L’eterno dilemma ortografico della lingua veneta finalmente spiegato con chiarezza!
Era più frequente la X o la Z in passato?
E oggi cosa è più comodo utilizzare?
Cosa c’insegna la tradizione di scrittura veneta?
In questo video analizziamo le Commedie di Carlo Goldoni del Settecento ed il Dizionario di Giuseppe Boerio dell’Ottocento per trovare la risposta.
Cosa ci consiglia la modernità internazionale?
Verifichiamo le inattese somiglianze dell’ortografia veneta con l’ortografia delle maggiori lingue del mondo.
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OMAGGIO A TUTTE LE VITTIME DEL CORONAVIRUS,
MA IN PARTICOLARE A QUELLE MORTI SILENZIOSE, A QUEI COMMIATI SENZA PAROLE E SENZA FIORI, A QUEGLI ADDII SENZA VOCE, A QUEI NOMI DISPERSI NELLA CENERE.
Bando “Applausi…su la testa!”
Con il sostegno e la collaborazione della “Rete Artisti Spettacolo per l’Innovazione”, la nostra artista Violetta Chiarini presenta il video:
“In punta di piedi verso l’aurora”.
Un monologo intenso, crudo nel suo estremo contatto con l’attualità…la pandemia, gli affetti strappati, le carezze mancate…
La critica commenta così:
MARICLA BOGGIO (drammaturga, saggista, critica teatrale) “Violetta Chiarini, ricca di suggestioni vitali, capace di superare la difficoltà del tema scelto facendolo diventare elemento di poesia. Il dialogo con la bambina nipote consente toni di delicata partecipazione, reinventando la morte fino a farla diventare possibilità di dimensione filosofica, in cui l’individuo si fonde in una visione generale dell’universo. Nello sviluppo del racconto, della nonna che nel letto di ospedale si vede proiettata fuori di sé in una esistenza che supera l’umano, si intrecciano la tragica visione del funerale privato dei suoi rituali, con i teneri ricordi legati alla propria giovinezza, alla bambina, alla sua intensa volontà di vita. Un augurio di continuare a far prevalere l’ottimismo e la poesia nonostante le attuali condizioni del mondo.”
GIUSEPPE MANFRIDI (drammaturgo, scrittore, saggista) “Struggente assolo, con l’interprete che ti staglia luminosa in una chiazza di buio, come se anche questo cromatismo essenziale fosse materia interna al testo, sgranato in una melodia magica e dolente. Meravigliosi gli endecasillabi messi a contrappunto di questa elegia inesausta, che non conosce soste, ma solo modulazioni di fiato in fiato: “Mentre fuori la primavera canta”… “Vedo qualcuno sul letto laggiù”… “Lasciami volare verso la luce (…) per il grande arrivo del mondo nuovo”… sino al finale, amplissimo, ascensionale “Col suo rosso tripudio dell’aurora”. E questa sillabazione, in cui è scandito dapprima l’annuncio della malattia, poi la progressiva separazione e infine un addio trascendentale, non potrebbe essere intonata in altro modo che così, attraverso la voce di Violetta Chiarini, irradiata dal suo volto. Un brano bellissimo.”
ROBERTO MILANA (saggista, critico letterario) “E’ bello il testo di Violetta Chiarini sulla pandemia colta nel distacco atroce, ma denso di comunicazione morale, di una nonna dalla nipotina. Eleva umanamente attraverso un linguaggio addirittura argomentativo, questa cronaca ancora più tragica perché modernamente impensata. Un grido di ribellione all’anonimato della morte, forse l’ultimo atto emblematico dell’anonimato delle vite coatte nei social affollati. Un passaggio di esperienza critica che solo può salvarci.”
CHIARA ROSSI (scrittrice, drammaturga, saggista) “Violetta mi ha fatto piangere per l’emozione. La sua voce, i suoi occhi, la sua capacità scenica-sensibile di portarmi con sé, fino a fluttuare verso l’aurora. Il suo corpo dà forma alla parola, ogni suo gesto e respiro pur impercettibile sulla scena plasma la sua intensa drammaturgia. Magnifico monologo. Dolcissimo. Tenero. Tremendo. Parole fatte di luce. È ciò che mi affiora come primo commento. Luce. Luce, in cui un pulviscolo iridescente rende l’atmosfera rarefatta, leggera, lieve. Un passaggio (più che un trapasso) che fa riflettere, molto. Moltissimo. La creatività del resto, ne sono convinta, non serve per rispondere, ma per domandare. Violetta Chiarini, una donna stupenda e un’attrice poliedrica straordinaria, un talento che si coglie immediato. Autrice anche: potente, forte e delicata insieme.”
La trovi anche su Facebook – https://www.facebook.com/violettachiariniofficialpage/
Oggi 25 febbraio ricorre la giornata mondiale della Commedia dell’Arte.
In tutto il mondo oggi si ricorda il 25 febbraio 1545, data in cui fa fede l’istituzione della prima compagnia di comici di professione stipulata a Padova con atto notarile legale.
Questo genere teatrale si sviluppò in Italia nel XVI secolo e la sua peculiarità era rappresentata dall’assenza di copione quindi sviluppata su improvvisazione e canovacci..
Eccellenti mimi, buona parlantina, fantasia e doti di sincronismo con gli altri: queste le caratteristiche degli attori della commedia dell’arte.
Gli spettacoli si svolgevano all’aperto, su semplici palchi e alla luce del sole sovente facendo uso di maschere.
Col passare del tempo gli attori si organizzarono in compagnie guidate da un capocomico.
La presenza di donne all’interno della compagnia fu una vera e propria rivoluzione poichè prima i ruoli femminili erano interpretati da uomini.
Di seguito un contributo in merito di Daniele Ferrari, autore, regista, attore e formatore teatrale.
Oggi cade l’anniversario della morte di Umberto Eco, semiologo, filosofo, narratore, docente e molto altro ancora.
Nella sua vita ha raccontato se stesso e le sue passioni sfornando capolavori cui il romanzo-bestseller “Il nome della rosa”.
Sotto certi aspetti fu premonitore di tesi ed in un ambito particolare di suo interesse ne divenne esperto: la cultura di massa.
La sua attenzione allora si trasferì dalla televisione ai mass media portandolo a pubblicare articoli, saggi e pamphlet.
Eco sognava una cultura in grado di propagarsi a macchia d’olio, speranza venuta meno con l’avvenire e il consolidarsi di internet e delle generazioni 2.0.
Passò alla storia la sua dichiarazione fatta durante una lectio magistralis tenuta all’università di Torino nel 2015:
“I social media hanno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. E’ l’invasione degli imbecilli.”
Fu un grande scrittore e filosofo, grande punto di riferimento della cultura italiana; si dedicò a svariati campi dalla narrativa alla saggistica passando per l’analisi sociale e l’insegnamento.
Sabrina Pattarello, maestra di un istituto trevigiano messa alla gogna poichè cercava di attuare il buon senso in un momento in cui il 99% del popolo italiota risulta essere invasato e terrorizzato dal covid e derivati.
La supplente è stata additata, calunniata, derisa, colpita nel proprio lavoro e peggio ancora nella sfera personale.
Il sistema impone un preciso iter in materia sanitaria e poco importa se, carte alla mano, disponi di documenti che ti esonererebbero da mascherine & company.
Da tempo oramai denunciamo l’abolizione totale della libertà di pensiero e l’azzeramento della sfera personale.
La signora Pattarello è stata lapidata dai cittadini, tradita da quei genitori che dovrebbero riporre nell’insegnante un minimo di fiducia.
In tempi non sospetti il maestro era garante dell’istruzione dei nostri figli e, se “sbagliavi” qualcosa, venivi punito in ginocchio sui sassi dietro alla lavagna.
Ora, lungi da me condividere tali metodiche, ma forse il principio di condivisione e responsabilità comune nell’indirizzare le nuove generazioni non era poi così sbagliato.
Siamo in un momento in cui tutti sono diventati virologi, psicologi, avvocati, medici e qualsivoglia titolo disponibile seppur nessuno di essi abbia neanche un briciolo di preparazione in materia.
