Maurizio Blondet 4 maggio 2016 0
di Paolo Borgognone
Premessa.
La FPÖ, il “diavolo”?
Le elezioni presidenziali austriache tenutesi il 24 aprile 2016 segnarono un punto di svolta nell’ambito delle relazioni politiche interne ai Paesi della Ue.
Il primo turno di queste elezioni, infatti, fu connotato dalla vittoria, nemmeno troppo a sorpresa, del candidato del Partito della Libertà Austriaco (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ), Norbert Hofer, e dal simultaneo crollo di consensi dei due partiti “istituzionali” (democristiani, ӦVP, e socialdemocratici, SPӦ) dominanti la politica interna dal 1945.
Norbert Hofer ottenne, complessivamente, 1.499.971 preferenze su un totale di 4.279.170 voti validi, pari al 35,1 per cento dei consensi.
Il candidato socialdemocratico, Rudolf Hundstorfer, dovette accontentarsi di 482.790 voti (11,3 per cento) e quello democristiano, Andreas Khol, di 475.767 preferenze (11,1 per cento).
Al secondo posto, molto staccato da Hofer, si attestò il leader della sinistra liberal-borghese austriaca, ossia il candidato “indipendente” sostenuto dai Verdi, Alexander Van der Bellen, con 913.218 voti, pari al 21,3 per cento.
Norbert Hofer vinse il primo turno delle elezioni presidenziali austriache presentando un programma variamente articolato, una sorta di connubio liberista, etnonazionalista e protezionista in fatto di controlli alle frontiere e welfare.
Il programma di Hofer e della FPÖ si caratterizzava come interno alla galassia delle proposte “populiste” e “nazionaliste” di fuoriuscita dalle logiche neoliberali e cosmopolitiche della Ue.
La FPÖ si schierava infatti, come forza politica organizzata, contro la retorica immigrazionista (frontiere aperte), omosessualista (gay friendly) e integrazionista (fine dello Stato nazionale, cosmopolitismo neolibertario quale religione identitaria di massa dei “cittadini globali” della Ue) propria dell’eterogeneo apparato politico (PPE, PSE, ECR, liberaldemocratici, Verdi e Sinistra Europea) di riproduzione del dominio della tecnocrazia liberale di Bruxelles. Soprattutto, Norbert Hofer e la FPÖ si dichiararono contrari alla ratifica, in sede europea, del Trattato di libero scambio e libero commercio Usa-Ue (TTIP, altresì detto «Nato economica»).
Norbert Hofer affermò che «se l’Austria fosse chiamata oggi a esprimersi sul suo ingresso nell’Ue, lui voterebbe contro».
Hofer infatti si pronunciò in questi termini, riguardo all’idea di Europa che aveva in mente:
Non sono certo felice del blocco sul Brennero: ma finché le frontiere esterne della zona Schengen non funzionano, dobbiamo mettere in sicurezza i nostri confini nazionali […].
Dobbiamo lavorare ancora insieme a un’Europa comune e a un’Europa sussidiaria.
Questo è il mio obiettivo: un’Europa sussidiaria che non sia uno Stato centrale.
Ma se pensiamo di costruire uno Stato centrale in cui i Paesi membri hanno poco da dire allora è difficile.
La FPÖ è un tipico partito della destra radicale nazional-populista e post-industriale europea.
Questo partito, nato nel 1955 come soggetto politico prettamente liberal-nazionale capace di alternare una retorica sciovinistica a frangenti di più schietta integrazione liberale sistemica, a partire dal 1992 intraprese una sorta di svolta politica in direzione “populista” nel momento in cui la ratifica del Trattato di Maastricht segnò «l’avvento dell’“Europa dei banchieri e dei burocrati”, contrapposta a quella, idealizzata, dei “popoli” o delle “Patrie”».
Nel 1994 la FPÖ diede vita a una campagna a sostegno del “No” all’integrazione dell’Austria nella Ue e prese a definire la nascente, e sedicente, Unione europea quale sorta di “prigione dei popoli” e “delle identità”.
Nel 2011, la FPÖ varò un programma dal titolo «Europa der Vielfalt(Europa delle diversità)» in cui teorizzò «l’Europa intesa come “un’alleanza di nazioni libere e patrie autodeterminate”», ovvero un’Europa quale «spazio di cooperazione tra popoli che mantengono le loro specificità, le loro tradizioni e la loro cultura, rifiutando una “uniformità culturale” ottenuta attraverso un processo di integrazione troppo irrispettoso delle specificità e della sovranità dei singoli Stati-nazione».
Alla battaglia contro la Ue ideologizzata in senso cosmopolitico e neoliberale, la FPÖ affiancò, negli anni Novanta del XX secolo, una retorica genericamente ostile all’Islam e un programma politico teso alla realizzazione di un welfare identitario a primazia nazionale. Scrive, in merito, Marco Mancini:
Così la FPÖ nel 1994 sostiene il «no» nel referendum sull’adesione del paese austriaco all’Unione Europea, sfruttando anche i timori per l’apertura a Est.
Il nuovo leader del partito, Heinz-Christian Strache, insiste sulla possibilità di abbandonare l’Unione europea, qualora non vengano garantiti a sufficienza gli interessi nazionali austriaci.
La nuova Europa è bollata come «troppo allargata, simile all’Unione Sovietica, cosmopolita, separata dalle radici cristiane e invasa dall’Islam».
Sotto la guida del pittoresco Jӧrg Haider, tra il 1986 e il 1992 si «accentua la svolta anti-sistema della FPÖ».
Nell’ambito del partito, infatti, «vengono […] attenuati i precedenti toni liberisti, attraverso una posizione volta a tutelare le fasce più deboli della popolazione, pur all’interno di un’economia competitiva».
I risultati della svolta anti-sistema della FPÖ non si fecero attendere. Nel 1999 infatti, a fronte del 26 per cento dei voti ottenuti alle elezioni di ottobre, «la FPÖ di Haider riesce […] a conquistare il 47 per cento dei voti operai, a fronte del 4 per cento che sosteneva il partito nel 1979».
