato nessuno dei problemi sociali e culturali che avrebbe potuto garantire un futuro diverso all’Afghanistan: «In tutto questo tempo non abbiamo portato nessun miglioramento dal punto di vista dell’economia, dell’istruzione, delle leggi.
Anzi, con la nostra inazione e i nostri errori abbiamo peggiorato le cose, allontanando sempre più la popolazione dal nuovo governo sostenuto dall’Occidente. Per riparare ai nostri danni dovremmo rimanere in Afghanistan per decenni!».
Quindi non crede che l’occupazione dell’Afganistan finirà nel 2014?
«Noi europei ce ne torneremo a casa nei prossimi anni senza aver risolto niente, ma gli americani rimarranno a tempo indeterminato, lasciando basi e forze speciali: loro non usciranno mai più dall’Afghanistan, esattamente come non usciranno mai più dall’Iraq.
E già che ci sono, fanno di necessità virtù: dovendo rimanere per forza, ne approfittano per piantare degli avamposti contro potenziali nemici regionali e globali, Cina in primis, gettando i presupposti per nuove e ben più rischiose guerre globali. E per rimanerci sono prontissimi a scendere a patti con i talebani».
Mantenere i nostri soldati in Afghanistan, ricorda “PeaceReporter”, costa a noi italiani 800 milioni l’anno: in tempi di crisi non sarebbe il caso di riportarli a casa subito?
«Se si considerano i pessimi risultati che abbiamo ottenuto finora potremmo andarcene anche domani, risparmiando un bel po’ di denaro.
Ma per ragioni di politica interna italiana e di rapporti con gli alleati Nato, l’Italia non può permettersi un ritiro unilaterale» (info: www.peacereporter.net).
 
 

2011.12.02 – COMPLOTTO-IRAN? BRZEZINSKI AVVERTI’: BASTA GIOCARE COL FUOCO

Scritto il 14/10/11
 
Nello stesso giorno in cui a Washington tutte le massime cariche statali denunciano un «complotto» (dicono proprio così, e i media clonano la definizione all’infinito), ossia una cospirazione terroristica con base a Teheran perpetrata sul suolo americano, anche a Baghdad le stragi si sono intensificate ad opera di terroristi suicidi. Una giornata simile merita di essere accostata a un fatto accaduto qualche anno fa e passato quasi sotto silenzio. Si tratta di una dichiarazione eclatante resa da Zbignew Brzezinski alla Commissione Esteri del Senato Usa il 1° febbraio 2007, quando paventava un «plausibile scenario per una collisione militare con l’Iran». E cosa prevedeva questo scenario?
Guarda guarda, includeva «il fallimento [del governo] iracheno nell’adempiere ai requisiti [stabiliti dall’amministrazione statunitense], con il seguito di accuse all’Iran di essere responsabile del fallimento, e poi, una qualche provocazione in Iraq o un atto terroristico negli Stati Uniti che sarà attribuito all’Iran, [il tutto] culminante in un’azione militare “difensiva” degli Stati Uniti contro l’Iran». Brzezinski, Segretario alla Sicurezza Nazionale con Jimmy Carter, è uno dei maggiori esperti e consiglieri di politica estera di numerose Amministrazioni americane, e appartiene a un’ala dell’establishment, che – pur conservando una visione imperiale della missione americana – negli ultimi anni ha teso tuttavia a mettere in guardia rispetto alla deriva bellica imposta dall’ala più “avventurista”, chiamiamola così, dell’establishment.
Nel 2007 la critica di Brzezinski puntava molto in alto, lamentando, sull’Iraq, «il fatto che le principali decisioni strategiche vengono prese in un circolo assai ristretto di persone, forse non più delle dita della mia mano. E sono questi individui che hanno preso la decisione iniziale di andare alla guerra». E nel caso dell’atto terroristico ipotizzato, era la prima volta che una voce americana di così straordinaria autorevolezza, considerava “plausibile” che qualcuno, in seno agli apparati di governo statunitensi, potesse organizzare un attacco contro gli Stati Uniti, in modo da attribuire poi il tutto a qualche nemico esterno e provocare una guerra.
Nel decennio post 11/9 sono ormai innumerevoli i casi di “attentati sventati” in cui la manovalanza terrorista era gestita da agenti provocatori dell’Fbi. Il “complotto” dell’ultim’ora non fa eccezione. Intanto, il club ristretto ed esclusivo dei decisori dell’Impero in crisi sta già tirando fuori anche oggi la vecchia macabra formula che recita che «tutte le opzioni sono sul tavolo», accompagnata dal mantra sull’Iran «principale sponsor mondiale del terrorismo». Le autorità iraniane, in risposta, hanno recitato un lungo rosario di nomi, i tanti scienziati nucleari uccisi in attentati da due anni in qua.
L’apertura di un nuovo teatro bellico sarebbe l’incubo di molti generali statunitensi. Non è un caso che fra i più recalcitranti rispetto all’opzione bellica ci sia il Pentagono, che si affretta a precisare, per bocca del portavoce John Kirby, che si tratta solo «di una questione giudiziaria e diplomatica». Ultime resistenze dell’ala realista, che non pensa che la soluzione al logoramento delle forze armate segnate da dieci anni di guerre risieda nell’appiccare l’incendio di una guerra più grande ancora. Il vicepresidente Joe Biden e il segretario di Stato Hillary Clinton invece prefigurano già una nuova escalation di sanzioni e misure militari, spalleggiati oltreoceano dal primo ministro britannico David Cameron e dalla petromonarchia dei piranha sauditi. Brzezinski, se ci sei, batti un colpo.
(Pino Cabras, “Iran e complotti, lo scenario Brzezinski”, da “Megachip” del 13 ottobre 2011).
 
 
 