Il MLNV da sempre denuncia le falsità e cerca di dar voce a tutti coloro che ne avrebbero diritto ma non trovano spazio.
Con l’approvazione della signora Pattarello di seguito riportiamo l’intervista rilasciata.
Torniamo sui fatti che la stampa ha riportato, in merito al suo invito fatto agli alunni di togliersi la mascherina. Le cose sono andate come è stato raccontato dai giornali?
Le racconto volentieri: ho avuto una proposta di supplenza dal 9 Novembre 2020 (non contratto Covid come la stampa dice) per sostituire una persona fino al 28 Gennaio 2021, con tredici ore di contratto presso una scuola primaria di Treviso, in due classi, in Prima e Seconda. La mascherina chirurgica mi porta ogni qual volta che la uso mal di testa, nausea ed emicrania. Soffro inoltre di claustrofobia per cui ho fatto una visita privata e il medico mi ha rilasciato un certificato per esonero di mascherina. Rilasciai il certificato medico alla scuola, la quale mi diede un paio di mascherine di plastica ed una visiera. Iniziai con le mascherine di plastica che coprono il volto fino al naso, ma alcune colleghe dubitarono della loro efficacia. Io con il certificato medico non ero tenuta ad usare la mascherina, ma lo feci per non creare un clima ostile al lavoro e per adeguarmi alle misure anti-Covid visto che a scuola sono molto restrittive, nonostante non ci siano mai stati casi né tra gli alunni né tra i colleghi. I bambini a scuola sono obbligati ad usare la mascherina sempre, anche durante l’attività motoria, stando al banco o quando corrono in giardino. A volte non riuscivo a capire quello che loro dicevano quando alzavano la mano perciò dissi loro che potevano leggermente abbassarla. Un altro evento in classe seconda, riguardò dei bambini che erano preoccupati dei video che vedevano in televisione e che parlavano di morti da Covid; io per tranquillizzarli dissi loro che (in base ad informazioni diverse acquisite su altre fonti esempio radioradio) di solito le persone più a rischio sono gli anziani e chi ha già avuto altre patologie. Faccio notare che da mesi ho iniziato ad informarmi in modo critico su siti di legali quali il blog del legale Marco Della Luna, esperti quali la dottoressa Bolgan, del legale Marco Mori, dei medici D’Amici, Gatti e il dottor Scoglio. Tra questi le dottoresse Bolgan e Iannetti accusavano i danni da mascherina per bambini per il fatto che non possono respirare la loro Co2, o dei danni psicologici da distanziamento sociale. Aggiungo che una neurologa tedesca Griesz-Brisson, neurologa e tossicologa della London Neurology & Pain Clinic, afferma: : “Le Mascherine producono danni cerebrali irreversibili, sono un Crimine contro l’Umanità”. E ammonisce: “La respirazione della nostra aria espirata crea senza dubbio una carenza di ossigeno e ci inonda di anidride carbonica”. I fatti che mi hanno coinvolto risalgono alla prima settimana di dicembre. I bambini parlarono a casa e le madri andarono a parlare con la dirigente scolastica, con il sindaco, con la polizia senza interpellare la sottoscritta. Il fatto eclatante accadde il 14 Dicembre, verso le 8,30 del mattino, quando mentre ero al lavoro in aula, classe Prima, presso la scuola San Giovanni XXIII arrivò la polizia col sindaco, fuori della scuola c’ erano i genitori i quali avevano attivato il tutto. Dieci minuti dopo la polizia (io indossavo mascherina di plastica) mi chiese del certificato medico e perchè non indossassi una mascherina chirurgica. Dal giorno 15 Dicembre 2020, iniziai a trovarmi su molti giornali, che cominciarono a spulciare la mia pagina Facebook e cosa io pensassi. Ricordo loro l’ articolo 21 della Costituzione sulla libertà di pensiero e di espressione che viene meno e si è criticati se si pensa diversamente al pensiero unico dei media. Per cui si viene etichettati in modo discriminatorio e spregiativo come “Negazionisti”. Non vedo più l’Italia come un paese democratico com’ era prima.
E’ stata accusata d’essere negazionista. Ha forse negato l’esistenza del virus?
Si sono stata accusata di essere “Negazionista”, presumo per una manifestazione alla quale io ho partecipato a Padova nel Settembre 2020, dove erano pure presenti il nanopatologo Montanari (del quale lessi due dei suoi libri), la parlamentare Sara Cunial ed altri che misero in discussione i numeri dei morti da Covid. Io non nego l ‘ esistenza del virus, infatti un vicino di casa e la moglie si sono ammalati ma si sono curati in casa e dopo poche settimane guariti. Ricordo che il dottor Szumski ha curato il virus e i suoi pazienti con Idrossiclorochina; tutti guariti. Così, centinaia di altri medici ancora. Forse lui ed altri sono scomodi ai media ed ai giornali, infatti molti dottori vengono minacciati di radiazione perchè non si allineano al pensiero unico e non concordano con i numeri dei decessi. Io noto che si parla solo del virus mentre le malattie precedenti esempio infarto, cancro, ed altro sono scomparse grazie ad una vera e propria “manipolazione mediatica”.
Quindi è stata licenziata? O non le hanno rinnovato il contratto?
Ricevetti una lettera disciplinare rispetto alla quale avevo preparato le mie memorie, citando una sentenza del Tar di Roma dove diversi legali confermavano i dpcm incostituzionali ed illegittimi. Il contratto non mi è stato rinnovato, sono stata licenziata circa dieci giorni prima per un altro motivo, ma credo fosse perchè pure le madri non volevano che io rientrassi. Io comunque non credo avrei accettato di continuare, in quanto i pagamenti degli stipendi sono molto lenti; ad esempio devo ancora ricevere il mese di Novembre e Dicembre 2020, mentre di solito sono abituata ad essere pagata puntuale.
Come si sono comportati, nei suoi confronti, i genitori dei bambini?
Dal 15 di Dicembre i genitori durante i momenti in cui ero in giardino controllavano che io avessi la visiera. Una di queste madri scrisse una pesante lettera alla dirigente scolastica solo per il fatto che io scrissi in Facebook che i dpcm sono illegittimi ed incostituzionali (dissi la verità in base alle notizie che avevo). Per i bambini, alcuni mi posero delle domande altri mi dissero “ti abbiamo vista in televisione”, poi tutto proseguiva normalmente.
Ora che farà? Si è rivolta ad un avvocato per esporre le sue ragioni?
Mi sono presa una pausa per il momento per dedicarmi ad altro. Si, mi mi sono rivolta ad alcuni legali e sto decidendo come agire sul piano giudiziario.
Come nulla fosse, gran parte degli istituti scolastici sul territorio facenti parte della fascia 0-6 anni hanno iniziato il loro anno scolastico. Le parole d’ordine per questa fase dell’infanzia dovrebbero essere libertà e serenità ed ogni comprensorio dovrebbero lavorare al fine di costruire un ambiente organizzato e ordinato, che richiami l’ambiente familiare di ogni individuo. Tutto questo è scomparso ed ha lasciato spazio a terminologie quali responsabilità civile, penale, indicazioni igienico-sanitarie, isolamento immediato, valutazione del caso, procedure diagnostiche: l’oramai famoso “patto di responsabilità reciproca”. In tipico stile italiano le famiglie si sono ritrovate a dover analizzare documenti e valutare la situazione a ridosso del primo giorno di scuola, come se tale decisione potesse essere presa con leggerezza. Abominevoli misure di sicurezza sono diventate parte integrante delle routine come divisori, pannelli altezza uomo, igienizzanti, corredo usa e getta e una meravigliosa pistola puntata ogni sacrosanta mattina per la misurazione della febbre. Ma c’è di più! Tuo figlio non lo puoi accompagnare ma lo devi affidare fuori dalla struttura, non puoi rassicurarlo, vestirlo, coccolarlo; nessuno può mettere piede all’interno della scuola. Già questo dovrebbe bastare a svegliare le menti dei genitori i quali problemi sono <<può portare il ciuccio>> oppure <<devo sterilizzare ogni volta l’orsacchiotto>>. Ma andiamo anche oltre: qual è il protocollo sicurezza? Se un bambino riscontra la febbre viene immediatamente isolato e affidato al responsabile covid. Vengono chiamati i genitori i quali dovranno conferire con il pediatra per la valutazione del caso. Se lo stesso lo ritiene opportuno prescrirrà il tampone. Nel caso di positività l’ulss avvierà un’indagine arrivando, nella peggiore delle ipotesi, alla quarantena preventiva e comunicherà una serie di tamponi a sua discrezione. Vi può bastare? Eppure c’è chi ha ancora il coraggio di trovare del positivo in tutto questo. Perché il tampone è sierologico quindi non così grave, perché l’isolamento non è immediato quindi il problema non si pone subito, perché alla pistola puntata in testa i bambini ci si abituano subito e le insegnanti con mascherina in modalità marziane non sono poi così male. Il punto è un altro. I bambini non si devono abituare a nulla di tutto questo. E voi adulti, imparate a capire ciò che firmate. Il fantomatico patto di responsabilità reciproca non è altro che un mezzo per scaricare colpe e responsabilità. Allora non lamentiamoci se ci danno del popolo di caproni! Fintanto che non accade a noi stessi allora il problema non sussiste: tipica mentalità italiana. Esiste un’etica secondo la quale bisogna per principio guardare oltre il nostro giardino. Quindi ringrazio mia madre per avermi insegnato ad essere una mosca bianca.