I ceti popolari furono attratti al voto per la FPÖ in quanto tale partito si connotò come l’unica forza politica, interna al panorama austriaco, nominalmente “euroscettica”, ossia impegnata in una battaglia culturale a difesa dei valori tradizionali della cultura autoctona da ogni ipotesi di colonialismo americanocentrico. Scrive infatti Mancini:
In termini generali, è possibile affermare che l’euroscetticismo costituisce solo una parte di una piattaforma più ampia, caratterizzata dall’ostilità nei confronti delle organizzazioni internazionali, accusate di minacciare la sovranità degli Stati, e del processo di globalizzazione nel suo complesso […].
Da una parte, l’ideologia mondialista è all’origine della società multiculturale; dall’altra, il «villaggio globale» impone anche una crescente omogeneizzazione delle culture e degli stili di vita, portando a una deleteria «Cocacolonization»[11].
La FPÖ può, come del resto la maggior parte dei partiti nazional-populisti europei, essere annoverata tra i movimenti che raccolgono il consenso dei «vinti» dai processi di globalizzazione.
I suddetti «vinti» e «sradicati» della globalizzazione sono soprattutto «i maschi di classe operaia, con bassi livelli di istruzione formale e poche competenze trasferibili», mentre i «vincitori» della mondializzazione devono essere annoverati all’interno della «nuova classe media», un ceto culturalmente cosmopolita, giovanilistico e femminilizzato, i cui appartenenti possono vantare livelli di istruzione medio-alti o alti, solide reti di capitalismo relazionale in grado di facilitarne l’ingresso nell’ambito dei settori professionali “che contano” e spiccata propensione all’integrazione nella network society senza frontiere.
Gli attuali elettori popolari della FPÖ sono dunque ravvisabili in quel ceto operaio «che figurava fra i “maggiori beneficiari dell’età dell’oro” del capitalismo fordista».
Sono dunque gli appartenenti alla classe operaia tradizionale novecentesca, un tempo elettori socialdemocratici, a orientare la propria scelta politica in direzione della FPÖ.
Costoro infatti, «nell’attuale epoca di cambiamenti strutturali» e di ridefinizione delle classi sociali nell’ottica dell’egemonia della cultura neoborghese e delle nuove forme di lavoro flessibile scaturite dai mutamenti sistemici intervenuti con il “cambio di fase” del capitalismo a partire dalla fine degli anni Settanta, sono i ceti sociali maggiormente penalizzati dall’immigrazione dai Paesi dell’Est ed “extraeuropei”, nonché dalla demolizione del Welfare State organizzata dai partiti socialdemocratici e liberalconservatori sistemici segnatamente durante i “ruggenti” anni Novanta del clintonismo, del blairismo e dell’“Ulivo mondiale”.
La precedente “aristocrazia operaia” caratteristica del “trentennio glorioso” del capitalismo relativo europeo (fordista/keynesiano) fu precipitata, dalle politiche di deregulation, di privatizzazione e di internazionalizzazione attuate, in un certo qual senso paradossalmente, da quelli che sino a quel momento erano stati i suoi tradizionali referenti politici (i partiti socialdemocratici filo-Ue e filo-Nato), nel baratro della precarizzazione lavorativa, sociale, politica ed esistenziale.
Pertanto, gli operai tradizionalmente intesi (la classe operaia socialdemocratica, sindacalizzata ed economicistica “realmente esistente”), data la precaria situazione in cui versano, […] costituiscono il gruppo che è più portato a inveire contro il libero commercio e il flusso internazionale dei capitali, e di conseguenza a essere attratto dalla retorica etnocentrica della destra radicale, riflessa in uno degli slogan centrali di questa famiglia politica, quello che porta a considerare il proprio popolo prima d’ogni altra cosa (nel Front National, esso recita Les français d’abord; nel Vlaams Blok,Eigen volk eerst; nella FPÖ, Osterreich zuerst).
L’elettore-tipo della FPӦ, dunque, già alla metà degli anni Novanta era identificabile attraverso queste caratteristiche sociologiche: maschio (alle elezioni del 1995 il 62 per cento degli elettori del Partito della Libertà era composto da uomini e il 38 per cento da donne), operaio (nel 1995 «gli ex elettori socialdemocratici costituivano quasi un quarto dell’intero totale della FPӦ, e gli operai continuavano a occupare la posizione di maggiore singolo gruppo demografico dell’elettorato della FPӦ, come già era accaduto nel 1990») e «in possesso di un’educazione tecnica o professionale.
La FPӦ, che pure annoverava una folta schiera di professionisti e imprenditori tra i suoi elettori (il gruppo dei liberi professionisti e degli imprenditori era infatti secondo solo a quello degli operai tra i soggetti sociali di riferimento del Partito della Libertà), è da sempre sottorappresentata tra le fasce maggiormente istruite e presumibilmente integrate e cosmopolite della classe media austriaca (appena il 16 per cento degli elettori della FPӦ nel 1995 possedeva una laurea).
L’elettorato della FPӦ era pertanto ravvisabile quale frutto di una sorta di alleanza tra determinati settori sociali «vincenti» dei processi di globalizzazione (yuppiedi varia estrazione) e fasce sociali «sconfitte dalla modernizzazione» (precedente “aristocrazia operaia” autoctona, ceti piccolo-borghesi proletarizzati dalle politiche di riduzione dello stato sociale, contadini residenti nelle aree rurali “tradizionali” del Paese).
La FPӦ infatti, vantando i consensi di una parte consistente dell’elettorato “autonomo”, benestante e integrato della provincia austriaca e finanche di Vienna, perseverava a presentarsi e a essere percepita come partito nazional-liberale dello “sciovinismo del benessere” o partito della «destra populista escludente».
