2011.12.02 – GHEDDAFI GIUSTIZIATO SENZA PROCESSO: TUTTO COME PREVISTO


Scritto il 21/10/11

Quello che resta di quarant’anni di potere è un corpo, ferito e rivoltato nella polvere: Muhammar Gheddafi macellato sul posto, il 20 ottobre, lungo la strada tra Sirte e Misurata, dopo un raid Nato che ha probabilmente messo in fuga il dittatore, costringendolo a lasciare l’ultima roccaforte dopo quasi otto mesi di resistenza.
Facendo il verso alle didascalie con cui tutti i media hanno presentato il tremendo video di Al-Jazeera sugli ultimi istanti del Colonnello, il sito “Megachip” avverte: “Attenzione, segue una serie di immagini shock su Gheddafi che possono urtare la vostra suscettibilità”.
La drammatica sequenza che il 20 ottobre ha fatto il giro del mondo – il dittatore ferito e insanguinato, strattonato dai miliziani e poi giustiziato – ricorda le immagini di piazzale Loreto, la fine di Mussolini: fino all’ultimo, la sorte del leader libico richiama ancora una volta l’Italia, già padrona della Libia e sterminatrice coloniale della resistenza araba, della cui memoria lo stesso Gheddafi nutrì la propria mitologia personale: dalla devastazione dei cimiteri italiani fino alla foto dell’eroe nazionale Omar Al-Mukhtar appuntata sul petto durante la prima, storica visita a Roma, sotto la protezione dell’amico fraterno Silvio Berlusconi, dopo che nel 1987 un altro premier italiano, Bettino Craxi, aveva salvato la vita al Colonnello permettendogli di sfuggire al sanguinoso raid aereo su Tripoli ordinato da Ronald Reagan.
Dopo il lancio di due missili Scud finiti nel mare davanti a Lampedusa, al selvaggio bombardamento americano sulla capitale libica (che fece strage di civili) Gheddafi reagì con analoga azione terroristica, facendo esplodere in volo l’aereo di linea precipitato a Lockerbie in Scozia: episodio che gli costò un embargo infinito, interrotto poi da Bush che nel 2003 lo arruolò tra gli alleati della “guerra al terrorismo” di Al Qaeda, convinto che il Colonnello si sarebbe rassegnato a porre anche la Libia sotto il controllo militare americano attraverso il network strategico che oggi si chiama Africom.
Proprio il rifiuto di Gheddafi a sottomettersi fino ad entrare nei ranghi della “Nato africana” avrebbe provocato l’ultima, fatale crisi, risolta oggi dalla Nato atlantica, nuova padrona della Libia. 
Come Mussolini, Gheddafi il 20 ottobre 2011 sarebbe stato raggiunto durante la fuga e ferito nel corso della cattura, scrive Christian Elia su “PeaceReporter”: «Avrebbe implorato pietà, morendo poco dopo per le ferite riportate.
E sollevando insorti e alleati Nato dalla gestione di un prigioniero scomodo, che avrebbe fatto del Tribunale Penale Internazionale dell’Aja che lo attendeva una tribuna politica molto scomoda per tutti coloro che in questi quarant’anni lo hanno sostenuto e finanziato», in prima linea le potenze occidentali, per conto delle quali Gheddafi ha combattuto guerre sanguinose.
Il Colonnello è anche accusato di aver organizzato con la Francia e la Cia l’omicidio di Thomas Sankara, il temibile leader rivoluzionario del Burkina Faso che, dalla conferenza panafricana di Addis Abeba nel 1987, aveva avvertito l’Occidente: l’Africa è stanca di essere sfruttata e non pagherà più il debito-capestro contratto con la finanza internazionale.
«Gheddafi è morto, dunque – scrive Elia – ma sono tante le questioni che la sua scomparsa non risolve, in primo luogo quello della guerra nel Paese nord africano».
La più semplice interpretazione, aggiunge “PeaceReporter”, sarebbe quella di immaginare un pugno di lealisti, irriducibili e fedeli fino alla morte al Colonnello, che adesso deporranno le armi.
«Non è così.
Le tribù di Sirte, città natale di Gheddafi, non sono state fedeli tanto alla persona del Colonnello, quanto al potere che per mezzo di lui hanno esercitato per anni».
Grazie ai proventi del petrolio «come un bancomat», migliaia di notabili «hanno cogestito il potere con il Colonnello e hanno combattuto, e combatteranno ancora, per difendere la loro vita.
Non è prevista, nella Libia di oggi, una via di mezzo.
Chi vince non farà prigionieri e chi perde non si aspetta un finale differente dalla lotta fino all’ultimo sangue».
Difficile stabilire quanto tutto questo possa andare avanti: le riserve di denaro contante e di armi che Gheddafi ha portato con sé a Sirte non sono quantificabili.
Di sicuro si chiude la fase ufficiale del conflitto, ma le divisioni tra gli insorti si riveleranno in tutta la loro complessità, avverte ancora Elia: «Un esempio è proprio il fatto che il corpo del raìs viene portato a Misurata, città martire di questo conflitto.
I suoi combattenti si sono guadagnati un posto di rilievo in questa rivoluzione e non hanno alcuna voglia di cedere il passo – senza una succosa contropartita di potere – al gruppo di potere di Bengasi.
Il tutto condito dalla presenza di armi ovunque, nel Paese».
Altro aspetto che la morte di Gheddafi non chiarisce: il ruolo della rivolta in Libia all’interno della “primavera araba”.