La nuova didattica a distanza ha creato nuove emergenze in materia di cybergbullismo e responsabilità digitale.
Cybergstupidity, happy slapping, flaming, spamming, stalking, harassment, sexintg: purtroppo non sono parole in codice ma rappresentano il volto nascosto della cittadinanza digitale. La sfida educativo-pedagogica legata all’evoluzione delle nuove tecnologie è diventata un tema molto sentito da ogni esperto sul campo. Oggi il docente si trova ad avere ulteriori responsabilità in qualità di mediaeducator, trovandosi così a dover non solo accompagnare gli studenti, ma controllare e censurare. Delle recenti statistiche hanno affermato che il 45% dei ragazzi dai 9 ai 17 anni è vittima di cyberbullismo. Perchè nessuno ne parla?
Oggi più che mai viene rivendicata ai docenti la responsabilità di aiutare i ragazzi in difficoltà in quanto oggetto di prevaricazioni on line e, non da ultimo, sensibilizzare le generazioni sugli eventuali rischi della rete. Non stiamo forse andando oltre? Sono davvero competenze dei docenti? Non si sta snaturando il loro ruolo primordiale?
Dirigenti, docenti e genitori in qualità di agenzie educative sono chiamati a fissare con decisione ciò che è lecito e ciò che non lo è in rete. Fondamentale è far capire che ogni atto illegale è un reato perseguibile.
Gino Chinellato, classe 1915 e nato a Venezia Mestre; veneto doc.
Fin dall’infanzia si distinse per la sua passione verso i motori tant’è che a soli 8 anni entrò come garzone in un noto garage auto di Mestre. Nonostante il suo sogno fosse quello di entrare nell’Aviazione Militare, il destino gli giocò un brutto scherzo perchè fu chiamato al servizio di leva militare. I suoi piani allora si adattarono: di necessità virtù. Decise di arruolarsi come volontario della Marina Militare nel corpo del glorioso Battaglione San Marco con destinazione Tientsin (Cina); di lì a poco divenne autista del comandante. Rientrato in Italia a causa della catastrofica invasione giapponese, partì per l’Africa dove purtroppo fu fatto prigioniero e spedito in America. Non tutto il male vien per nuocere e fu così che le sue doti tecniche motoristiche lo fecero inserire negli stabilimenti della Cadillac con mansione di capo alla sala prove motori. L’amore per la sua terra e le sue radici lo fecero a seguito rientrare, nonostante le proposte per rimanere negli Stati Uniti fossero lusinghiere. Stabilitosi in Italia avviò un ambizioso progetto insieme allo storico amico Carlino Francesconi: costruire una rivoluzionaria vettura sportiva siglata CFM al fine di poter gareggiare alla Mille Miglia categoria 750 cc. A questo punto la nostra storia si ricopre di giallo, un inghippo tutt’oggi irrisolto e ancor vivo nei pensieri della famiglia Chinellato.
Fu proprio la gestazione del motore CFM ad essere accompagnata da una particolare stranezza; poco prima della Mille Miglia del 1948 l’ingegnere Bohlin, ex generale tedesco responsabile per l’alta Italia della gestione degli automezzi dell’esercito di occupazione e amico di Ferdinand Porsche, si recò a Venezia in compagnia di quest’ultimo per prendere visione del motore CFM. Porsche fu prodigo di consigli suggerendo al nostro Chinellato e a Francescon di far girare l’albero motore su rulli e non su bronzine. Abbandonato il progetto per i costi troppo elevati di sviluppo, Gino vide le sue soluzioni applicate ad una Porsche scesa in gara in Italia nel 1956. Andando nella specificità tecnica, le innovazioni rispetto al progetto veneto constavano nella cilindrata, nell’attacco del motore alla trasmissione e nella marca dei carburatori che mantenevano comunque il sistema di comando CFM. La delusione bruciò troppo e la coppia Chinellato-Francesconi si divise. Nonostante tutto Gino continuò ad operare nel suo mondo a motori, mettendo in piedi un’attività artigianale di grande rispetto e tutt’oggi operante grazie al subentro del figlio Gianni. Informatori della famiglia ci dicono che il progetto del tempo di Gino fosse talmente all’avanguardia che fu messo da parte, protetto e nascosto per tempi più proficui.
Per molti appassionati Gino rimane il padre fondatore di quel motore e la sua famiglia vuole a maggior ragione difendere il suo primato, consapevoli e sicuri che senza di lui nessun altro motore sarebbe potuto nascere e l’oramai famosa casa automobilistica non avrebbe avuto, forse, tale successo.
Oggi, giorno in cui Gino avrebbe compiuto 105 anni, vogliamo ricordare le sue gesta poichè in fondo quest’uomo ha segnato la storia automobilistica.
Il MLNV-GVP ricerca da sempre la verità e questa è la nostra.
Il divieto al filosofo russo Dugin è l’ultimo atto di un sistema in agonia
In questa Italietta in cui i teorici del nulla relativistico continuano a spadroneggiare sui grandi giornali e in tv e nella quale scuola e università sono ancora saldamente in mano a una post-sinistra fuori dal tempo, non ci si deve sorprendere se chi è custode di un pensiero libero venga messo all’indice.
Così come non ci siamo sorpresi che una casa editrice sia stata messa fuori dal Salone del libro di Torino perchè definita portatrice di idee ritenute “fasciste”, non ci meravigliamo che un pensatore e un filosofo politico come Alexandr Dugin, abbia trovato le porte chiuse all’università di Messina.
E’ il trionfo dell’ipocrisia, del politicamente corretto di una società che preferisce cuocersi nel proprio brodino, perchè evidentemente incapace di correre il rischio di mettersi a confronto con chi è portatore di pensieri e idee non conformi al proprio.
Il fatto che l’ateneo messinese abbia revocato la concessione di un’aula per un incontro con il filosofo russo Dugin è solo l’ultimo atto di una farsa, che certi pseudointellettuali mettono in atto da tempo, cioè quella di gridare “al lupo al lupo” ogniqualvolta qualcosa sfugga dal controllo del proprio schema ideologico.
Il definire, poi, Dugin “nazista” è il comodo lasciapassare per mettere in atto la propria censura, con la certezza del trovare il plauso di grandi giornali e opinione pubblica.
Se poi a chiedere il divieto sono i ben noti “partigiani” messinesi (???), allora come poter dar torto ai difensori della libertà?
Ecco, che il divieto diventa quasi una strada obbligata.
E’ la stessa logica per la quale la presentazione di un libro di ricette futuriste a Palermo viene scambiata per un pericoloso incontro fascista e vietata in una scuola pubblica, con buona pace dei palati che resteranno a bocca asciutta.