2011.12.02 – ISRAELE GELA IL MONDO: LA GUERRA CON L’IRAN E’ VICINISSIMA


scritto il 05/11/11

 
Tempo scaduto: tra poco parleranno le armi?
Contro l’Iran, nel mirino per il suo programma nucleare, potrebbe scatenarsi la “madre di tutte le guerre”, aperta da un raid aereo e missilistico entro pochi mesi se l’Aiea denuncerà la preparazione di bombe atomiche.
Esplicito il presidente israeliano, Shimon Peres: conto alla rovescia ormai imminente.
E’ la conferma di un pericolo reale, denunciato con insistenza da analisti come il canadese Michel Chossudovsky: «La terza guerra mondiale non è mai stata così vicina».
Liquidato Gheddafi e neutralizzato Assad, la Nato è padrona del Mediterraneo e il regime di Teheran appare isolato: mentre l’Unesco pensa di inserire la Palestina nel patrimonio dell’umanità, Israele testa nuovi missili e organizza war games in Sardegna.
E anche gli inglesi tifano per la guerra, che Obama sperava di riuscire almeno a rinviare.
«Mentre l’attenzione internazionale è concentrata sulla crisi finanziaria e dei debiti sovrani – scrive Simone Santini su “Clarissa” – una nuova voragine, forse ancor più drammatica, rischia di aprirsi nel breve periodo: una voragine che si chiama guerra».
Sembra la conferma dell’allarme lanciato continuamente da osservatori come Giulietto Chiesa: «Siamo di fronte a un epocale collasso finanziario del capitalismo basato su carte false, trilioni inesistenti e conti truccati, col debito statunitense che ha raggiunto livelli stratosferici: in questo caso, la guerra è la soluzione migliore per fare tabula rasa».
Non una crisi regionale, ma una guerra planetaria innescata da conflitti in apparenza locali come quello libico: la conquista di Tripoli da parte della Nato, dopo la secessione africana del Sud Sudan, ha di fatto tagliato alla Cina i rifornimenti strategici (petrolio e gas) sui quali Pechino aveva investito moltissimo.
E ora, l’Iran: molto più vicino ai confini cinesi, il paese degli ayatollah – partner fondamentale di Pechino – potrebbe diventare il detonatore di un conflitto planetario.
«La rottura della diga, il “game changer” – scrive ancora Santini – potrebbe avvenire la prossima settimana con la divulgazione di un rapporto dell’Agenzia atomica internazionale».
Gestita fino al 2009 con grande equilibrio dall’egiziano Mohammed El Baradei, già contrario alla guerra in Iraq scatenata dalla menzogna ufficiale delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, secondo indiscrezioni l’Aiea si appresterebbe ora ad accusare l’Iran di procedere verso la costruzione della bomba atomica, anche se i ripetuti controlli e le numerose ispezioni hanno accertato che finora Teheran non ha violato il “trattato di non proliferazione”.
Secondo il “Guardian”, l’Iran starebbe invece implementando nuove centrifughe per l’arricchimento dell’uranio spostandole in istallazioni sotterranee e fortificate nei pressi della città di Qom.
Per questo, secondo un alto funzionario governativo britannico, rimasto anonimo, «oltre i 12 mesi non potremmo essere sicuri che i nostri missili possano essere efficaci: la finestra si sta chiudendo, e il Regno Unito deve procedere con una pianificazione razionale».
Venti di guerra, verso un attacco annunciato che sembra ormai dietro l’angolo: «Gli Stati Uniti potrebbero farlo da soli, ma non lo faranno», dice ancora il funzionario londinese, «per cui abbiamo necessità di anticipare le loro richieste: ritenevamo di avere tempo almeno fino a dopo le elezioni americane del prossimo anno, ma ora non siamo più così sicuri».
Le notizie che si rincorrono descrivono un clima internazionale di grave allarme, a partire ovviamente da Israele: Tel Aviv spinge perché l’attacco all’Iran sia scatenato entro la primavera 2012.
Ne parla apertamente il maggior quotidiano israeliano, “Yedioth Ahronot”, che descrive il dibattito in corso tra “colombe” preoccupate dalle conseguenze del raid e “falchi” come il premier Netanyahu e il ministro della difesa Ehud Barak, decisi a sferrare l’attacco contro il nemico strategico Ahmadinejad, che ha sempre dichiarato di voler cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente.
Anche il paese sembra diviso sulla possibilità di una guerra, dice ancora “Clarissa”: secondo il sondaggio pubblicato dal quotidiano “Haaretz”, quattro israeliani su dieci (il 41% del campione) sarebbero favorevoli al raid, mentre quasi altrettanti (il 39%) sarebbero contrari; in attesa di decifrare l’intenzione degli incerti, “Haaretz” sostiene che in ogni caso la maggioranza (il 52%) si fida della valutazione e delle decisioni che vorranno prendere Netanyahu e Barak. Intanto, Israele si prepara al peggio: il 3 novembre un’esercitazione ha mobilitato il paese per quattro ore, simulando una difesa contro attacchi missilistici dall’esterno.
Le forze armate hanno testato con successo un nuovo missile balistico capace di raggiungere l’Iran, e l’aviazione israeliana ha appena condotto a termine un’imponente esercitazione nella base Nato di Decimomannu in Sardegna, con sei squadroni di cacciabombardieri impegnati a simulare azioni d’attacco su lunghe distanze con rifornimenti in volo.
Se fino a ieri le autorità israeliane parlavano di «esercitazioni di routine», denunciando la «fuga di notizie» innescata da due ex dirigenti del Mossad, Meir Dagan e Yuval Diskin, a confermare l’allarme è lo stesso Peres, premio Nobel per la pace, che il 4 novembre ha dichiarato alla tv commerciale Canale 2 che l’opzione militare si sta affrettando: «I servizi di sicurezza di tutti i Paesi comprendono che il tempo stringe e di conseguenza avvertono i rispettivi dirigenti, perché a quanto pare l’Iran si avvicina alle armi nucleari».
Nel tempo che resta, ha aggiunto Peres, insistendo sulla tempestività dell’imminente azione, «dobbiamo esigere dai Paesi del mondo di agire, e dire loro che devono rispettare gli impegni che hanno assunto, e far fronte alle loro responsabilità: sia che si tratti di sanzioni severe sia che si tratti di una operazione militare».
Sempre l’inglese “Guardian”, aggiunge Simone Santini, il 2 novembre ha pubblicato un reportage secondo cui le forze armate del Regno Unito starebbero intensificando i preparativi in vista di attacchi missilistici degli Stati Uniti contro siti iraniani.
Gli strateghi della Royal Navy starebbero esaminando la migliore dislocazione possibile nell’area mediorientale delle unità navali, tra cui i sottomarini dotati di missili da crociera Tomahawk.
Londra sarebbe pronta a concedere agli americani l’utilizzo dell’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano, già usata come fondamentale base d’appoggio in precedenti conflitti nella regione.
L’Iran è tornato al centro delle preoccupazioni diplomatiche dopo la guerra in Libia: anche se Barack Obama non avrebbe intenzione di imbarcarsi in un nuovo conflitto, potrebbe esservi “costretto” dall’atteso rapporto nucleare dell’Aiea, dopo le voci di “complotto iraniano” contro l’ambasciatore saudita negli Usa.
Finora, le installazioni atomiche iraniane – destinate dichiaratamente all’uso civile – hanno resistito anche agli attacchi cibernetici sferrati dall’Occidente, che sta ora riposizionando le proprie forze nella regione. Secondo il professor Chossudovsky, l’obiettivo è – da anni – l’accerchiamento dell’Iran: «Dalla seconda guerra mondiale, non si era mai visto un simile spiegamento di forze».
L’idea, spiega “Clarissa”, è di compensare il ritiro delle forze combattenti dall’Iraq ampliando la presenza militare nella penisola arabica, come ai tempi della prima guerra del Golfo, con nuovi stanziamenti in Kuwait, in Arabia Saudita e negli Emirati, e inviando ulteriori contingenti navali nel braccio di mare che separa le monarchie petrolifere dall’Iran.
Nonostante la crisi e i tagli (solo annunciati) alla spesa militare, gli Usa rilanciano: obiettivo, una “Nato del Golfo” con Bahrein, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Arabia Saudita, che renda permanente la prova generale di collaborazione appena sperimentata in Libia.
 «Gli scenari fin qui illustrati – si domanda Santini – puntano dritto verso un confronto militare o, come pensano alcuni analisti, fughe di notizie e pianificazioni militari servono per aumentare la pressione su Teheran, lanciando moniti credibili, per ottenere maggiori successi diplomatici?».
La risposta, in un senso o nell’altro, non tarderà probabilmente ad arrivare. «Nel frattempo, a fronte di un possibile conflitto con esiti devastanti, il movimento pacifista pare del tutto inerme ed impreparato. Tornerà ad agitarsi, forse, quando sarà ormai troppo tardi.
Ammesso che non lo sia già ora».
 