«Sarebbe un grave errore ritenere quello che è accaduto in Libia simile alle rivolte popolari in Egitto e Tunisia», scrive “PeaceReporter”: «Mubarak e Ben Alì non sarebbero mai finiti come Gheddafi, per il semplice motivo che i movimenti egiziani e tunisini sono legati al ruolo svolto dalla forze armate.
Che, ritenuti ormai indifendibili i dittatori, di fronte alla pressione popolare spontanea e appoggiata dall’estero, li hanno messi da parte.
Nessuno, però, avrebbe accettato che Mubarak e Ben Alì finissero così».
La guerra in Libia, invece, «dal primo momento, è stata una guerra decisa altrove».
Una guerra «finanziata attraverso la fornitura di armi ai ribelli, preparata con l’acquisto del voltafaccia di una serie di ex sodali di Gheddafi».
E quando il Colonnello, «faticosamente rientrato nel novero degli amici dell’Occidente, ha ancora una volta cambiato opinione rispetto ai rapporti con Europa e Nord America, è stato deposto».
Gheddafi l’aveva promesso: il più longevo leader arabo della storia non sarebbe mai scappato.
E infatti è stato preso, armi in pugno, nella città dov’era nato nel 1942.
Figlio di beduini, cresciuto nel mito panarabista dell’egiziano Nasser, fu allevato dall’esercito britannico e rientrò in Libia nel 1966 come ufficiale.
Tre anni dopo guidò il golpe anti-occidentale che portò alla caduta della monarchia e riaprì il contenzioso con l’Italia, fino ad ottenere il recente, storico maxi-indennizzo per i danni coloniali.
Finanziatore dell’Olp di Yasser Arafat, la sua ideologia anti-israeliana e anti-americana lo portò a sostenere gruppi terroristici, dall’Ira irlandese al Settembre Nero palestinese.
Negli anni ‘90 condannò l’invasione dell’Iraq ai danni del Kuwait, ma poi si oppose alla guerra contro Saddam.
Recente il suo riavvicinamento problematico all’Occidente, favorito dall’Italia con cui Gheddafi ha sempre intrecciato relazioni strategiche, dalla cessione privilegiata del petrolio all’Eni all’ingresso del capitale libico nella Fiat.
«Oggi inizia la nuova Libia?», si domanda Christian Elia.
«No, oggi potrebbe essere il giorno nel quale nasce la Libia, che fino a oggi non è mai esistita.
Una colonia per secoli, dagli antichi romani ai turchi, fino alla conquista degli italiani.
Un gruppo di tribù senza legami, uniti a forza sotto una bandiera.
Poi la guerra e la monarchia fantoccio, rovesciata dal golpe di Gheddafi nel 1969.
Ecco che per la prima volta il popolo che abita quella terra, senza una società civile (altro elemento di fondamentale differenza da Egitto e Tunisia) dovrà essere capace di gestire il proprio futuro.
Come insegnano l’Iraq e l’Afghanistan, però, l’aiuto occidentale non è mai a costo zero», aggiunge “PeaceReporter”.
«Proprio nei giorni che hanno preceduto la morte di Gheddafi, senza che se ne parlasse troppo, il Cnt si è diviso e infiammato in una polemica rovente, sulla questione dei contractors.
Veniva chiesto loro, infatti, di ratificare accordi con le compagnie di sicurezza privata, ma alcuni esponenti del Cnt hanno rifiutato.
Gesto interessante, ma che rende l’idea di come la Nato va via per lasciare il posto a una serie di interessi che adesso sono tutti da valutare».
Resta un rapporto speciale con l’Italia: dall’espulsione degli ex coloni italiani nel 1970 al ruolo (passivo) nella strage di Ustica, fino ai migranti usati come un’arma, per volontà di un ferreo regime autocratico che non ha esitato a sterminare oppositori inermi senza per questo imbarazzare i partner italiani, interessati più che altro ai «patti di amicizia firmati da governi di centrodestra e centrosinistra, senza differenze e senza dignità».
“Sic transit gloria mundi”, ha commentato Berlusconi, interrogato sulla morte del vecchio amico.
«Purtroppo, oltre alla gloria, in Italia passa in fretta anche la memoria», conclude Christian Elia.
E i dubbi di “PeaceReporter” diventano certezze nell’analisi che Giulietto Chiesa affida allo spazio web di “Megachip”: «L’Impero non perdona. Crea i diavoli e poi li uccide, inesorabilmente. Chi disobbedisce, chi si oppone, chi semplicemente si trova nel crocevia sbagliato – a prescindere dalle sue colpe – deve essere punito».
Ex Jugoslavia, Iraq, Afghanistan e Libia: «A chi tocca un processo, a chi un linciaggio, a chi tocca semplicemente di sparire.
La nostra epoca attuale – epoca che precede una nuova guerra, che minaccia di essere grande e terribile, più delle precedenti – è puntellata di dittatori da eliminare.
Prima di liquidarli – aggiunge Chiesa – li si trasforma in mostri, secondo la neolingua dell’Impero: satana, hitler, affinché le folle impaurite applaudano, liberate per un attimo dal terrore.
Che però un attimo dopo viene ricreato, per non dare tregua alla paura, perché i consumatori possano tornare, inquieti ma sazi, a comprare nella discarica in cui vivono».
E’ toccato a Slobodan Milošević, poi a Saddam Hussein, poi a Osama bin Laden, adesso a Muhammar Gheddafi.
«Morti diverse, significato unico: chi osa resistere sarà annientato.
Non c’è eccezione a questa regola.
È la regola non degli imperi che nascono, ma di quelli che muoiono».