In verità, la censura a cui si assiste negli ultimi tempi in Italia è solamente segno di una debolezza sempre più palpabile da parte di un sistema incapace di produrre valori e di interrogarsi sul perchè della propria agonia.
Dugin, a questo proposito, è proprio l’uomo giusto al momento giusto per far venire fuori una simile contraddizione: scrittore e politologo russo, ispiratore, per molti, di alcune posizioni di Vladimir Putin, inventore della Quarta Teoria Politica e strenuo avversario della globalizzazione e del neoliberalismo planetario, è il teorico dell’Eurasia, un’alleanza geopolitica russo-europea estesa fino all’Iran, in grado di contrastare il dominio planetario del gigante a stelle e strisce.
Niente di più pericoloso per chi fino a ora ha preferito vivere beatamente nel letto di rose del pensiero liberal.
Ecco, l’Università di Messina, nel chiudergli le porte avrebbe «tenuto conto anche delle numerose perplessità manifestate da molti docenti e delle controverse posizioni ideologiche del relatore».
In pratica, il filosofo russo sarebbe colpevole di credere nelle proprie idee, di aver rivalutato il pensiero di un altro grande, Julius Evola, e soprattutto, di costituire un pericolo per la tranquilla e notoria “pace messinese”, di cui sono senz’altro garanti e difensori i compagni delle associazioni partigiane.
Se non fosse tutto vero, sembrerebbe l’incipit di uno spettacolo di cabaret, visto che si sfiora il ridicolo…
Poco male, comunque: nonostante la revoca dell’uso dei locali dell’università l’appuntamento con Dugin si terrà comunque: sarà alle 18,30 non più a Messina ma nella sede del consiglio regionale a Reggio Calabria: si discuterà di geopolitica e della crisi del modello globalista.
Insomma, una conferenza che definire pericolosa è divertente e nella quale non c’è alcuna traccia del preteso spauracchio neonazista annunciato dai “partigiani” di casa nostra sempre pronti a dare patenti di fascismo a chiunque sfugga al loro controllo ideologico.
La vera cultura non si nutre di censure ma di scambio di idee.
Dugin sia dunque il benvenuto da parte di chi non ha bisogno di avere dettata l’agenda da “partigiani” dell’ultimo minuto, ma è in grado di farsi un’idea liberamente.
Prende il via ufficialmente la raccolta fondi "Il Vaso di Pandora", per lo sviluppo di questo contenitore tematico Digitale creato con l'obiettivo di diffondere libera informazione su tematiche di attualità.
Secondo l’organizzazione non governativa internazionale “Reporters sans Frontieres” L’ITALIA E’ AL 46° POSTO AL MONDO PER LIBERTA’ DI STAMPA E DI PENSIERO e rientra quindi, secondo i parametri dell’organizzazione, nella fascia dei paesi con “INFORMAZOINE SEMI-LIBERA E PROBLEMATICA”.
Vista l'urgenza e la necessità di far circolare la libera informazione, chiediamo il vostro aiuto a sostenere il progetto!
NEL PAESE DELLA BUGIA LA VERITA’ E’ UNA MALATTIA
(Gianni Rodari)
INIZIO CAMPAGNA DI RACCOLTA FONDI PER “IL VASO DI PANDORA”
Secondo l’organizzazione non governativa internazionale “Reporters sans Frontieres” L’ITALIA E’ AL 46° POSTO AL MONDO PER LIBERTA’ DI STAMPA E DI PENSIERO e rientra quindi, secondo i parametri dell’organizzazione, nella fascia dei paesi con “INFORMAZOINE SEMI-LIBERA E PROBLEMATICA”.
Questa situazione chiaramente non è accettabile per un paese che si auto-definisce “democrazia avanzata e compiuta”. I media istituzionali italiani spesso non dicono la verità o, nella migliore delle ipotesi, la dicono solo parzialmente (omettendo però le parti più importanti…). Sta di conseguenza emergendo – sempre più forte e sempre più diffusa tra la popolazione – la necessità e la volontà di un’informazione vera, affidabile, completa e professionale.
La trasmissione televisiva “ IL VASO DI PANDORA ” nasce nell’autunno del 2015 proprio con l’intento di fornire un’informazione libera e alla continua ricerca della verità in:
economia
politica nazionale
politica internazionale
finanza
sociale
ambiente
salute/sanità
istruzione/formazione
con ospiti altamente competenti che propongono analisi, pensieri e valutazioni che ben difficilmente trovano o potrebbero trovare spazio nelle reti televisive nazionali pubbliche/private e nella stampa istituzionale.
Carlo Savegnago è un appassionato e instancabile ricercatore di verità, nonché l’ideatore e conduttore del programma che è andato in onda, da novembre del 2015 fino a febbraio del 2018, su Telechiara e TVA Vicenza (gruppo Videomedia) e su Serenissima TV (gruppo Canale Italia)… (continua)
In occasione dell'incontro avuto con la Schützenkompanie "Major Giuseppe De Betta" di Trento – Sud Tirol, (vedi qui) siamo stati omaggiati del libro VENETO – PASSI VERSO LA LIBERTA' a cura di Südtiroler Heimatbund Roland Lang (…) e riportante, fra l'altro, una perizia giuridica del Univ,.Prof. Dr. iur. Daniel Turp, Montréal (Canada) sulla questione del referendum consultivo sull'indipendenza, indetto dall'ente italiano "regione veneto".
Innanzitutto c’è da precisare che si parte da un presupposto estremamente sbagliato e incoerente e cioè quello di considerare il Popolo Veneto italiano.
Se il Popolo Veneto è tale, non si capisce perché si debba affidare a giudizi di sorta di enti stranieri italiani su proposta di partiti e associazioni italiane.
“Indipendenza veneta” viene definita un’associazione nell’ordinanza della corte costituzione italiana emessa all’udienza del 28 aprile 2015, quindi è da prendere atto che tale associazione è costituita in ambito italiano e secondo le regole italiane; come tale, laddove fosse anche un partito politico, non potrebbe mai, secondo le regole italiane, mirare all’indipendenza della Serenissima ma al massimo all’autonomia della regione veneto italiana; la prova lo recita l’art. 24 dello statuto di Indipendenza Veneta: Norme di chiusura. 24.1: Per quanto qui non espressamente statuito o previsto si farà riferimento a quanto previsto dalle leggi e dai regolamenti vigenti … ovvero quelli italiani.
Qualunque associazione e/o partito politico, soprattutto se costituito nell’ambito dello stato straniero italiano, compresa la Lega Nord, non può rappresentare né parlare a nome del Popolo Veneto ma solo in rappresentanza dei propri iscritti.
La diatriba sulla legittimità della sentenza della corte costituzionale non può riguardare il Popolo Veneto perché è una questione italiana, fra enti italiani e associazioni italiane.
La legge dell’ente regione veneto del 19 giugno 2014 nr.15 è o non è titolata “Referendum Consultivo sull’autonomia del Veneto”???
Vogliamo allora smetterla di confondere il diritto di autodeterminazione con la reclamata autonomia leghista?
Cosa c’entra ilo diritto di autodeterminazione del Popolo Veneto con la richiesta di autonomia regionale in ambito italiano?
NIENTE!
L’articolo 1 della famigerata legge regionale nr.16 del 19 giugno 2014 recita al puto 1:
“Il presidente della giunta regionale del veneto indice un referendum consultivo per conoscere la volontà degli elettori del veneto sul seguente quesito: “vuoi che il Veneto diventi una Repubblica Indipendente e Sovrana? SI o NO?”
Il presidente della giunta regionale del veneto è un’autorità periferica italiana, rappresenta un partito politico italiano, più volte ingannatore delle legittime aspettative del Popolo Veneto.
Chiede agli elettori veneti di esprimere il proprio voto sulla trasformazione di una regione italiana in una Repubblica Indipendente … (i territori sono solo una parte di quelli della Serenissima Repubblica Veneta e noi diciamo no al ripetersi dello smembramento della nostra Patria).