 
 
 

2011.12.02 – LA RUSSIA: MISSILI CONTRO L’EUROPA SE ISRAELE MINACCIA L’IRAN


Dopo la vistosa operazione di difesa preventiva della Siria, la Russia rilancia: Mosca è pronta a dislocare sistemi missilistici “Iskander” nell’enclave baltica di Kaliningrad, se la Nato insisterà nel voler dispiegare – stavolta contro l’Iran – lo scudo anti-missile che da anni preme per installare ai confini dell’ex Unione Sovietica. Complice anche la campagna elettorale moscovita, si riaccendono toni da guerra fredda attorno allo scenario sempre più instabile che minaccia il Medio Oriente, dove una potenza nucleare come Israele ha annunciato un possibile attacco a Teheran: la reazione missilistica dell’Iran potrebbe coinvolgere forze Usa nel Golfo o nel Mediterraneo, con conseguenze apocalittiche.
La situazione è serissima, avverte Giulietto Chiesa dal forum internazionale di Montpellier sulla crisi della regione islamica, rilanciando l’allarme confermato da Mikhail Gorbaciov. La Russia ormai teme il rischio di un conflitto nucleare: «Non appena Teheran dovesse raggiungere la possibilità teorica di costruire armi atomiche, sarebbe sicuramente bombardata da Israele, forse anche con testate nucleari: Mosca non vuole che Teheran si doti di bombe atomiche, ma non può tollerare il rischio di una minaccia nucleare occidentale ai suoi confini». La situazione, spiega Chisa ai microfoni di “Radio Città Fujiko”, potrebbe letteralmente diventare esplosiva: nessuno sa dove si abbatterebbe la reazione dell’Iran, se fosse colpito, ma è evidente che obiettivi occidentali, anche americani, sono alla portata dei missili iraniani.
«Un attacco israeliano scatenerebbe uno scenario ben più vasto e molto peggiore della stessa guerra contro l’Iraq», secondo Giulietto Chiesa. A quel punto, coi propri confini “circondati” dallo scudo anti-missile americano, la Russia rischierebbe di essere travolta dall’emergenza e, di fatto, assediata. L’avvertimento del presidente Dmitrij Medvedev, pronto a dispiegare i missili “Iskander” a Kaliningrad nel cuore del sistema difensivo orientale della Nato, è una mossa tattica: una forma estrema di pressione per indurre Washington a frenare Israele, dopo che dell’attacco contro l’Iran ha ormai parlato apertamente lo stesso Shimon Peres. Ancora una volta, gli occhi del mondo sono puntati su Tel Aviv.
«L’Iran è nel mirino occidentale da anni», ricorda Chiesa: «L’attacco contro Teheran è stato già minuziosamente progettato: non solo da Israele, ma anche da Washington. Ai tempi di Bush fu più volte sul tavolo, ma venne sempre rinviato per evidenti divergenze interne tra Pentagono e Dipartimento di Stato». Oggi l’attacco a Teheran torna in agenda, in una regione sconvolta dai cambiamenti politici in corso, anche violenti, nei quali emerge sullo sfondo la rinnovata egemonia della Nato nel Mediterraneo. Se l’Occidente alle prese con la più grave crisi della sua storia decide di presidiare a mano armata le risorse strategiche che fanno gola alla Cina e continua a premere sull’Iran anche attraverso la Siria, stavolta è Mosca a mettersi di traverso. Messaggio esplicito: la Russia non resterà più alla finestra.
 
 
 

2011.12.02 – TERZA GUERRA MONDIALE? BENVENUTI NELL’INCUBO.