La FPӦ è dunque un partito assai diverso dalle, peraltro assai minoritarie, se si esclude (parzialmente) il caso dello Jobbik ungherese, formazioni della destra radicale nazional-socialista o «socialistavӧlkisch» europea, propugnanti un programma di «nazionalismo economico» inconciliabile con il liberal-populismo sciovinistico della FPӦ.
Scrive infatti, divulgando una rassegna di questi partiti «socialistivӧlkisch», Hans-Georg Betz:
Fra i maggiori rappresentanti di questo gruppo ci sono il Partito nazional-democratico tedesco (Nationaldemokratische Partei Deutschlands, NPD) e (per certi versi) l’Unione del popolo tedesco (Deutsche Volksunion, Dvu), il Movimento Sociale Fiamma Tricolore in Italia e il British National Party.
Ciò che li distingue da altri partiti della destra radicale è l’adozione di un programma esplicitamente socialista nazionale (o, forse più appropriatamente, vӧlkisch).
Questi partiti politici, un tempo fieramente schierati su posizioni dogmaticamente anticomuniste e finanche russofobiche, oggi sono sorprendentemente tornati a suscitare l’interesse degli “addetti ai lavori” per via del proprio rapporto privilegiato con determinate correnti politiche nazional-patriottiche del “mondo russo” e si pongono come gli interpreti di un’originale, per quanto prospetticamente limitata e insufficiente, critica “nazionalistica” del capitalismo contemporaneo. Interessante rilevare che, in un frangente storico in cui la sinistra, anche quella solitamente percepita come “alternativa” e “radicale”, ha palesemente utilizzato ogni canale mediatico e politico (dal talk show alle riviste patinate di costume e gossip, fino alla comunicazione elettorale diretta) per sbarazzarsi da ogni precedente identità comunista e anticapitalista (per indossare i più comodi panni di interclassista “movimento dei movimenti” alterglobalista, negriano e cosmopolita), siano stati i partiti della destra radicale nazional-socialista evӧlkisch a farsi portavoce delle istanze di malcontento delle classi popolari per gli effetti perversi delle politiche di globalizzazione sistemica. Scrive infatti, sul tema, Hans-Georg Betz:
Ironicamente, in un mondo nel quale le posizioni teoriche anticapitaliste sono state largamente abbandonate, l’ala nazional-socialista dell’odierna destra radicale è una delle ultime forze politiche che rendono omaggio a richieste cruciali della tradizionale sinistra socialista e comunista, di cui quest’ultima si è ampiamente sbarazzata.
Oggi sono gruppi come il Movimento Sociale Fiamma Tricolore a proclamare che non possono esserci «compromessi con il capitalismo» e ad alzare la voce contro le privatizzazioni, il «mercato selvaggio», la globalizzazione, la disoccupazione di massa e il graduale smantellamento dello Stato sociale.
In effetti, conformemente alla propria vocazione di partito dello “sciovinismo del benessere”, nel momento in cui, tra il 2000 e il 2002, la FPӦ si trovò coinvolta in una coalizione di governo con il centro democristiano (ӦVP), manifestò «una chiara subalternità rispetto ai popolari, soprattutto in politica economica, dove le misure a favore dei ceti medio-bassi latitano».
In politica estera, inoltre, «le posizioni anti-conformiste di Haider, […] basate su un crescente anti-americanismo, non sono apprezzate dalle fasce più conservatrici dell’elettorato; i finanziamenti da parte degli imprenditori decrescono sensibilmente».
Tuttavia, ciò che provoca veramente l’inquietudine delle classi dirigenti sistemiche, politiche e mediatiche, dei Paesi della Ue nei confronti della FPӦ è la nuova svolta, ispirata alla promozione dei valori tradizionali, da parte del partito. In particolare, sotto la supervisione di Andreas Mӧlzer, sin dal 1997 la FPӦ adottò un programma che archiviava il precedente anti-clericalismo liberale «a favore della ricerca di consensi presso l’elettorato cattolico-tradizionalista».
Il nuovo programma culturale della FPӦ esprimeva esplicite critiche alla modernità neoliberale e alla società cosmopolitica, accennando
ai pericoli rappresentati […] dal consumismo nichilista tipico della società contemporanea. Inoltre, il documento tace sui diritti delle donne, enfatizza il ruolo della famiglia e respinge ogni tentativo di equiparare a essa le unioni omosessuali.
In politica internazionale, da ultimo, la FPӦ ha abbracciato una linea marcatamente euroscettica e filorussa.
Già nel 2008 infatti, il Partito della Libertà aveva cominciato a volgere lo sguardo a Oriente, più precisamente alla Serbia, Paese da vari osservatori internazionali considerato «prima vittima del nuovo ordine mondiale» made in Usa.
Nel maggio 2008, la FPӦ siglò un patto di collaborazione politica con il Partito Radicale Serbo (SRS). Il leader della FPӦ, Heinz-Christian Strache, prese parte a una delegazione politica del suo partito presso il SRS, a Belgrado, parlando addirittura a una manifestazione del Partito Radicale Serbo, in Piazza della Repubblica.
Dopo la lacerazione politica intervenuta, nel settembre 2008, all’interno del SRS, la FPӦ ha rinnovato il proprio accordo di collaborazione con la frazione “riformista” e “pro-Ue” sganciatasi dal SRS e costituente, sotto la presidenza dei transfughi neoliberali Tomislav Nikolic e Aleksandar Vucic, il conservatore ed “europeista” SNS (Partito serbo del progresso).
Nel 2016 il leader della FPӦ, Heinz-Christian Strache, definì Vladimir Putin «un democratico puro» e orientò decisamente in direzione di Mosca la direttrice di politica estera del partito.
Di rimando, i media liberali “europeisti” tornarono a sproloquiare riguardo a una fantomatica «Internazionale Nera» pro-Putin e al presidente russo quale «zar dell’estrema destra europea».
Inoltre, la FPӦ sembra aver cominciato a comprendere che l’islam radicale sunnita wahhabita e l’Islam sciita rivoluzionario non siano propriamente la stessa cosa, e ha stabilito contatti con esponenti della Repubblica islamica d’Iran.