Chi sarebbero poi gli elettori:
lo recita bene il punto 3 del medesimo articolo … “ hanno diritto di voto tutti i cittadini (?… attenzione, non i Veneti) che, alla data di svolgimento del referendum, hanno compiuto il 18mo anno di età e che sono iscritti nelle liste elettorali (significa dichiararsi innanzitutto cittadini italiani e non è detto che siano appartenenti al Popolo Veneto) di un comune compreso nel territorio veneto (si riferisce al territorio della regione veneto).
Insomma tutti i cittadini residenti nel territorio dell’ente regione veneto dovrebbero esprimere un parere su un diritto che è già previsto per legge e che si chiama autodeterminazione.
Qual è dunque il vero motivo di tale referendum?
Quale che sia il risultato il motivo è soprattutto il “galleggiamento politico” dell’attuale partito lega nord che con abilità e inganno continua ad attentare al percorso di ripristino di sovranità del Popolo Veneto su tutte le proprie terre d’origine usando arbitrariamente la bandiera della Nazione Veneta (che non è la regione veneto italiana) e insudiciando per fini politici il Gonfalone di San Marco.
Pochi Veneti si identificherebbero nella bandiera della regione veneto.
Ed ecco la più volgare delle contgraddizioni:
Le Istituzioni Venete non sono quelle dell'ente regione Veneto italiano e tali non potranno mai rispondere alla volontà del Popolo Veneto perché non li può rappresentare.
Leggete bene, nel libro, infatti, non si parla più di Popolo Veneto ma del popolo che esse rappresentano, ovvero di popolazione residente nei territori, ma non di un Popolo.
L’Ordinamento Giuridico Veneto Provvisorio identifica nel Popolo Veneto l’esclusivo, naturale e inalienabile Soggetto dotato di personalità giuridica originaria perché fonte ed archetipo stesso del suo diritto alla sovranità.
Il “Popolo Veneto” esiste e si identifica come comunità di “Genti Venete” ovvero come pluralità di Persone sovrane del proprio corpo fisico, della propria sfera intellettuale e della propria sfera spirituale e Venete per diritto naturale, libere e sovrane sulle proprie terre d’origine.
I Veneti sono Persone accomunate dalla specificità della propria cultura, della propria storia, delle tradizioni e delle proprie origini etniche e come tali affermano la propria Nazione.
Il Popolo Veneto si identifica in quanto tale a prescindere da qualsiasi vincolo di patrimonio genetico attribuibile a specifici tratti razziali.
Ecco chi è il Popolo Veneto … italiani, (vedi qui)
WSM
Venetia, 30 gennaio 2017
Sergio Bortotto
Presidente del Movimento di Liberazione Nazionale del Popolo Veneto e del Governo Veneto Provisorio
E’ in corso nella prestigiosa sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia, a Palazzo Franchetti all’Accademia, una mostra che celebra il secondo centenario dalla fondazione dell’Archivio di Stato di Venezia, istituito con il nome di Archivio Generale Veneto dall’imperatore d’Austria Francesco I con sovrano rescritto del 13 dicembre 1815.
Da allora, ininterrottamente, l’Archivio svolge la funzione di conservare il patrimonio documentario della Serenissima Repubblica Veneta, dei monasteri e dei conventi soppressi in età napoleonica, delle corporazioni d’arte e mestiere e delle scuole di devozione, cui si sono via via aggiunte le carte dei governi che si sono succeduti nel Veneto fino ad oggi.
Nella sede originaria nell’ex convento francescano di Santa Maria dei Frari, scelto fin dall’origine proprio per le sue cospicue dimensioni – cui si sono in seguito affiancate le sedi sussidiarie della Giudecca e di Mestre – si snodano circa 70 chilometri di scaffali dove trovano posto più di 800 fondi archivistici, ancora in larga misura disposti secondo il progetto ideato dal primo direttore dell’Archivio, Giacomo Chiodo, inteso a riproporre la struttura statuale della Serenissima.
Per celebrare questo anniversario l’Archivio ha organizzato una mostra documentaria in cui proporre al pubblico una significativa selezione del suo vastissimo e prezioso patrimonio. Attraverso documenti rappresentativi per la loro rilevanza, si ripercorrono i filoni principali della millenaria storia veneziana, dalle origini fino alla prima guerra mondiale.
Inquadrati in una griglia tematica, vengono ripercorsi diacronicamente, per momenti emblematici, la struttura istituzionale dello Stato Veneto, le relazioni diplomatiche con l’Oriente e l’Occidente, la gestione del territorio, le reti commerciali, il tessuto economico e produttivo, il mondo artistico, l’ambito religioso e assistenziale, le trasformazioni della città e i riflessi della politica nell’Otto e Novecento.
Tutto bene, si potrebbe pensare leggendo la nota dell’Istituto e anche visitando la mostra dove si trovano splendidi documenti di grande interesse…Peccato che sull’ultima tavola illustrativa, posta quasi alla fine della mostra, si legga nelle ultime righe: “Fino a quando, dopo il 1866, la storia veneziana non sarà più -serenissima- ma orgogliosamente, definitivamente, italiana e cittadina.”
La storia veneziana non più Serenissima ma orgogliosamente e definitivamente italiana? Ma ci rendiamo conto? E questa è l’istituzione che dovrebbe tutelare e valorizzare l’archivio della Repubblica Veneta?!?
Non più Serenissima?
E perché mai?
E questi sono coloro che dovrebbero conservare un patrimonio di storia, di cultura e di civiltà che ci viene invidiato dal mondo intero???
Orgogliosamente e definitivamente italiana?
Sull’orgoglio italiano è meglio stendere un velo pietoso, sul definitivo poi, cosa sono quasi centocinquant’anni di parentesi italiana nel Veneto di fronte a oltre tremila anni di storia veneta?
Una parentesi, appunto, una delle più negative parentesi nella nostra storia veneta… una parentesi che si è aperta nel 1866 con un vergognoso plebiscito-truffae che prima o poi è destinata a chiudersi…
9.30 – GIORGIO IACUZZO – APERTURA CONVEGNO
Giorgio Iacuzzo accenderà i motori e inizieremo un viaggio non ai confini della realtà, ma nella realtà, quella in cui siamo immersi, ma di cui siamo anche costituiti.
Un viaggio per comprendere il nostro corpo, il funzionamento, scoprire soluzioni efficaci, comprensibili e reali.
Un viaggio per riscoprire i nostri meravigliosi poteri, la capacità di ammalarsi e la capacità di autoguarigione.
La possibilità, nei casi più urgenti, di accompagnare il nostro organismo a un riequilibrio senza farmaci deterioranti o destabilizzanti.
Giornalista indipendente, si occupa da una quarantina d’anni di salute e scienza senza alcun limite imposto da poteri economici o politici.
Collabora con i periodici Nexus e Punto Zero.
9.40 – DOTT.SSA GABRIELLA MEREU – LINGUAGGIO ANALOGICO CURATIVO
Attraverso la pratica omeopatica unicista la Dr.ssa Mereu ha maturato la convinzione che (tranne nelle forme d’urgenza) il paziente si possa curare da solo se opportunamente guidato e se ha intenzione di guarire veramente.
Vorrebbe trasmettere l’ importante messaggio che la miglior terapia segue tre parametri: agire velocemente, non essere traumatica e meno dispendiosa possibile.
La Terapia Verbale è una tecnica sviluppata in anni di ricerche, vuole dimostrare essenzialmente che la medicina e il medico sono soltanto dei veicoli, il medico dovrebbe funzionare solo da guida affinché la guarigione fisica si attui insieme alla consapevolezza e all’evoluzione del paziente.
CURRICULUM Laureata in Medicina e Chirurgia.
Diplomata in Medicina Olistica all’Università di Urbino. Sempre a Urbino si è diplomata in Grafologia. Diplomata in Medicina Omeopatica alla S.I.M.O.H.
Per trent’anni si è occupata di medicina d’urgenza. Da 15 anni tiene seminari e conferenze in tutt’Italia.
10.30 – PROF. IVANO SPANO – PER UNA RIFONDAZIONE DELLA MEDICINA
La relazione evidenzia la necessità di una rifondazione epistemologica della medicina.