Scritto il 27/8/10
 
Quando ci sveglieremo potrebbe essere tardi: saremo prigionieri di un incubo. All’inizio sembrerà un’operazione militare come tante altre, un semplice raid aereo punitivo sull’Iran ribelle. Sarà invece l’inizio della Terza Guerra Mondiale. Non ci credete? Meglio dare un’occhiata, allora, all’ultimo sconvolgente studio prodotto dall’istituto canadese “Global Research” diretto da Michel Chossudovsky, professore emerito di economia all’università di Ottawa, autore di saggi come “La globalizzazione della povertà e il nuovo ordine mondiale”. L’umanità è a un bivio pericoloso, avverte Choussudovsky: dall’atomica di Hiroshima, mai s’era visto un simile dispiegamento mondiale di armi pronte all’uso.
Uno scenario da fine del mondo: prima mossa, l’Iran. Poi, le reazioni a catena e i veri obiettivi: fermare la Cina neutralizzando la Russia. Il capitalismo imperiale, in crisi, pensa di non avere più altri mezzi per garantirsi l’accesso privilegiato alle risorse vitali: acqua, petrolio e gas naturale. Se fallisse la politica non resterebbe che la guerra, il conflitto totale su scala mondiale. E anche se nessuno se n’è accorto, avvertono gli osservatori canadesi, l’opzione militare è «in stato di avanzata preparazione». Sistemi di armi hi-tech, tra cui testate nucleari, sono già completamente schierati: gli “obiettivi” sono pressoché accerchiati. «Questa avventura militare», spiega Choussudovsky, «è sul tavolo da disegno del Pentagono» addirittura dal 1990. «Prima l’Iraq, poi l’Iran», stando a un documento del comando centrale Usa del 1995.
L’escalation è già parte dell’agenda militare: mentre l’Iran è il prossimo obiettivo, insieme con Siria e Libano, il nuovo dispiegamento militare strategico minaccia anche Corea del Nord, Cina e Russia. Segnali inequivocabili: a giugno, l’Egitto ha autorizzato il transito di navi da guerra israeliane e statunitensi nel canale di Suez (evidente “segnale” rivolto a Teheran), mentre l’Arabia Saudita ha concesso a Israele il diritto di sorvolo e, nel Mar della Cina, le manovre congiunte con la Corea del Sud hanno irritato Pechino. «Gli Stati Uniti ed i loro alleati stanno “battendo i tamburi di guerra” – scrive Choussudovsky – al culmine di una depressione economica in tutto il mondo», per non parlare della più grave catastrofe ambientale nella storia, il collasso della piattaforma Bp nel Golfo del Messico.
Media completamente accecati, depistati quando non disinformatori: «La “crisi reale” che minaccia l’umanità, secondo i media e i governi, non è la guerra ma il riscaldamento globale». Il vero pericolo non viene percepito: «Nessuno sembra temere una guerra nucleare sponsorizzata dall’America. La guerra contro l’Iran è presentata all’opinione pubblica come un problema tra gli altri», da vivere con l’indifferenza alla quale ormai si è abituati. Del resto, «la macchina di uccisione globale è sostenuta anche da un culto insito di morte e distruzione che pervade i film di Hollywood, per non parlare delle serie Tv di guerra e criminalità in prime time sulle reti televisive». Culto di morte «approvato dalla Cia e dal Pentagono, che supportano anche finanziariamente le produzioni di Hollywood come strumento di propaganda di guerra».
Se l’Iran dovesse essere oggetto di un attacco aereo “preventivo” da parte delle forze alleate, l’intera regione – dal Mediterraneo orientale alla frontiera occidentale della Cina con l’Afghanistan e il Pakistan – si infiammerebbe, conducendoci potenzialmente in uno scenario da Terza Guerra Mondiale, sostiene Choussudovsky. Il conflitto si estenderebbe subito a Libano e Siria ed è «altamente improbabile» che gli eventuali bombardamenti sull’Iran sarebbero circoscritti agli impianti nucleari: pressoché scontato, invece, «un attacco aereo su infrastrutture militari e civili, sistemi di trasporto, fabbriche, edifici pubblici».
Perché proprio l’Iran? Presto detto: col suo 10% di riserve mondiali di petrolio e gas, il paese degli ayatollah si colloca al terzo posto dopo l’Arabia Saudita (25%) e l’Iraq (11%) per la dimensione delle sue scorte. In confronto, gli Stati Uniti possiedono meno del 2,8% delle riserve di petrolio a livello mondiale. Mentre le scorte petrolifere Usa non raggiungono i 20 miliardi di barili, la vasta regione che va dal Medio Oriente all’Asia centrale dispone di riserve enormi, più di 30 volte quelle degli Stati Uniti, pari ad oltre il 60% della riserva totale del mondo. «Colpire l’Iran – sottolinea Choussudovsky – significa non solo recuperare il controllo anglo-americano sull’economia di petrolio e gas iraniani, compresi i percorsi delle condutture, ma anche contestare la presenza e l’influenza della Cina e della Russia nella regione».
Il previsto attacco contro Teheran fa parte di una coordinata “road map” militare globale. E’ la cosiddetta “guerra lunga” del Pentagono: un conflitto senza frontiere guidato dal profitto, un progetto di dominazione mondiale, una sequenza di operazioni militari. I pianificatori militari della Nato, aggiunge Choussudovsky, hanno previsto vari scenari di escalation militare, con relative implicazioni geopolitiche: mentre Iran, Siria e Libano sono gli obiettivi immediati, Cina, Russia e Corea del Nord, per non parlare di Venezuela e Cuba, sono anch’esse oggetto di minacce da parte degli Stati Uniti. Obiettivo strategico nella corsa alle risorse: sconfiggere il gigantesco competitor cinese e annullare la capacità militare della difesa russa.
Uno sguardo all’attualità recente non fa che moltiplicare timori e sospetti: le manovre navali al largo della Corea del Nord, la distribuzione di missili Patriot in Polonia, il centro di allarme missilissico anti-Russia installato nella Repubblica Ceca, dispiegamenti navali in Bulgaria, Romania e Mar Nero sempre in chiave anti-Mosca così come il dispiegamento di truppe Usa e Nato in Georgia e il formidabile dispiegamento navale nel Golfo Persico, compresi sottomarini israeliani pronti a colpire l’Iran. Contemporaneamente, sono ormai «aree in corso di militarizzazione» il Mediterraneo orientale, l’intero Mar Nero, la regione andina del Sudamerica, i Caraibi e l’America centrale, dove le minacce sono dirette contro Cuba e Venezuela.
Una escalation silenziosa e costante, protetta dalla formula dell’aiuto militare: trasferimenti di armi su larga scala, di proporzioni inaudite come l’affare da 5 miliardi di dollari con l’India, che mira a rafforzare gli indiani in funzione anti-cinese. Stessa tecnica in Medio Oriente, in vista del possibile attacco all’Iran: gli Stati Uniti, spiega il “Global Research Institute”, stanno armando gli Stati del Golfo (Bahrain, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti) con missili intercettori a terra, missili Patriot ad avanzata funzionalità, sistemi speciali per la difesa ad alta quota e missili intercettori Standard-3 sul mare, installati su navi da guerra già ora dispiegate nel Golfo Persico.
«Un disegno militare globale attentamente coordinato e controllato dal Pentagono», rileva Choussudovsky, che coinvolge le forze armate unite di più di 40 paesi. «Questo dispiegamento militare globale multinazionale è di gran lunga la più grande esibizione di sistemi avanzati di armi nella storia del mondo». La struttura di comando unificato, suddivisa in comandi combattenti geografici, si basa su una strategia di militarizzazione a livello globale. L’esercito degli Stati Uniti ha basi in 63 paesi. Nuovissime basi militari sono state costruite dopo l’11 settembre 2001, in sette paesi. In totale, ci sono 255.065 unità di personale militare statunitense distribuite nel mondo.
Una geografia militare, quella del Pentagono, che rivela il vero obiettivo finale dell’opzione bellica del terzo millennio: la conquista del mondo. «Ad eccezione di Hiroshima e Nagasaki, la seconda guerra mondiale è stata caratterizzata dall’uso di armi convenzionali», mentre ora la pianificazione di una guerra globale «si basa sulla militarizzazione dello spazio». Se fosse avviata una guerra contro l’Iran, aggiunge Choussudovsky, non verrebbero impiegate solo armi nucleari, ma sarebbe utilizzata «anche l’intera gamma di nuovi sistemi di armi avanzate, tra cui armi elettrometriche e tecniche di modificazione dell’ambiente», le famose “armi climatiche” per il cambiamento forzato del clima: secondo alcuni analisti, il sistema Haarp installato in Alaska sarebbe in grado di provocare a distanza cataclismi come siccità, terremoti e inondazioni.
Il pericolo, avverte Choussudovsky, è tanto più reale se si considera l’assoluta indifferenza dei mezzi di informazione: «In coro, i media occidentali hanno bollato l’Iran come una minaccia alla sicurezza globale in vista del suo programma di presunte armi nucleari (inesistente). Riecheggiando dichiarazioni ufficiali, i media ora chiedono l’attuazione di bombardamenti punitivi nei confronti dell’Iran in modo da salvaguardare la sicurezza di Israele». Anziché constatare che l’unica, vera minaccia alla pace nel mondo proviene dall’asse che collega Stati Uniti, Nato e Israele, secondo Choussudovsky si preferisce «instillare tacitamente», nell’inconscio popolare, «la nozione che la minaccia iraniana è reale e che la Repubblica islamica dovrebbe essere “conquistata”».
La costruzione del consenso di massa, aggiunge lo studioso canadese, ricorda i metodi della famigerata Inquisizione spagnola: si esige «l’accettazione dell’idea che la guerra è un impegno umanitario». E così, anche se è a tutti noto che sono Washington e Tel Aviv a mettere in pericolo la pace nel mondo, «in un ambiente inquisitorio la realtà viene capovolta: i guerrafondai sono impegnati per la pace, le vittime sono presentate come i protagonisti della guerra». Una mistificazione che ha successo, ora che negli Usa il movimento pacifista si è indebolito: con l’ascesa di Obama, gli americani contro la guerra si concentrano su Afghanistan e Iraq, trascurando «le guerre che sono in preparazione, già sul tavolo del Pentagono».
Niente è ancora deciso, ma tutto è pronto: al momento opportuno, se prevarrà l’opzione bellica, il più colossale dispiegamento di armi iper-tecnologiche della storia dell’umanità potrebbe far saltare in aria mezzo pianeta. «Questa guerra è pura follia», protesta il professor Choussudovsky, concludendo il suo report con un appello drammatico: «Ci rivolgiamo alle persone su tutta la terra, in America, Europa, Israele, Turchia e in tutto il mondo perchè si ribellino contro questo progetto militare, contro i loro governi che sono a favore di un’azione militare contro l’Iran e contro i mass media che servono a camuffare le conseguenze devastanti di una guerra contro l’Iran».
Se la guerra è un crimine, l’assassino in questo caso ha un movente formidabile: il denaro. «L’agenda militare – spiega il direttore del “Global Research Insitute – supporta un profitto guidato da un distruttivo sistema economico globale che impoverisce ampi settori della popolazione mondiale». Doppia follia, dunque, visto che la Terza Guerra Mondiale sarebbe una catastrofe «terminale». Albert Einstein aveva intuito i pericoli dell’ecatombe nucleare e dell’estinzione della vita sulla terra: «Non so con quali armi sarà combattuta la Terza Guerra Mondiale – disse – ma la Quarta sarà combattuta con clave e pietre». Oggi, purtroppo, gli arsenenali dell’ipotetico terzo conflitto mondiale cominciamo a conoscerli.
Secondo Choussudovsky, i colpevoli sono tantissimi: media, intellettuali, scienziati e politici che, in coro, «offuscano la verità indicibile», quella di Einstein: la guerra nucleare distrugge l’umanità e il processo graduale di distruzione è già cominciato. «Quando la menzogna diventa verità non c’è più modo di tornare indietro», insiste Choussudovsky: «Quando la guerra viene accolta come un impegno umanitario, la giustizia e l’intero sistema giuridico internazionale sono stravolti: il pacifismo e il movimento anti-guerra vengono criminalizzati. Essere contro la guerra diventa un atto criminale».
Guardiamola in faccia, la guerra: sanziona l’abbattimento indiscriminato di uomini, donne e bambini, distrugge le famiglie e le persone, annienta l’impegno delle persone verso gli altri esseri umani, impedisce alle persone di essere vicine a chi soffre. La grande menzogna, dice Choussudovsky, sostiene la guerra e lo stato di polizia come l’unica linea di approccio, distrugge nazioni e solidarietà internazionali. «Rompere la menzogna significa rompere un progetto criminale di distruzione globale, in cui la ricerca del profitto è la forza prevalente. Questo profitto guidato dall’agenda militare distrugge i valori umani e trasforma le persone in zombie inconscienti».
E allora quello che dobbiamo fare è «invertire la marea, sfidare i criminali di guerra in alte cariche e i potenti gruppi di pressione corporativi che li supportano, rompere l’Inquisizione americana, minare la crociata militare Usa-Nato-Israele, chiudere le fabbriche di armi e basi militari, riportare a casa le truppe: i membri delle forze armate dovrebbero disobbedire agli ordini e rifiutarsi di partecipare ad una guerra criminale». Esagerazioni? No, purtroppo. Perché, insiste lo studioso canadese, il conto alla rovescia è già cominciato: siamo circondati. Il potere che vuole la guerra è fortissimo, racconta ogni giorno il contrario della verità, pretende per sé le risorse vitali del mondo. Ed è armato fino ai denti.
(L’intervento di Michel Chossudovsky, “Scenario di Terza Guerra Mondiale”, è stato tradotto e diffuso da “Megachip”, www.megachipdue.info).
 