La FPӦ, insieme agli altri partiti nazional-populisti europei, viene sistematicamente demonizzata come «fascista» e «razzista» dal mainstream media perché presenta un programma «value-oriented», ossia centrato su quei valori tradizionali che rappresentano «il principale ostacolo alla continua espansione del capitalismo globalizzato».
Infatti, come scrive Jean-Claude Michéa, lungi dal connotarsi quali riferimenti culturali tipici del «ritorno della “bestia immonda”» del fascismo storico novecentesco, i suddetti valori tradizionali «trovano la loro vera origine in quel sentimento naturale di appartenenza che si oppone, per definizione, all’individualismo astratto del liberalismo moderno (perché non c’è dubbio che il liberalismo pienamente sviluppato sia incompatibile con qualunque nozione di confine o di “identità nazionale”)».
Lungi dal configurarsi come esempio dell’eterno “fascismo di ritorno” brandito a mo’ di spauracchio mediatico dal clero universitarioliberal e dalla fitta schiera di strapagati opinionisti di sinistra, i valori tradizionali delle comunità storiche e popolari originarie possono costituire benissimo – una volta ritradotti e riorientati in senso ugualitario e universalistico – il punto di partenza privilegiato del progetto socialista e della sua peculiare cura nel preservare, contro il movimento capitalista di atomizzazione del mondo, le condizioni primarie di ogni esistenza veramente umana e comune.
I valori tradizionali sono compatibili con, e finanche propedeutici al, socialismo originario quale modello di sviluppo comunitario antagonista rispetto allo stato di cose presenti ma si connotano come radicalmente incomponibili con l’«universalismo astratto e benpensante che ha sempre caratterizzato la borghesia di sinistra». Infatti, oggi, il «sistema liberale globalizzato non può crescere e prosperare se non distruggendo progressivamente l’insieme dei valori morali ai quali quel popolo di destra è ancora profondamente – e legittimamente – attaccato».
Soprattutto per questa ragione il capitalismo odierno, «fatto sociale onnicomprensivo», totalità dialettica costituita da momenti anche culturali, auspica la resa dei conti con qualsivoglia ostacolo, sia esso di natura politica (indifferentemente dalla matrice ideologica di destra o di sinistra), culturale, economica o morale, che osi immaginare di frapporsi sulla via del suo dispiegarsi inarrestabile.
Il “circo mediatico” liberal, lo “spirito santo”?
La FPӦ, così come il resto dei partiti nazional-populisti europei, ponendo in essere una critica meramente nazionalistica del capitalismo contemporaneo, non è la soluzione al problema.
Su questo punto, Alain de Benoist ha pronunciato parole molto significative, sostenendo che «il sovranismo non porta da nessuna parte, perché nessuno Stato da solo è in grado di far fronte alle attuali sfide planetarie, a cominciare dal controllo del sistema finanziario».
Tuttavia, la critica sovranista all’Unione europea è condivisibile poiché, nel novero delle logiche neoliberali della Ue transatlantica, «la sovranità che si toglie alle nazioni non è riportata a livello sovranazionale, ma sparisce in una sorta di buco nero».
Il buco nero della tecnocrazia, del dominio dei mercati finanziari privati internazionali e dell’egemonia culturale cosmopolitica.
Dinnanzi a questo scivolamento della sovranità nazionale nel baratro del cosmopolitismo, sempre secondo de Benoist, «è abbastanza naturale essere tentati a ripiegare sullo Stato-nazione».
Eppure, se davvero si vuole costruire un’alternativa continentale, imperiale ma non imperialistica, al dominio geopolitico, economico, militare e culturale a stelle e strisce, la soluzione non può consistere nel ripiegamento sciovinistico dell’Europa delle “piccole patrie” (inevitabilmente soggette a influenze strategiche esterne) bensì nel varo di quello che Gérard Dussouy ha definito «patriottismo paneuropeo», tradizionale e originario (ossia profondo, radicale), finalizzato alla costruzione dello Stato europeo contro la sedicente Ue di Bruxelles. Alain de Benoist dimostra di condividere l’approccio di Dussouy, nel momento in cui fa suo il motto «Per l’Europa, contro Bruxelles».
Tuttavia, e al netto delle considerazioni di cui sopra, è necessario affermare che la FPӦ e i partiti nazional-populisti europei, pur annoverando nell’ambito della propria proposta politico-programmatica e culturale i limiti summenzionati, e pur perseverando a collocarsi nel novero della vulgata huntingtoniana in materia di relazioni internazionali e liberistica in economia, si connotano come infinitamente migliori rispetto al “circo mediatico” liberal e “progressista” impegnato nella loro costante e strumentale demonizzazione a mezzo tv e stampa. Il “circo mediatico” progressista è infatti compattamente schierato contro qualsivoglia baluardo antagonistico e tradizionale (katechon) all’ordine cosmopolitico costituito.
Le stesse elezioni politiche pluripartitiche e pubblicitarie, nei Paesi occidentali a sistema “democratico liberale” (sistema dell’“alternanza unica” tra partiti liberali di centrodestra e partiti liberali di centrosinistra sistemici) sono il mezzo attraverso cui l’oligarchia cosmopolitica internazionale (Global classfinanziarizzata) impone, per tramite della pervasiva e performativa azione di diversione propagandistica attuata dalla propria “guardia bianca”, ossia il “circo mediatico” unificato (ossia, gli strati superiori della new global middle class), la perpetuazione sine die dello stato di cose (neoliberali) presenti. La stampa liberal e radical-chic combatteva all’unisono una battaglia politica “anti-populisti” in nome della perpetuazione e della radicalizzazione, in ambito economico, politico e culturale, del citato “stato di cose presenti”. Sula Repubblica, non a caso, Ezio Mauro stigmatizzava il nazional-conservatorismo del premier ungherese Viktor Orbán, reo di aver proclamato il «fallimento del liberalismo».
Mauro si doleva che, in Gran Bretagna, la campagna elettorale per la Brexit fosse appoggiata dal conservatore Boris Johnson, «sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra».