In particolare si rende necessario il superamento del paradigma riduzionistico, ancora fondante le Scienze umane e sociali, medicina compreso, nonché la ridefinizione dei concetti di salute, malattia e terapia.
CURRICULUM Università di Padova, Studioso Senior, Epistemologo della Medicina, Psicanalista didatta e supervisore, già responsabile della Scuola di specializzazione in Medicine complementari dell’Université Européen Jean Monnet di Bruxelles, Coordinatore della Società di Medicina Psicosomatica – Padova.
Collaboratore dell’Istituto Riza di Medicina Psicosomatica. Autore di oltre 70 volumi scientifici.
11.20 – DOTT.SSA ALIX WRASTOR – JEAN SOLOMIDES E I RAGAZZI RIBELLI DI PARIGI
Misconosciuto in Italia, il Prof. Jean Solomidès nel secolo scorso ha guarito innumerevoli malati di cancro con il suo Trattamento Immuno-Biologico ed era annoverato fra i “ricercatori maledetti”.
Osteggiato dalla medicina chemioterapica, fu costretto a chiudere il laboratorio dove arrivavano folle di pazienti da ogni angolo di Francia.
Perfino il nostro prof. Di Bella andò ad imparare da lui.
Ma la sua scoperta non è scomparsa con lui. La dott.ssa Alix Wrastor, sua assistente per 20 anni, dopo essersi trasferita in Italia, con le TIB continua ad avere straordinari successi nei suoi pazienti.
CURRICULUM Laureata in medicina a Parigi (successivamente ha conseguito una seconda laurea, in legge) e specializzata in oncologia con i maestri MATHE – ISRAELE.
Seconda laurea in medicina alla Sapienza di Roma. Specialista in medicina omeopatica ospedale San Giacomo di Parigi.
Specialista in agopuntura Università di PECHINO. Specialista in iridologia scuole americane dr JENSEN.
12.45 – PAUSA PRANZO
14.00 – DOTT. PAOLO ROSSARO – CHE COS’E’ VERAMENTE LA MALATTIA
Grazie alla profonda conoscenza in ambito psichiatrico, dopo aver capito l’importante le- game tra psiche e corpo, ha realizzato nel tempo un diverso modo di percepire la malattia e valutato gli studi del Dott. Hamer, scopritore delle 5 leggi biologiche.
CURRICULUM.
Laureato in medicina e chirurgia all’Università di Padova, ha conseguito la specializzazione in Psichiatria.
Innumerevoli sono poi i corsi d’aggiornamento, i seminari seguiti dal Dott. Rossaro per quanto riguarda l’ambito psichiatrico, sia in età adulta che infantile/adolescenziale.
Ha ricoperto diversi ruoli in ambito psichiatrico e ora esercita come medico di base nel padovano.
14.50 – PROF.SSA MAGALI JENNY GUARITORI NELLA SVIZZERA ROMANDA
“Segreto”.
Ecco il nome dato a questa pratica tramandata da un guaritore all’altro.
Molto diffuso nel Giura, il “segreto” è praticato nelle regioni cattoliche dei cantoni Friburgo, Vallese, Appenzello e nella Svizzera centrale.
Nel 2012 la pratica del Segreto nel Giura e nel Canton Friburgo è stata iscritta nella Lista delle tradizioni viventi della Svizzera.
La Lista è il risultato dell’attuazione della Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale.
Negli ospedali circolano le liste con i numeri dei guaritori classificati secondo i problemi che sanno curare.
Senza corporazione o organizzazione di categoria, costituiscono un mondo a parte escludendo qualsiasi pubblicità, redditività o fama.
CURRICULUM. Ricercatrice e insegnante all’Università di Fribourg in Svizzera, etnologa, un dottorato in Scienze delle Religioni, studia le medicine tradizionali delle diverse popolazioni. Ha pubblicato diversi studi sui guaritori dei cantoni svizzeri di lingua francese.
15.40 – DOTT. BOBBIE BECKMAN – TUTTO QUELLO CHE I DENTISTI NON VI DICONO
Dal 1979 lotta contro l’uso del mercurio ed altre sostanze tossiche nel campo odontoiatrico.
Ha sviluppato tecniche per la rimozione sicura dell’amalgama e di altri metalli pesanti dalla bocca.
Si è particolarmente interessato all’effetto dannoso causato dai materiali abitualmente usati per le ricostruzioni dentali e alla ricerca di soluzioni alternative non nocive.
Parlerà di Metalli pesanti – Elettro sensibilità – Denti devitalizzati – Impianti – MCS (sindrome da sensibilità chimica multipla).
CURRICULUM. Nato a Stoccolma, Svezia.
Si è laureato in odontoiatria nel 1971 presso l’Istituto Karolinska di Stoccolma.
Parla correntemente otto lingue ed è Capitano della Marina Reale Svedese.
E’ intervenuto di recente presso il Parlamento Europeo per le problematiche legate alla tossicità del mercurio.
Collabora con numerose associazioni internazionali di Odontoiatria.
16.30 – DOTT. GIANFRANCO CARON NUTRIPUNTURA, L’AGOPUNTURA SENZA AGHI
Può essere definita una innovativa “tecnica energetica” che utilizza associazioni complesse di oligoelementi, definiti anche “complementi informazionali”, in grado di stimolare ed equilibrare le correnti vitali del corpo.
Non rappresenta una “terapia alternativa” bensì uno strumento che integra la “medicina e la psicologia energetica” in grado di offrire a ciascuno di noi un migliore stato di salute e benessere.
Nata in Francia intorno alla fine degli anno ‘80 del secolo scorso, è stata via via perfezionata dal Dott. Patrick Veret, che tutt’ora continua nella sua opera di ricerca del misterioso sistema di comunicazione energetico del corpo umano.
CURRICULUM.
Medico Chirurgo specializzato in ostetricia e ginecologia, da oltre 10 anni utilizza la Nutripuntura di cui è considerato il massimo esponente italiano.
17.40 -TAVOLA ROTONDA Domande dal pubblico.
Treviso. Hotel Maggior Consiglio, via Terraglio 140
Non si accettano prenotazioni Disponibili 360 posti a sedere
Per informazioni:
REGINA cell. 329 44 81 318 – SONIA cell. 347 70 22 919
e-mail regina.regi@libero.it – sitoweb www.salusbellatrix.it
All’ingresso sarà richiesto un contributo personale per la sostenibilità dell’evento di 15 euro.
Il convegno è aperto a tutti operatori e non operatori del settore.
Non si accettano prenotazioni.
Disponibili 360 posti a sedere.
Come raggiungerci:
Uscita autostradale TREVISO SUD.
In tangenziale, svincolo direzione Venezia
Il 15 maggio del 2015 è nata la PEDAGOGIA DELL'AUTODETERMINAZIONE DEL VENETO!
Cosa significa questo?
Significa pensare all'istruzione, alla scuola, all'educazione e alla formazione che si realizzano nel Veneto, quotidianamente in maniera completamente nuova, rivoluzionaria in senso positivo per ogni essere umano.
E' una RIVOLUZIONE DELL'ESSERE PER LA PERSONA UMANA, unica, originale, irripetibile, che, posta di fronte ad un periodo storico come quello che stiamo vivendo, torna a guardare alla propria storia per ristrutturare il proprio presente, pronto a lanciarsi in un futuro fatto di consapevole, costruttiva libertà, per se, per gli altri per il mondo intero.
Il PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE è principio privilegiato per stimolare riflessioni, per costruire nuovi paradigmi di conoscenza che devono condurre ogni singolo essere umano ad una nuova dimensione, soggettiva e sociale, di assoluta libertà, per se e per gli altri.
Il primo punto che il Veneto deve compiere è CONOSCERE OGGI LA SITUAZIONE DELLA PROPRIA SQUOLA, ITALIANA, ASSERVITA A ROMA E AD UNA SERIE DI LOGICHE NON PROPRIE!
da un articolo della Tribuna del 22.07.2012 (clicca qui per visionarlo)
22 luglio 2012
di Paolo Coltro
Si vuole qui raccontare come la cultura faccia più Europa di quanto succede a Bruxelles o Strasburgo.