 
 

2011.11.28 – SINDACALISTI IN PENSIONE… TUTTI I PRIVILEGI.

di FAUSTO CARIOTI
 
Paradosso tutto italiano: a guidare le migliaia di pensionati e pensionandi che oggi attraverseranno le principali città italiane per protestare contro la riforma della previdenza ci saranno i privilegiati che andranno (o sono già andati) in pensione senza che per anni fosse stata versata una sola lira di contributi in loro favore.
Pensionati molto speciali, insomma, i cui assegni gravano o graveranno su chi la pensione se l'è sudata sino all'ultimo spicciolo, tutto grazie a una legge risalente al 1974, che prende il nome da Giovanni Mosca, deputato socialista e, in precedenza, leader della Cgil.
II copione è di quelli già visti: “la leggina" fu presentata come un provvedimento destinato a sanare la situazione di qualche centinaio di persone, che nei decenni successivi al dopoguerra avevano lavorato per sindacati o partiti politici più o meno in nero, cioè senza che a loro nome fossero stati versati all'Inps i contributi dovuti.
Bastava una semplice dichiarazione del rappresentante nazionale del sindacato o del partito e si potevano riscattare, al costo dei soli contributi figurativi, interi decenni di attività, a partire dagli anni Cinquanta.
Piatto ricco, mi ci ficco; proroga dopo proroga (l'ultima è scaduta nell’aprile del 1980) la legge Mosca è diventata un bastimento sul quale sono saliti quasi 40mila lavoratori – reali o presunti – di sindacati e partiti politici. Pensioni facili, facilissime. Che hanno procurato alle casse dell'Inps un aggravio valutato in 10 miliardi dì euro.
Tra i beneficiari della legge Mosca, molti bei nomi della politica e del sindacato, gran parte dei quali ancora in attività: Armando Cossutta, Achille Occhetto, Giorgio Napolitano, Sergio D'Antoni, Pietro Larizza, Franco Marini, Ottaviano del Turco, la scomparsa Nilde lotti.
Pensioni che si sono andate ad accumulare a sostanziosi vitalizi parlamentari o ad altri trattamenti previdenziali.
Accanto a questi personaggi noti, un esercito di funzionari più o meno oscuri.
Chi è ricorso alla maxi-sanatoria previdenziale – perché di questo, in fin dei conti, si è trattato -sono stati soprattutto il Pci e la Cgil.
Botteghe Oscure regolarizzò la situazione di circa 8mila funzionari, mentre il sindacato rosso sanò le posizioni dì ben 10mila dipendenti.
Ovviamente, come lecito attendersi in questi casi, molti ne hanno approfittato per farsi una pensione gratis senza averne diritto.
Le tante inchieste avviate dalle procure di mezza Italia tra il 1995 e il '96 portarono alla luce casi clamorosi, come quelli di funzionari che dichiaravano di aver iniziato a lavorare sin dalla tenera età di cinque anni, oppure quando il loro sindacato o il loro partito ancora non esistevano.
Non solo. Un'altra leggina, votata ai tempi dell'Ulivo, garantisce ad alcuni sindacalisti la possibilità di vedersi moltiplicare per due i contributi pensionistici e quindi, di fatto, di ottenere una pensione doppia.
Lo statuto dei lavoratori prevede che ai dipendenti in aspettativa per lo svolgimento di incarichi sindacali siano versati, a carico dell'Inps, i soliti contributi figurativi, calcolati sulla base dello stipendio non più versato dall'azienda di provenienza.
Un decreto legislativo del '96, firmato dall'allora ministro del Lavoro Tiziauo Treu, uomo vicino alla Cisl, prevede però che i sindacalisti in aspettativa possano godere di un ulteriore versamento da parte del sindacato.
Lo steso privilegio è garantito ai sindacalisti distaccati: quelli, cioè, che continuano a percepire lo stipendio dell’azienda privata o dall’ente pubblico di provenienza pur lavorando esclusivamente per il sindacato.
I base agli ultimi dati disponibili, a godere di questo regime speciale di doppio contributo – in vista di una pensione moltiplicata per lo stesso fattore – sono 1.793 sindacalisti, dei quali ben 1.278 fanno capo alla Cgil.
Le pensioni non sono il solo caso in cui i sindacati e i loro rappresentanti si trovano a godere di regole sociale calibrate su misura.
Alle organizzazioni sindacali, per citare l'esempio più clamoroso, non si applica l'obbligo di reintegro previsto dall'articolo 18 dello statuto dei lavoratori.
In altre parole, i sindacati sono liberi di licenziare i loro dipendenti senza correre il rischio di doverli riassumere se un giudice dovesse decidere che il licenziamento è avvenuto senza una giusta causa.
Inutile ricordare che la Cgil e le altre sigle, in difesa di quell'articolo 18 che a loro non si applica, hanno scatenato una vera e propria guerra di religione.
 