Per Ezio Mauro infatti, la cultura politica conservatrice non avrebbe dovuto opporsi al cosmopolitismo e al liberalismo di sinistra ma si sarebbe dovuta limitare a ritardarne gli effetti di accelerazione dei processi di flessibilizzazione integrale delle masse. Mauro, aperto sostenitore della rimozione del katechon, affermò infatti:
Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del “vero conservatore”, come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni.
Secondo Mauro dunque, la cultura conservatrice avrebbe dovuto rompere definitivamente con la Tradizione, con il katechon, e aderire al complesso di riferimenti cosmopolitici caratteristici del liberalismo progressista, storicista, neoborghese.
Proprio in questo senso andava esplicandosi il vero e proprio nocciolo della critica rivolta da Mauro ai partiti nazional-populisti europei, e in particolare alla FPӦ, ossia quella di voler stringere «amicizia con Putin», un soggetto politico percepito, dai liberal di ogni sorta, quale principale oppositore geopolitico e culturale del processo di americanizzazione conformistica e antitradizionale del mondo. Ezio Mauro infatti non si scagliava soltanto contro i populisti di destra, come la FPӦ, ma anche contro quelli di sinistra, tra cui il presidente della Repubblica ceca, il socialdemocratico Milos Zeman, sprezzantemente definito, dall’editorialista de la Repubblica, «xenofobo» e, si badi bene, «russofilo».
Sulla stessa linea interpretativa de la Repubblica si connotava il quotidiano “comunista”il manifesto, nel momento in cui, denunciando esplicitamente la filosofia politica di Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, una filosofia che «indica l’orizzonte del blocco eurasiatico e la tradizione anticosmopolitica di Mosca come direzione di marcia», condannava senz’appello «i ripetuti interventi di Salvini a favore di Putin e le bandiere russe in tutte le piazze leghiste».
La sinistra liberal e radical-chic, ossia il “circo mediatico” politicamente corretto, despecifica strumentalmente i nazional-populisti al rango di «omofobi» (parola, quest’ultima, che non ha alcuna valenza letterale, significando semplicemente «paura dell’uguale»), «maschilisti» e «trogloditi» e promuove manifestazioni di femministe appartenenti ai ceti danarosi e integrati per ribadire la propria vocazione a soggetto politico e mediatico di riferimento del ceto medio semicolto (knowledge class), ovvero del principale sostenitore sociologico dei processi di internazionalizzazione e privatizzazione dei rapporti socio-politici vigenti.
Gli esempi, in tal senso, si sprecano e vale la pena riportarne un paio.
Nella prefazione a un noto libro dedicato al “fenomeno leghista”, il telegiornalista liberaldemocratico e cosmopolita Gad Lerner denuncia la diffusione del leghismo come nuova ideologia conservatrice; capace di entrare in sintonia con le pulsioni reazionarie che si perpetuano da secoli nella società di un’Italia settentrionale guelfa profondamente segnata dalla Controriforma, e refrattaria all’autorità statale.
Chi per gioco si fa immortalare al raduno di Pontida indossando barbarici copricapo con le corna d’ispirazione celtica nella vita di tutti i giorni si fa portatore di stereotipi comunitari retrivi.
La Lega ha fornito rappresentanza politica a pulsioni antimeridionali e xenofobe, ha legittimato un revival paganeggiante del tradizionalismo cattolico anticonciliare, coltiva al proprio interno il revanscismo delle piccole patrie […].
Sembrava uno scherzo e invece … […]
E’ obbligatorio sottostare allo scherzo se si vuole far parte del gruppo; così com’è necessario autocensurare repliche sbigottite nel caso del fraseggio volgare o razzista.
A sua volta, l’antropologa Lynda Dematteo, per sottolineare la dimensione “gretta” e “retriva” in cui si sarebbe accovacciato lo stereotipo del militante leghista di provincia sottolinea che «i celibi sono numerosi nei ranghi leghisti, i militanti sono conosciuti come “quelli che non riescono a trovare la ragazza”».
L’argomentazione della Dematteo implicitamente rimandava a un presunto confronto tra due rappresentazioni sociologiche tra esse inconciliabili, ovvero:
-
un microcosmo populistico maschile “tradizionalista”, “arretrato”, “chiuso” e “gretto”;
-
un macrocosmo cosmopolitico femminile “creativo” “avanzato”, “aperto” e dunque totalmente indisponibile al confronto con coloro i quali si venissero a porre nella condizione di contraddirne o metterne in discussione i citati postulati culturali (open mind) di riferimento.
Infatti, per l’antropologa Lynda Dematteo (una ragazza appartenente alla famigerata Erasmus Generation) era assolutamente incomprensibile il nominale rifiuto leghista nei confronti della globalizzazione e del cosmopolitismo individualistico.
La retorica ambizione leghista concernente il porsi in contraddizione con gli stereotipi culturali liberali caratteristici del mondo globalizzato in chiave americanocentrica era sinonimo di appartenenza a una cultura politica che Lynda Dematteo stigmatizzava proprio perché faticava a comprendere.
Scrive infatti la citata antropologa:
Il leader del Carroccio [Umberto Bossi] vede nella globalizzazione un processo distruttore e totalitario.
L’omologazione dei bisogni presuppone l’omologazione degli uomini, la globalizzazione passa per la “società multirazziale di Benetton e McDonald’s”.
Bossi ha una visione catastrofica del futuro – i popoli saranno sacrificati al profitto – e insorge contro il modello del “cosmopolitismo individualista” che mette in concorrenza i lavoratori del mondo intero a svantaggio degli europei […].
Attraverso queste operazioni che spostano l’antirazzismo e l’antitotalitarismo dall’alveo della sinistra a quello della destra, i dirigenti della Lega Nord riutilizzano a proprio vantaggio le argomentazioni della nuova destra francese degli anni settanta.
Da allora, i militanti di estrema destra si pongono come rappresentanti di un’etnia minacciata […].