Di come possa superare i confini volando alto e subito dopo atterrando tra la gente: quella di oggi, ma anche quella dei secoli passati.
Perché la cultura utilizzata, in questo caso, è quella degli storici.
Così, succede che a Capodistria si sia formato un Centro di ricerca per la storia di Venezia, che è una notizia forte ed entusiasmante per tutto ciò che significa: un ponte tra due Stati, Italia e Slovenia, (un'ostrega, diciamo noi, tra italia e Slovenia, ma tra Veneto e Slovenia) spesso contrapposti proprio su questioni derivate dalla storia; un lavoro comune che vuol dire riconoscimento di un passato di riferimento condiviso e da leggere in chiave attuale; infine, ma soprattutto, il superamento di stratificazioni ideologiche (quelle fasciste italiane, quelle comuniste titine) che di fronte alla storia vera, quella dei secoli, dimostrano tutta la loro evanescenza.
Come spesso accade, le belle idee camminano con le gambe di persone fisiche.
Anche in questo caso: da una parte, a Capodistria Koper c'è il professor Darko Darovec, medievista e modernista e grande organizzatore; a Venezia Ca' Foscari il professor Claudio Povolo, allievo di Gaetano Cozzi, storico dai multiformi interessi: dalle tradizioni popolari alla koinè mediterranea, dal governo della Serenissima ai sistemi sociali e al ruolo delle religioni.
Questa storia di persone, storia di storici, parte vent'anni fa.
A Capodistria, spopolata dall'esodo degli italiani, ad inizio anni novanta si forma un piccolo gruppo di intellettuali raccolti attorno all'Archivio di Stato, tra loro anche il direttore del locale museo: si battezzano Società storica del Litorale, sembra una delle cento iniziative localistiche.
Un angolo di provincia con idee tutt'altro che provinciali.
Il giovane, allora, Darko Darovec è il motore: con coraggio decide che il primo convegno espressione pubblica del suo gruppo sia dedicato a «Venezia e l'Istria».
Sembra quasi ovvio ma non lo è.
Nel 1991, ben prima che l'idea di Europa cominci a realizzarsi, nell'ex Jugoslavia e quindi in Slovenia, sono forti le folate anti italiane.
E occuparsi di Venezia per molti significa occuparsi dell'Italia, con un errore storico evidente ma non avvertito dalla politica.
Le tracce più recenti – ferite non ancora rimarginate, da una parte e dall'altra – sono l'occupazione fascista e l'italianizzazione spinta di quelle terre, i soprusi e le vendette, le due stagioni delle foibe (1943 e 1945, da rileggere con attenzione), e poi i confini, e poi l'esodo in massa degli italiani, l'irrisolta questione dei loro beni…
Per la memoria recente, questi sono gli italiani per gli sloveni; e viceversa, gli italiani si sentono da decenni profughi e derubati, in una contrapposizione che il ricorrente ricordo degli esuli non sopisce: ricordiamoci che esiste ancora, qui da noi, il comune di Fiume in esilio.
Darovec tira dritto, fa il suo convegno e chiama da Venezia Claudio Povolo, superando le ostilità della politica e dello stesso mondo universitario, che allora vuol dire Lubiana.
Il convegno recepisce il principio del common heritage, quell'eredità comune che unisce invece di dividere.
Quel consesso di studiosi intacca un tabù, incrina la crosta della diffidenza, apre una porta.
Ogni due anni a Capodistria il Centro di Ricerche Scientifiche organizza un convegno, sulle tematiche più diverse: arrivano storici da tutt'Europa e anche dagli Stati Uniti.
Negli anni, il centro diventa sempre più dinamico: ci lavorano 80-100 ricercatori, che cercano nella storia, ma soprattutto cercano finanziamenti europei per i loro studi, quello che da noi si fa poco o niente.
In questo Darovec è un mago, i suoi progetti sono seri e vengono accolti.
Il Centro di Capodistria diventa così forte che la sua gente può dar vita all'Università di Koper, indipendente da quella di Lubiana: il che è un successo anche politico. Claudio Povolo è l'italiano del gruppo: ed è paradossale che di questa sua attività si stupiscano più a Venezia che a Koper.
In fin dei conti si deve al "coraggio" di Darovec e alla presenza di Povolo se in qualche modo Venezia si esporta dove per secoli c'era già.
Ma si avanti: il primo Centro, poi l'Università e ora il Centro Interuniversitario per il Patrimonio Storico-Culturale Veneto ricerche per la storia di Venezia, il cui significato va molto oltre il suo nome.
Va molto oltre, per esempio, a tutte le iniziative sull'identità veneta partorite dalla politica leghista di casa nostra.
Nasce, il Centro, da presupposti diversi e da un progetto battezzato Shared Culture, cultura condivisa.
Spiega Povolo: «Per ritrovare una comune identità culturale spogliata da ogni nazionalismo», e bisogna riconoscere che è uno sforzo soprattutto sloveno.
I rapporti sempre più stretti tra studiosi dalla visione larga forse sconfiggono le posizioni di pancia di qua e di là del confine.
Soprattutto un concetto è chiaro, da una parte e dall'altra: i vent'anni di fascismo non fondano un'italianità che in questo modo diventa pretestuosa e le conferiscono connotati distorti.
Molto meglio ritrovare radici comuni e vicende condivise tornando indietro nella storia, quando governava Venezia.
Che, tanto per dire, nel Cinquecento, per ripopolare l'Istria svuotata da una pestilenza, introduce popolazioni slave, regalando terre ai Morlacchi perché si insedino.
Altro che l'italianità dei muscoli e dei podestà in orbace… Dice Povolo: «Si tratta di decostruire tutto il periodo successivo alla presenza della Serenissima», il che significa proporre ragioni diverse per la cultura condivisa.
Certo, l'idea di Europa e il processo politico dal 2000 in poi hanno aiutato, ma pare che a Koper sloveni e italiani ci siano arrivati prima e insieme.
Con gli studi, con i convegni, che però non sono stati solo parole.
Insomma, è questo il piccolo miracolo da raccontare, il risvolto concreto, l'idea che si traduce in qualcosa di tangibile.
E' nato il centro studi per la storia di Venezia, che è fifty fifty sloveno e italiano: nel comitato scientifico ci sono tre docenti sloveni e tre italiani, tutti di Ca' Foscari: Luciano Pezzolo, Paolo Eleuteri e naturalmente Claudio Povolo, onorato anche con il ruolo di presidente.
Si "tocca" fisicamente il Centro: perché il comune di Capodistria ha donato palazzo Baseggio-Tiepolo, naturalmente appartenuto a famiglie veneziane, e lo sta restaurando.
E al restauro ha collaborato anche Guido Biscontin, altro docente veneziano.
Tutto naturalmente con denaro sloveno, magari ottenuto dall'Europa, ma sloveno.
Venezia, s'intende l'Università e la Regione, non ci hanno messo un euro.
Ora la Regione parteciperà alla pubblicazione di uno studio sulle suppliche alle magistrature veneziane provenienti dall'Istria dal '500 in poi, che è una goccia nel mare ma almeno è una goccia.
A Ca' Foscari, quando è stato presentato ufficialmente il Centro neonato a Capodistria dopo vent'anni di collaborazione diciamo così individuale, il rettore Carraro era impegnato ad illustrare l'iniziativa Art Night: encomiabile, al passo con i tempi, mediaticamente suggestiva.
Ma diversa dalla shared culture che apre orizzonti diversi tra italiani e sloveni.
Perché la cultura apre strade a tutto il resto, favorisce la comprensione, sgretola i pregiudizi e facilita, per esempio, anche gli scambi commerciali.
Il prossimo convegno, a maggio nel palazzo Baseggio-Tiepolo finito di restaurare, sarà dedicato alle Contaminazioni: sul concetto di difesa dell'identità, ogni gruppo per sé, con le cause e gli effetti.
Insomma, si mette il dito proprio sulla piaga.
Per farla rimarginare.
…
e aggiungiamo noi…
per far rimarginare questa piaga (che per noi è l'italia), FUORI L'ITALIA DALLA REPUBBLICA VENETA!