Fausto Carioti
 
 

2011.11.27 – MA CHE C’ENTRA LA PADANIA CON LA REPUBBLICA VENETA? OVVIAMENTE NULLA!!!


Ricevimano una e-mail da Enzo TRENTIN dell' Accademia degli Uniti che ci propone quella inviata da tale Lorenzo Matteoli, ieri sabato 26 novembre 2011.

E' condivisibile la visione e l'aspettativa di un'Europa dei Popoli e delle Nazioni dei Popoli,  ma ancora una volta c'è da constatare l'erroneo e fuorviante accostamento delle forze indipendentiste Venete con quelle di una inesistente padania forgiata dalla fantasia del partito italiano Lega Nord e accoliti vari.
Vedere il filmato sulla Catalonia è sicuramente incoraggiante ed entusiasma, ma il progetto politico di un'inesistente padania nulla ha a che fare con il ripristino di una Repubblica Veneta che annovera oltre mille anni di longevità… e scusate se è poco.
Mi chiedo inoltre come possa sfuggire all'attenzione del Sig. Lorenzo Matteoli l'imponente sforzo di tutti gli indipendentisti Veneti al punto da non citarli neppure tra le realtà movimentistiche della penisola italica.
Il balbettamento padano non è certo il fragore dell'intero Popolo Veneto e di quanti amano la propria Patria e si danno da fare, in un modo o nell'altro, anche con percorsi diversi, per riprisintare la sovranità del Popolo Veneto su tutte le proprie amate Serenissime Terre.
Del movimento padano sinceramente non ce ne frega un bel niente perchè non rappresenta sicuramente un bel niente per noi.
E' evidente che la padania non può avere l'unità culturale, etnica, linguistica e storica che sono premesse indispensabili per qualsiasi ipotesi di indipendenza, ma la Repubblica Veneta, di cui sembra dimenticarsi il Sig. Lorenzo Matteoli, ha oltre tremila anni di storia di un Popolo stanziato sulle proprie terre e oltre mille anni di quella che è e rimane ancora la Repubblica più longeva al mondo.
Attenzione a non confondere le fantasie politiche dei partiti italiani con quanto si sta concretamente facendo per il ripristino della sovranità del Popolo Veneto… una cosa è reclamare autonomia o indipendenza per abbindolare ancora i Veneti e per farsi eleggere a careghe di istituzioni italiane, un'altra è lottare per liberare la propria Patria dall'occupazione straniera italiana.
Sergio Bortotto, Presidente del MLNV
 
ecco il contenuto dell'email:
 
Con il dissolversi della struttura unitaria europea si rafforzeranno i movimenti per l’autonomia e l’indipendenza di specifiche sacche etniche regionali.
Paesi Baschi, Catalogna, Fiandre, Valle d’Aosta, Sud Tirolo, Sicilia e Sardegna.
Meno probabile la Padania che manca in modo totale dell’unità culturale, etnica, linguistica, storica che sono premesse indispensabili per qualunque ipotesi di indipendenza e autonomia.
Per avere una idea di cosa voglio dire e della distanza del movimento padano da una ipotesi credibile per pretendere l’autonomia e la indipendenza guardate questo video diffuso dalla Catalogna e rendetevi conto della differenza siderale con il balbettamento padano.
Si agiteranno molto, comunque.
 
