2013.09.01 – CHI… QUANTI… PERCHE’… (?) – IL MLNV CHE HA SFIDATO L’ELISEO NON E’ LA LEGA E NON SI IDENTIFICA CON I VENETISTI E I SERENISSIMI.

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di Mario Corato


Antonio Albanese in “Tutto tutto niente niente” fa la caricatura del venetista farfuglione che addestra un’armata brancaleone di negri e nasconde blindati raffazzonati e adopera gli stessi “mercenari” al restauro del suo residence, occultando, di quello che credeva cadavere, il corpo di un infortunato stracomunitario in laguna.

Sberleffi di un arrivato, ignorante su un problema scottante, superficiale, calunnioso, inverecondo.

Il problema veneto e forse non solo veneto ha radici lontane.

Dino Coltro documentava la situazione veneta dopo l’Unità d’Italia.

Per pagare l’enorme debito contratto per le guerre risorgimentali nacque la famigerata tassa sul macinato che toccava tutti (anche coloro che non contarono nei plebisciti per approvare l’annessione), perché tutti passavano per il mulino.

La reazione ha dei paralleli con i suicidi della attuale congiuntura, con mugnai che si impiccarono e con reazioni di massa bloccate con l’esercito da Alfonso Lamarmora, l’eroe dei campi di Crimea, che osò far sparare sui dimostranti lasciando centinaia di morti vittime dell’attacco barbaro.

E la gente cominciò ad emigrare verso le americhe e chi restò dovette sfidare la pellagra, che decimò la popolazione per mancanza della vitamina pp che la continua polenta non poteva fornire.

E il farmacista di Piovene Rocchette nella sua “Politica dei villani” lasciava in bocca ai due protagonisti la mesta costatazione: “I preti xè preti, i siuri xè siuri e invesse noaltri, caro Bastiàn, sem mone pi grande del monte Suman!”.

Pittarini andrebbe letto e rappresentato anche ai nostri tempi.

Ma andiamo ad altro.

Nel 1978, quando la città di Vicenza venne tappezzata di scritte che sembravano fatte a pennarello, in un dialetto di chiara matrice trevigiana, volli analizzarne una da vicino.

Non si trattava di scritte a mano libera su una carta qualunque, erano perfettamente litografate da tipografie che lavoravano di fino.

E poi, una notte che rincasavo un po’ tardi, vidi scendere da auto di una certa cilindrata, targate TV dei signori ben vestiti che estraevano cartelloni che affiggevano ovunque come carbonari.

Intervenni sul Giornale di Vicenza sottolineando per punti il mio giudizio che confluiva ad una volontà di prendersi il potere in nome del rispetto di una sedicente cultura veneta.

E quell’anno nacque la Łiga Veneta, poi ingurgitata dalla Lega lombarda, ora imbastardita nei meandri di quel potere che si contestava, che poi prometteva, che quando fu proprio (il potere) rese il carbonaro lealista senza nulla smuovere dell’autentico problema della liberazione del Popolo Veneto.

E oggi (1 settembre 2013) leggo sul “Corriere del Veneto” quattro pagine interessanti circa un sondaggio a macchia di leopardo sulla volontà dei Veneti all'autonomia.

IL RITORNO DELLA SERENISSIMANo: il topolino che ha sfidato l'Eliseo non si identifica con la lega, con i venetisti, con i serenissimi.

Tutti rispettabili, tutti motivati da ingiustizie subìte (al tempo dei manifesti simil pennarello c'era di che lagnarsi dato che il sindaco di Treviso era il presidente dell'UNCI e la distribuzione di risorse da Roma alle periferie avveniva in ordine alfabetico e Treviso non risultava di certo fra i primi).

Ma si tratta di un topolino o di un leone?

Ho di recente studiato un dvd registrato da un testo teatrale per la televisione.

Si tratta di FERDINANDO di Annibale Ruccello.

Il critico che lo presentava era meravigliato che un giovane sui trent'anni, purtroppo morto per incidente stradale sul filo della prima rappresentazione, negli anni '80 portasse in scena sentimenti di tale tonalità.

Racconta di una baronessa napoletana, schifata dell'avvento dei Savoia, che vive con una sua parente nobile di grado inferiore ed è frequentata dal parroco probabilmente stipendiato dalla baronia.

In casa arriva Ferdinando, un sedicente parente ed erede, una specie di ermafrodita che rivitalizza la baronessa, la domestica parente nobile di seconda categoria e il prete con le sue graziose prestazioni.

Quando nell'orgia delle gelosie si giunge ad avvelenare il prete e Ferdinando col ricatto si fa indicare il nascondiglio del tesoro custodito dalla baronessa, il giovane cambia identità: non è il parente, non è Ferdinando, è il figlio del notaio di famiglia, si chiama Filiberto.

Nella lingua di Napoli, curata come la veneta da Goldoni, Ruccello stigmatizza la rapina dei Savoia, la prostituzione ad essi del clero, la connivenza della burocrazia.

Ruccello non fa sconti alla nobiltà del Regno di Napoli, ma arriva al sarcasmo nei riguardi dell'operazione unità d'Italia operata dal Regno d'Italia.

Non possiamo chiedere all'autore, trentenne negli anni '80, perché l'opera FERDINANDO.

Possiamo però indicare che il topolino entra in risonanza con lo sfortunato geniale autore e con la sua metafora.