Il razzismo avanza ormai sotto la maschera dell’elogio della differenza.
Secondo la semplicistica e interessatamente pubblicitaria interpretazione del “circo mediatico” sostenitore a oltranza della globalizzazione come moto storico di progresso capitalistico e universalistico “emancipatore” dell’umanità dai precedenti vincoli “patriarcali”, “conservatori” e “comunitari”, «i patrioti che si oppongono alla distruzione del proprio popolo» sotto i colpi dell’omologazione cosmopolitica non possono risultare che degli “estremisti di destra”.
Il femminismo modaiolo e individualista dei ceti ricchi è, significativamente, tra i principali fattori di legittimazione culturale dell’odierno capitalismo assoluto ed è un ingranaggio fondamentale, quanto fondamentalista nel proprio dogmatico fideismo “nuovista”, per l’ulteriore radicalizzazione dei processi di adeguamento dell’odierna postsocietà agli stili di vita e ai desideri di consumo immediato veicolati dal “circo mediatico” postmoderno.
Studiosi assai seri, come Nancy Fraser e Charles Robin, hanno perfettamente compreso queste dinamiche e sono arrivati a conclusioni pienamente ragionevoli, argomentate e, almeno a opinione di chi scrive, condivisibili.
Nancy Fraser sostiene infatti che «il movimento delle donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi festeggia le imprenditrici».
Secondo la Fraser, la critica femministica al capitalismo fordista keynesiano (1945-1975) «è diventata ancella del capitalismo contemporaneo».
In altri termini, la critica posta in essere dal movimento femminista al capitalismo relativo europeo è stata integralmente assorbita nel, e si è saldata con, il capitalismo avanzato di “terza fase”, o di “terza età”, un capitalismo «“disorganizzato”, globalizzato e neoliberista» perfettamente compatibile con «la critica al paternalismo dello stato sociale» urlato a squarciagola nei propri raduni dalle femministe negli anni Settanta.
E’ in questo senso infatti che «la svolta femminista verso una politica identitaria si è alleata fin troppo strettamente con un neoliberismo in crescita», determinando il successo dell’impostazione «liberista-individualista» del femminismo e la conseguente sconfitta del versante “solidaristico” e “antagonistico” di detto movimento.
Paradossalmente ma non troppo, oggi, la critica femministica al capitalismo fordista/keynesiano e al modello patriarcale di società «aiuta a legittimare il “capitalismo flessibile”».
Il femminismo come critica artistica e “creativa” al capitalismo antitetico/dialettico novecentesco, in definitiva, si è caratterizzato come un movimento ampiamente ambiguo perché «ha promesso nuove forme di liberalismo, in grado di garantire alle donne, così come agli uomini, i “beni” dell’autonomia individuale, un ampliamento delle scelte , l’avanzamento meritocratico» ma, lungi dal porre le basi per la formulazione di una progettualità politica “altra” rispetto allo stato di cose presenti, non ha fatto che radicalizzare, in senso ultracapitalistico, individualistico e postmoderno, il precedente stato di cose presenti (capitalistico, a direzione borghese ma mitigato e mediato da consistenti “iniezioni” di sindacalismo socialdemocratico “piccista”).
Nancy Fraser ha perfettamente ragione quando afferma che le femministe hanno «direttamente contribuito a far raggiungere al capitalismo questo stadio di sviluppo» accelerato e senza futuro, di eterno presente consumistico, alienante, sfruttatore e narcisistico.
La critica femministica del capitalismo è stata, insomma, una critica cosmopolitica del capitalismo di Stato (assistenziale e paternalistico) europeo novecentesco, unita a una lamentosa critica socialdemocratica attuata dalle femministe nei confronti degli squilibri nella redistribuzione delle ricchezze e del reddito prodotti dalle dinamiche del capitalismo antitetico/dialettico (fordista/keynesiano).
Nei fatti, come del resto i loro sodali sessantottini, le femministe criticavano le ipocrisie sessuali borghesi tipiche della società dicotomica degli anni Sessanta-Settanta in nome di una liberalizzazione integrale (o modernizzazione ultraliberale postborghese) dei costumi e peroravano una integrazione socialdemocratica di genere, attraverso la leva redistributiva di reddito e ricchezze, nell’ambito della nascente e arrembante società radicale dei consumi liberi di massa. In altri termini, le femministe volevano, per se stesse, in un’ottica progressivamente orientata all’individualismo antiborghese e anticomunitario quanto profondamente liberale, liberista e libertario, “il pane ma anche le rose”.
La critica femministica del capitalismo, per dirla con Nancy Fraser, «si è risolta a favore di un (neo)individualismo liberista» e in un elogio del «progresso individuale», ossia del progresso capitalistico della Storia.
Oggi, per esempio, persino la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, viene considerata dal “circo mediatico” liberal un esempio di “successo politico” del femminismo come movimento a favore dell’integrazione delle donne (indipendentemente dalla loro estrazione sociale e di censo) nell’ambito del sistema di relazioni socio-politiche promosso dal capitalismo speculativo. Scrive infatti, in merito, Nancy Fraser:
Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo.
Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica.
Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne.
Come ho avuto modo di scrivere ne L’immagine sinistra della globalizzazione, «discorso analogo vale per gli estemporanei raduni di femministe “indignate” (Se non ora quando), appartenenti in larga parte ai ceti benestanti delle città settentrionali, che nel 2011 belavano ostensivamente contro il sistema berlusconiano di gestione delle relazioni uomo-donna (improntate a criteri di mercificazione e di acquisizione), in nome di una piattaforma orientata al femminismo elitario, cosmopolita eglamour.