ed ecco l'articolo cui fa riferimento: tratto da qui
 
 
Il sogno era l’Unità Europea. 
Un sogno/utopia molto radicato nella storia.
La forza della associazione tra la antica cultura del Celti e la “ratio” Latina dei Romani. Il sogno/utopia rinnovato da Federico II Hohenstaufen (1194-1250) di uno Stato laico, libero dai dogmi di qualunque religione, dalla Sicilia al Baltico.
Lo Svevo maledetto e scomunicato che aveva anticipato di 8 secoli, nei suoi limiti di monarca medievale, la visione di una stato multiculturale, Europeo e “moderno”.
Non per nulla patrono della Comunità Europea.
Oggi stiamo assistendo all’ultimo fallimento.
O tradimento.
Qualunque sia la soluzione di questa crisi, solo in apparenza macroeconomica e finanziaria, ma sostanzialmente culturale e politica, il sogno dell’Europa unita è finito.
Sospeso sine die. 
Difficile dire cosa resterà: se la visione di Paul Henry Spaak, Altiero Spinelli, Robert Schuman, Jean Monnet, oppure il senso più profondo e radicato nella storia dei Celti e dei Romani, sancito dai milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale.
Sulle rovine di questa ultima Europa e sugli errori dell’ultima generazione di leader politici verrà costruita la prossima Europa dalla prossima generazione di leader politici.
A tempo, a tempo.
Ma adesso dobbiamo vivere e gestire questa scadenza, i suoi significati e le sue implicazioni contingenti.
Rimpiangere non serve, non serve il piagnisteo.
Un solo commento marginale: il sogno  europeo muore per mano della “economic rationality”, un sottoprodotto della devastazione concettuale de-costruttivista.
Gli atteggiamenti di riserva mentale e di pauroso isolamento della Germania di Angela Merkel e della Francia di Nicolas Sarkosy non dovrebbero lasciare dubbi: il ciclo si sta rapidamente chiudendo.
La fuga degli investimenti dalla Eurozona è praticamente inevitabile e probabilmente già iniziata a livello degli scambi di credito interbancario.
La risposta della BCE, debole per espressa volontà tedesca, e insostenibile anche sul termine breve.
La catarsi dello “shorting” sui mercati si avviterà rapidamente al suicidio.
Nessuno vuole essere l’ultimo.
Se girano le voci di governi che preparano la stampa di nuove monete nazionali, anche se al momento completamente infondate, per effetto della micidiale efficacia del ciclo dell’informazione e della reazione all’informazione, queste voci saranno vere in pochi giorni.
Prepararsi al ritorno dell’Europa delle Nazioni è come minimo prudente e, forse, allo stato attuale della crisi, l’ultimo disperato strumento per innescare un riscatto positivo finale.
Ognuno con il suo debito, ognuno con la sua garanzia di pagarlo, ognuno con la sua credibilità, la sua moneta, le sue protezioni doganali e i vincoli di mobilità di lavoro e di capitale.
Barriere severe contro l’import di manifatturiero euro-cinese (cosa succederà ai de-localizzatori?), protezione delle industrie nazionali nei confronti di concorrenza straniera.
Accesso a mercati nazionali limitati.
Per imparare come ci si muove in questa nuova “geografia politica” invece di guardare avanti dobbiamo guardare indietro: all’Europa del 1950.
Quindi  revisione/abrogazione di tutti i trattati di scambio commerciale e di abbattimento delle barriere tariffarie WTO, GATT e quanti altri in essere a livello bilaterale.
In questo quadro, che sarà caratterizzato da fasi iniziali assolutamente caotiche, è difficile capire chi starà meglio e chi starà peggio.
I forti esportatori saranno penalizzati dalla drastica riduzione delle aree commerciali disponibili.
Le economie medio piccole caratterizzate da buona integrazione locale saranno meno esposte alla sberla iniziale.
Le produzioni connotate da forte specificità locale (poco sostituibili) saranno più solide.
Durante la fase di assestamento delle valute e delle ragioni del loro scambio molto traffico commerciale avverrà in termini di “scambio merci” (detto anche baratto) come avveniva negli anni 60 e ancora negli anni 70 per il commercio con paesi che non avevano una valuta bancabile sui mercati finanziari internazionali (ricordo che per molti anni questo è stato il caso dell’Algeria subito dopo l’indipendenza dalla Francia).
Non riesco a capire cosa succederà all’oro: la sua utilità come mezzo di pagamento ne aumenterà il valore, ma l’aumento della massa circolante compenserà questo aumento.
Altro elemento di moderazione della quotazione dell’oro sarà la necessità che caratterizzerà il suo impiego.
Ma è impossibile prevedere come giocheranno le diverse tendenze.
 Solo nella prassi sarà possibile azzardare previsioni.
Con il dissolversi della struttura unitaria europea si rafforzeranno i movimenti per l’autonomia e l’indipendenza di specifiche sacche etniche regionali.
Paesi Baschi, Catalogna, Fiandre, Valle d’Aosta, Sud Tirolo, Sicilia e Sardegna.
Meno probabile la Padania che manca in modo totale dell’unità culturale, etnica, linguistica, storica che sono premesse indispensabili per qualunque ipotesi di indipendenza e autonomia.
Per avere una idea di cosa voglio dire e della distanza del movimento padano da una ipotesi credibile per pretendere l’autonomia e la indipendenza guardate questo video diffuso dalla Catalogna e rendetevi conto della differenza siderale con il balbettamento padano. Si agiteranno molto, comunque.
Insieme all’unità Europea si dissolveranno gli “istituti” di questa struttura unitaria: 170.000 impiegati complessivamente (difficile la valutazione, prendo il numero da un articolo del Telegraph del 26 novembre 2011).
Praticamente il crollo della regione di Bruxelles la cui economia territoriale è sostanzialmente basata sulla presenza degli Istituti e del personale della Commissione e del Parlamento Europeo.
Tutti a casa: gradualmente e in tempi logisticamente ordinati, ma questa la sostanza. 
Con la dismissione degli organici si perderà anche il patrimonio di biblioteche, scuole, archivi, conoscenze, cultura giuridica e normativa prodotto in più di 50 anni di lavoro e di pensiero comunitario (dal Trattato di Roma del 25 Marzo 1957).
Ci sono due caratteristiche ambigue del “futuro”:  la prima è che la sua previsione ne facilita l’avvento e lo svolgimento, la seconda è che la sua previsione ne impedisce l’avvento e lo svolgimento.
Propongo questa mia molto schematica riflessione, che ho intitolato con affetto alla Catalogna, nell’ottica di quella delle due caratteristiche che preferite.
Se mi devo collocare: sto decisamente dalla parte della seconda.
Che la previsione di questa catastrofica ipotesi sia la premessa per bloccarla e per vincere le forze reazionarie che la stanno promuovendo.
Auguri a noi.
 

2011.11.22 – CENSURATO DA TUTTE LE TV ITALIANE.


Ascoltate il discorso dell'inglese Nigel Farage al parlamento europeo:
 
PARLA DI ITALIA, DI MARIO MONTI…
DELLA DEMOCRAZIA IN EUROPA…
ACCUSE GRAVISSIME,
MA NESSUNA TV OVVIAMENTE HA SENTITO L'ESIGENZA DI MOSTRARLO AI CITTADINI…
 
DIFFONDIAMO!!!
 
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qui con la dovuta traduzione
 
 
 
TRATTO DA QUI:
 
Durata: ‎2:38

2011.11.22 – MONTI E LA TASSA SULLA PRIMA CASA… MA CHI TI HA MAI VOTATO???

CARO MARIO MONTI,
 
DI SACRIFICI NOI "ITALIANI", GIA' NE FACCIAMO TROPPI E SINCERAMENTE NON ABBIAMO PIU' RISORSE PER FARNE DEGLI ALTRI.
 
VISTO CHE I POLITICI GUADAGNANO UN SACCO DI EURO AL MESE, NON SAREBBE IL CASO DI FARE UN PRELIEVO FORZATO DI € 5.000 A CIASCUNO DI LORO??
( PER UN TOTALE DI 60.000.000,00 € )

DAL SUO PROGRAMMA, NON MI SEMBRA CHE ABBIA CITATO UNA COSA DEL GENERE, MENTRE HA SOLO PRECISATO CHE VERRA' REINTRODOTTA LA TASSA SUGLI IMMOBILI (ICI)!!
NON PENSA CHE C'E' GENTE CHE NON HA I SOLDI PER PAGARE IL MUTUO E NON RIESCE AD ARRIVARE A FINE MESE E LEI PRETENDE CHE SI PAGHI QUESTA TASSA ASSURDA??