Le femministe ipocritamente “indignate” del 2011 “sputavano su Berlusconi” e su Putin credendo di porsi in tal modo come avanguardie di un movimento di liberazione di genere, mentre non predicavano che una liberalizzazione narcisistica dei costumi sessuali sul modello del loro “romanzo preferito”, Cinquanta sfumature di grigio, esattamente come le femministe “storiche” negli anni Settanta “sputavano su Hegel” (il pensatore in assoluto più incompatibile con il capitalismo e per questa ragione demonizzato come “autoritario” e “conservatore” dai liberali di sinistra à laBobbio e dalle femministe di vecchio conio) rivendicando un’aperta modernizzazione, o liberalizzazione, in chiave postmoderna e individualistica, dei costumi borghesi.
Quella delle femministe “indignate” e “in carriera” di Se non ora quando non era altro che la più palese e inequivocabile manifestazione di adeguamento conformistico e politically correct dei ceti medi contemporanei, declinati a sinistra e al femminile, ai codici di comportamento di una società totalmente liberalizzata, volgarmente disinibita, tribalizzata e atomizzata su basi di consumo e desiderio compulsivi e individualistici, nonché priva di ogni residuo pudore psicologico e identitario collettivo».
In altri termini, le femministe che, nel febbraio 2011, domandavano “indignate” la testa del “puttaniere” Berlusconi (reo di «non rispettare le donne»), nel novembre dello stesso anno accolsero con sollievo il golpe dei mercati che detronizzò il Cavaliere di Arcore insediando al suo posto il «grigiocrate» Mario Monti.
Quest’ultimo infatti, pur varando, per conto della troika capitalistica di Washington-Bruxelles, controriforme neoliberali che posticipavano in sempiterno l’età pensionistica (maschile e femminile), veniva apprezzato dalle femministe neoborghesi elettrici del PD in quanto, diversamente dal precedente “puttaniere” (che per varie ragioni non s’era azzardato a toccare il welfare pensionistico nostrano), percepito mediaticamente come “gentiluomo rispettoso delle donne”.
Non sorprende dunque, alla luce delle considerazioni di cui sopra, che il femminismo cosmopolitico e modaiolo postmoderno sia la protesi culturale su cui si imposta l’odierna critica “democratica” attuata dal “circo mediatico” liberal nei confronti dei partiti e movimenti cosiddetti “populisti euroscettici” e “filorussi” dei Paesi della Ue.
Nell’Europa postcontemporanea, affermano gli stessi aedi del cosmopolitismo liberale, «la destra è più per famiglia e religione, la sinistra più per modernizzazione e piacere della vita […].
L’Europa ha di fatto accettato l’americanizzazione».
L’americanizzazione giunse in Italia sull’onda del boom consumistico postbellico, in particolar modo attraverso la diffusione del medium tv commerciale, pubblica e privata.
Nel 1957 il giornalista statunitense Vance Packard si accorse che la tv era lo strumento attraverso cui, per tramite della pubblicità, le aziende private intendevano vendere i loro prodotti al numero più ampio possibile di utenti-consumatori.
Negli anni Ottanta del XX secolo, in Italia, attraverso le «telerisse» del talk show televisivo quale veicolo di normalizzazione conformistica e di stratificazione neomoltitudinaria del pubblico-consumatore-di-immagini (il popolo regredito al rango di “gente”, indistinta per ceto sociale di appartenenza), l’americanizzazione conobbe un processo di ulteriore radicalizzazione.
Il talk show infatti, «dove le opinioni, anche le più scardinate, sbaragliano la concretezza dei fatti», è il mallevadore del passaggio dalla democrazia borghese “dei partiti” strutturata attorno all’egemonia culturale democristiana alla democrazia postborghese (dis)articolata attorno all’egemonia della tv commerciale.
Il talk show infatti, nelle sue forme evolutive («puro, impuro e ibrido»), ha il chiaro scopo (esattamente come la pubblicità) di vendere un prodotto a un’utenza diversificata a seconda del format in questione.
Sostanzialmente, il prodotto venduto dal talk show al pubblico è la democrazia contemporanea (o postdemocrazia) come “migliore dei mondi possibili” o comunque come “impero del meno peggio” (per citare Jean-Claude Michéa).
Utilizzando ilformat del talk show infatti, il “circo mediatico” persegue l’obiettivo dell’americanizzazione del pubblico attraverso l’apologia, diretta o indiretta, del capitalismo contemporaneo, della postsocietà liquida e della free market democracy. Il talk show è il veicolo di legittimazione dell’esistente attraverso la costante riproposizione (e attualizzazione) politico-pubblicitaria della dicotomia sinistra/destra.
Il talk show ha la funzione di legittimare l’esistente attraverso la demonizzazione di qualsivoglia antagonismo allo stato di cose presenti. Inoltre, il talk show è propedeutico a «scandalizzare i borghesi» costruendo il nemico di turno dell’odierna società liberale e il conflitto tra commedianti della politica, del giornalismo e della “società civile” reclutati ad hoc, attorno a tematiche sensazionalistiche adatte più che altro a “catturare” e fidelizzare l’audience di un pubblico generalista abituato a intendere la politica come una sorta di rovesciamento, nel salotto televisivo del momento, del tifo calcistico da stadio.
Ne L’immagine sinistra della globalizzazione ho infatti scritto, quale sorta di esempio paradigmatico della «politica pop» legittimata e veicolata attraverso il salotto televisivo postmoderno del talk show: «Anche il cosiddetto, e pur sempre indimostrabile perché inesistente, “razzismo antimmigrati” della Lega, rientrava a pieno titolo nel discorso spettacolistico e televisivo del Carroccio, quale populistico collettore identitario teso a riaffermare una non meglio precisata purezza ideologica e programmatica di un movimento da sempre autorappresentatosi come “anti-sistemico” nonostante la propria collocazione per anni a pieno titolo fermamente interna alle logiche di compatibilità euroatlantiche e al Politicamente Corretto declinato a destra.
Naturalmente, il “razzismo antimmigrati” della Lega era un validissimo siero politico che, laddove inoculato con attenzione e nelle sedi televisive opportune, poteva suscitare l’effetto di “scandalizzare i borghesi” (épater le bourgeois) spettatori dei talk show patinati di Santoro, Floris, Giannini, Giulia Innocenzi e compagnia cantante.
I detti borghesi semicolti, indignati dalle “tirate” populistiche della Lega in tema di immigrazione e “diritti civili” dovevano pertanto essere “rassicurati” da qualcuno…
Questo “qualcuno” non poteva che essere il gruppo sociale degli intellettuali di sinistra (dagli editorialisti de la Repubblica a Vauro de il manifesto) pronti a tacciare di “fascismo” e “razzismo” il Salvini di turno.
Va da sé che il circo italiota della politica spettacolo, di cui la Lega e il manifesto erano entrambi soggetti parte integrante (l’una nella versione del “poliziotto cattivo”, ossia il partito “populista e razzista”, l’altro in quella del “poliziotto buono”, ossia il quotidiano “comunista/cosmopolita”), si apre e si chiude attorno a una chiacchiera televisiva (round table) utile soltanto a procrastinare a tempo indeterminato l’internità della Lega al ceto politico sistemico (un’internità assai vantaggiosa per i suoi dirigenti) e il processo di autolegittimazione e di autoapologia degli intellettuali di sinistra (il gruppo sociale più conformista del mondo, un gruppo sociale talmente dominato, cooptato e incorporato che al cui confronto «i tassisti, le prostitute, i gangster sono degli originali, […] degli avanguardisti». C. Preve, Presentazione di Minima mercatalia [Bompiani] di Diego Fusaro: intervento di Costanzo Preve, inhttps://www.youtube.com/watch?v=2C0AC-ZEboA, 16 aprile 2012) quali “baluardo democratico” e “coscienza antifascista” del Paese contro qualsivoglia tentazione “autoritaria”, “populistica”, “anti-Ue”, “anti-euro”, “anti-Nato” e così via».
Preso atto di queste considerazioni, occorre affermare, senza reticenze, che il “circo mediatico” politically correct e femminilizzato rappresenta, attraverso la perpetuazione a oltranza della simulazione politica sinistra/destra e mediante l’operazione di autoapologia posta in essere dagli intellettuali che ne formano gli agenti culturali di riferimento, il principale vettore di legittimazione sistemica dell’odierno modello di alienazione sentimentalistica, sfruttamento neocoloniale e depsicologizzazione conformistica di massa incarnato dal capitalismo americano contemporaneo.
E’ dunque oltremodo chiaro che il “circo mediatico” politically correct ha utilizzato, utilizza e utilizzerà ogni mezzo a sua disposizione per demonizzare, attraverso la sistematica reductio ad hitlerum, qualsivoglia antagonismo effettivamente pericoloso per le sorti del progetto coloniale transatlantico altresì detto Unione europea.
Per il “circo mediatico” liberal infatti, l’idea stessa di “nazione”, di comunità storica tradizionale, di “patria reale” rappresenta il nemico principale in quantotout court identificata con «un concetto che […] sconfisse l’internazionalismo proletario e le aspirazioni cosmopolitiche della borghesia e generò il fascismo».
Considerazioni conclusive
Ovviamente, come il lettore avrà certamente intuito una volta arrivato a questo punto, la FPӦ e i partiti “populisti” euroscettici non incarnano il “diavolo postmoderno” così come il “circo mediatico” liberal è tutto fuorché lo “spirito santo” dei giorni nostri.
La FPӦ è il partito di riferimento di parecchi «marginali» (operai tradizionali, disoccupati, piccolo-borghesi in via di proletarizzazione incipiente, valligiani carinziani, ecc.) e di non pochi «vincenti» (yuppie, liberi professionisti viennesi, imprenditori “rampanti”, ecc.) dei processi di globalizzazione, postisi in singolare alleanza contro le politiche open mind e open frontiers della sinistra e dei democristiani.
La FPӦ è inoltre un partito nazional-populista (e liberal-nazionale) che tende ad attribuire rilevanza ai valori tradizionali della cultura cattolica declinata in chiave popolare e identitaria, e per questa ragione è stigmatizzata quale possibile katechon da rimuovere a ogni costo e con ogni mezzo dagli aedi del cosmopolitismo individualistico come orizzonte destinalistico della futura umanità unificata all’insegna del libero desiderio consumistico.
La FPӦ è il partito in testa a tutti i sondaggi per le prossime elezioni parlamentari austriache.
Stando ai risultati di un rilevamento demoscopico del 9 aprile 2016, la FPӦ vincerebbe le elezioni in Austria con il 32 per cento dei voti, davanti ai democristiani e ai socialdemocratici, fermi al 22 per cento a testa.
Tuttavia, l’avanzamento elettorale della FPӦ in Austria e dei partiti nazional-patriottici in Serbia (alle elezioni del 24 aprile 2016 infatti, il Partito Radicale Serbo, SRS, l’unica forza politica nazionale che all’epoca della guerra della Nato contro la Libia scese nelle strade per protesta contro l’intervento armato occidentale mostrando striscioni con la scritta People of Serbia against Globalization, ottenne l’8,1 per cento dei consensi e la coalizione Blocco patriottico DSS-DVERI, altrettanto ostile alla Nato e alla Ue, raccolse il 5 per cento) non è sufficiente per costruire un vero e proprio movimento di liberazione anticoloniale a livello europeo. Infatti, per giungere alla definitiva liberazione dell’Europa dall’americanizzazione che la rende schiava, quella offerta dai nazional-populismi non è una soluzione praticabile.
Per liberare l’Europa dalle catene del colonialismo americanocentrico è necessario muoversi nella direzione per eccellenza e all’unanimità aborrita dall’intellighenzia di sinistra, ovvero quella di un «patriottismo paneuropeo» antisciovinistico ed eurasiatista, tradizionalista nella cultura, popolar-conservatore nella politica e socialista delle origini in economia, che sappia dare concretezza alla «visione di un’Europa imperiale come unica via contro l’omologazione mercantile, spiegando come “solo l’appartenenza posta come principio consente di difendere la causa dei popoli” e di proteggere “le nostre rispettive identità contro il sistema globale”».