CHIUNQUE E' D'ACCORDO FACCIA UN COPIA ED INCOLLA SULLA PROPRIA PAGINA

2011.11.22 – ATTILIO BEFERA, AMMINISTRATORE DELEGATO DI AGENZIA DELLE ENTRATE – EQUITALIA ITALIANA – € 456.733 ANNUI DI STIPENDIO

L'A.D. di EQUITALIA guadagna 456.733 Euro all'ANNO!!!
 
 
FACCIAMO GIRARE L'ENNESIMA VERGOGNA ITALIANA…
Attilio Befera, Amministratore Delegato di "Agenzia delle Entrate Equitalia" – 456.733 Euro di stipendio annuo (fonte Agenzia delle Entrate)
 
QUANTO SPENDE LO STATO PER PAGARE I DIRIGENTI DELL'AGENZIA CHE ROVINA FAMIGLIE E AZIENDE???
QUANTE NE DEVONO ROVINARE PER PAGARE STIPENDI COME QUESTO AI DIRIGENTI ???
 
 
 
 

2011.11.14 – ZEITGEIST … NUOVO (DIS)ORDINE MONDIALE


Zeitgeist, the Movie è un web film non profit del 2007, diretto, prodotto e distribuito da Peter Joseph; è uscito in lingua inglese sottotitolato in diverse lingue, tra cui l’italiano ed è da poco disponibile anche doppiato in italiano.
È un documentario diviso in tre parti, apparentemente distinte ma rivolte verso un unico messaggio:
* La prima parte tratta della religione cristiana come mito, comparando la storia del Cristo con quella di diverse religioni precedenti, in particolare con il mito di Horus. Così facendo propone una lettura astrologica della Bibbia.
(LA PRIMA PARTE E’ PIENA DI ERRORI RIGUARDANTI LA STORICITA’ DI CRISTO E LA NATIVITA’ DI KRISHNA OLTRE CHE AD ALTRE SCIOCCHEZZE ALL’INTERNO, MA COME VEDRETE IN QUESTI QUATTRO VIDEO, TUTTO QUESTO PIANO FA PARTE DI UN DISEGNO ARCHITETTATO A DOVERE DALLA MASSONERIA E DALLA SOCIETA’ TEOSOFICA PER INDOTTRINARE MENTI PER ASSOGGETTARSELE IN VISTA DELLA NUOVA ERA).
* La seconda parte rivisita gli attentati dell’11 settembre 2001 in chiave cospirazionista, i possibili artefici dell’attentato, chi possa averne tratto beneficio, e se potevano essere evitati.
* La terza parte traccia un filo conduttore tra i grandi conflitti bellici che hanno coinvolto gli Stati Uniti, partendo dalla prima guerra mondiale sino alla seconda guerra del golfo, riconducendo il tutto alle logiche affaristiche dei maggiori cartelli bancari statunitensi e al ruolo principale della stessa Federal Reserve.
ALCUNE CRITICHE SU ZEITGEIST MOVIE:
Anche se il film ha attirato un certo interesse nel pubblico della rete, un articolo di copertina sul settimanale The Stranger di Seattle, ha dichiarato che Zeitgeist si basa soltanto su evidenza aneddotica, mentre altre pubblicazioni l’hanno criticato per l’utilizzo di citazioni di libri, commenti a voce, fonti varie, notizie e video clip senza fornire l’esatta indentificazione della fonte e l’indirizzo librario.
Una recensione nel giornale Irish Times lo definisce senza fonti (“unhinged”) e accusa il film di offrire null’altro se non “perversioni surreali dei dibattiti su problemi autentici”.
* L’esistenza di Gesù, come falso profeta o presunto tale, è un fatto indiscutibile per l’ebraismo, in effetti molti tra i suoi insegnamenti vengono confutati nel Talmud.
Inoltre nell’Islam, Gesù (“Issa”) è un profeta fondamentale, non morto sulla croce perché sostituito all’ultimo momento da un sosia ed i suoi insegnamenti antecedono e in parte ispirano quelli di Maometto.
Secondo il Corano, Gesù tornerà alla fine dei tempi sulle nubi per sconfiggere l’Anticristo, il falso Messia (DAJJAL).
CREARE ORDINE DAL CAOS
LO SCOPO DELL’ ELITE E’ CREARE UN NUOVO ORDINE MONDIALE GESTITO DAGLI “ILLUMINATI” CON UN UNICA RELIGIONE MONDIALE SOTTO IL COMANDO DI UN GOVERNO UNICO:
INTRODUZIONE DELLA DOTTRINA LUCIFERINA, UN UNICO GOVERNO, UNA SOLA MONETA (MICROCHIP SOTTO CUTANEO).
IL FINE ULTIMO OLTRE A SMINUIRE IL CRISTIANESIMO E’ DI UCCIDERE TUTTI I RIVOLUZIONARI, CRISTIANI E NON.
IL REGIME DELL’ANTICRISTO E’ IN ATTO!

 
 
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2011.11.14 – ATTENZIONE AL “NUOVO ORDINE MONDIALE”.

Guardatevi questo video, lascio a voi ogni commento… ma le coincidenze sono sempre molte.
Quando apriremo gli occhi… speriamo prima che questi ce li chiudano per sempre.l
 
 
 
e anche questi:
 
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2011.11.14 – BENIGNI E LO SHOW AL PARLAMENTO EUROPEO… L’IGNORANZA E LA VERGOGNA!!!

Tratto da: MICHELE BISEGLIE
 
Benigni farebbe bene a fare solo il suo mestiere, ogni volta che parla di storia spara cazzate da impallidire dalla vergogna!
Già in occasione del 150° disse , falsificando la storia, peste e corna contro i Borbone ed il regno delle due sicilie, questa volta si è ripetuto contro i Normanni, affermando che vennero al sud per depredarlo e soggiogarlo !
Chi dice a questo ignorante che i grandi Rugger…o d'Altavilla, Roberto il Guiscardo e Federico II (STUPOR MUNDI) fecero del sud italia il regno più grande, ricco e colto d'europa?
Chi gli dice che nel 1080 (anno in cui entrarono in Sicilia, dopo aver scacciato gli arabi, altro grande e colto popolo) la Toscana era nel pieno oscurantismo e Venezia era ancora una palafitta mentre nel nord i barbari padroneggiavano saccheggiando e massacrando il villaggi "padani" ?
Chi glielo racconta che quella di Federico II fu l'UNICA crociata ad entrare in Gerusalemme senza spargere una sola goccia di sangue?
E che la lingua italiana nacque a Palermo 200 anni prima di firenze?
Noi dovremo lottare aspramente affinchè i libri di storia riportino la VERITA' su ciò che fummo dal VII° sec avanti Cristo fino al 1860 !
 
 
guardate questa vergogna:
 
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