Giornata del ricordo a Maserada: il Comune vieta una targa in memoria delle foibe
Polemiche tra il "Gruppo Sì Cambia – Quinto Sindaco" e l'amministrazione comunale locale rea di non aver concesso di scoprire una targa in memoria dei morti nelle foibe
MASERADA SUL PIAVE (TV)
In seguito alla serata organizzata dal gruppo Auditorium di Maserada a commemorazione delle vittime delle foibe a cui il "Gruppo Sì Cambia – Quinto Sindaco" ha avuto l'onore ed il privilegio di partecipare, sabato mattina lo stesso ha deciso, come gruppo consigliare di minoranza, di rendere onore alle vittime delle foibe.
Con lo scopo di onorare il 70° anniversario "abbiamo fatto preparare una targa commemorativa che però durante la mattinata, in seguito al rifiuto dell'amministrazione comunale, non abbiamo potuto posare e scoprire ma soltanto appoggiare" ha dichiarato il consigliere comunale Carlo Ulliana.
"Ci rammarica il fatto che questa amministrazione intenda monopolizzare le iniziative fatte anche dalla comunità per la comunità: il regime comunista ha raggiunto i massimi livelli! – continua il consigliere –
Stride poi il fatto che l'amministrazione non solo non abbia autorizzato e partecipato alle iniziative organizzate, ma anche non abbia fatto niente per ricordare questa data importante per la storia d'Italia.
Ci è stato concesso di posare solo un fiore 'secondo il nostro sentire' e sabato mattina lo abbiamo fatto, perché tutti devono essere uguali di fronte alla morte.
Rimaniamo quindi ora in attesa che ci venga accordato il permesso di posare e scoprire finalmente la targa.".
Ci sono due errori che si possono fare lungo la strada per la verità: non andare fino in fondo e non partire.
(Buddha)
AUSCHWITZ : FINE DI UNA LEGGENDA?
DI CARLO MATTOGNO
Al professor Robert Faurisson spetta il merito incontestabile di essere stato il primo ricercatore che abbia impostato sul piano tecnico lo studio del problema delle presunte camere a gas omicide con particolare riferimento al campo di Auschwitz-Birkenau. Rilevando che nessun tribunale,durante gli innumerevoli processi contro i cosiddetti " criminali di guerra nazisti ", si era mai curato di far eseguire una perizia tecnica sulla presunta arma del delitto, la camera a gas omicida, egli ha intrapreso uno studio tecnico su questo argomento visitando perfino, a scopo di documentazione, una vera camera a gas di esecuzione di un penitenziario americano.
L'introduzione nel campo storiografico di questo nuovo e proficuo principio metodologico è stato tanto più importante in quanto, all'epoca, il cardine fondamentale della storiografia sterminazionista era quel dogmatismo teologico che trova la sua più compiuta formulazione nella dichiarazione di storici francesi sulla presunta politica hitleriana di sterminio apparsa sul quotidiano LE MONDE il 21 febbraio 1979, secondo la quale – citó testualmente –
" Non bisogna chiedersi come, tecnicamente, un tale sterminio in massa sia stato possibile. Esso è stato possibile tecnicamente perché ha avuto luogo. Questo è il punto di partenza obbligato di qualunque ricerca storica su questo argomento " .
Jean-Claude Pressac, in diretta polemica con il prof. Faurisson, anzi, quasi per una sfida personale con lui, ha rigettato questo assioma antistorico e ha voluto studiare tecnologicamente il problema delle camere a gas e della cremazione. La sua prima opera, apparsa nel 1989, si intitola appunto : AUSCHWITZ: TECHNIQUE AND OPERATION OF THE GAS CHAMBERS; la seconda, pubblicata nel 1993, reca il titolo LES CREMATOIRES D'AUSCHWITZ. LA MACHINERIE DU MEURTRE DE MASSE. Soprattutto quest'opera, che ha goduto di un grandioso lancio pubblicitario, ha valso a Pressac la fama di specialista unico ed incontestato delle ricerche sulle tecniche di sterminio naziste, cioè sulle camere a gas omicide e sui forni crematori, e l' opera stessa viene presentata come la confutazione definitiva, totale e indiscutibile del revisionismo proprio sul suo piano prediletto, quello tecnico.
Questo libro dovrebbe costituire il complemento dell' opera precedente in virtù della ricchissima documentazione che Pressac ha studiato a Mosca, in particolare gli archivi della Bauleitung (la direzione delle costruzioni di Auschwitz), che furono lasciati "intatti" nelle mani dei Sovietici. In realtá, negli 80.000 documenti di Mosca, negli archivi integrali della Bauleitung, Pressac non ha trovato nessuna prova dell' esistenza di una sola camera a gas omicida ad Auschwitz-Birkenau.
Poichè questo libro di Pressac vuole essere la confutazione totale e definitiva del revisionismo sul piano tecnico, una semplice critica storica delle sue tesi era insufficiente: l' impostazione dell' opera richiedeva essenzialmente una critica tecnica. Il mio scritto AUSCHWITZ : FINE DI UNA LEGGENDA rappresenta una critica storico-tecnica delle tesi di Pressac.
Ciò premesso, passo ad esporre le principali conclusioni della mia critica all' ultima opera di Pressac cominciando dal problema della cremazione. Uno studio scientifico sui forni crematori di Auschwitz- Birkenau deve affrontare e risolvere due problemi termotecnici fondamentali: quello della capacitá di cremazione e quello del consumo di coke.
Pressac non affronta scientificamente nessuno dei due problemi, ma si limita semplicemente ad una serie di affermazioni sparpagliate qua e lá per tutto il libro, con le quali pretende di dimostrare che la capacitá di cremazione dei crematori II e IIIdi Birkenau era di 800 o 1000 cadaveri al giorno, con possibilità di estensione a 1440,mentre la capacita di cremazione di ciascuno dei crematori IV e V di Birkenau era di 500 cadaveri al giorno,con possibilità di estensione a 768.
Per quanto concerne il consumo di coke dei forni di Auschwitz-Birkenau, Pressac non dice nulla. Nel libro precedente egli afferma che dall' aprile all' ottobre 1943 i crematori di Birkenau cremarono da 165.000 a 215.000 cadaveri impiegando 497 tonnellate di coke, con un consumo medio di 2,6 kg di coke per cadavere.
Vediamo ora quale sia il valore tecnico delle affermazioni di Pressac, cominciando dalla questione del consumo di coke. Nel periodo dal 31 ottobre al 13 novembre 1941, nel forno Topf a 2 muffole del crematorio di Gusen, un sottocampo di Mauthausen, furono cremati 677 cadaveri di adulti con un consumo totale di 20.700 kg di coke, in media 30,5 kg per ogni cadavere. Poiché in media furono eseguite 52cremazioni al giorno, il forno rimase costantemente in equilibrio termico, il che significa che il consumo medio di coke fu il minimo conseguibile con quel tipo di forno. Questo dato sperimentale si può attribuire correttamente anche ai 3 forni Topf a 2 muffole del crematorio di Auschwitz, che dunque per la cremazione di un cadavere di un adulto richiedevano mediamente un quantitativo minimo di 30,5 kg di coke.
I forni Topf a 3 e a 8 muffole dei crematori di Birkenau, per il loro sistema costruttivo, presentavano dei vantaggi termotecnici che riducevano cospicuamente i consumi; in effetti, i forni a 3 muffole, per la cremazione di un cadavere richiedevano circa 20 kgdi coke, i forni a 8 muffole circa 15.
Queste cifre si riferiscono a cadaveri emaciati di adulti, i cosiddetti musulmani. Nell' ipotesi della realtá delle gasazioni omicide, considerando la presenza di cadaveri di bambini e ragazzi tra i presunti gasati, il consumo teorico minimo dei crematori di Birkenau sarebbe stato mediamente di circa 13 kg contro i 2,6 kg assunti da Pressac.
Passiamo ora alla questione della capacitá di cremazione dei crematori.
La durata media di una cremazione nei forni Topf di Auschwitz-Birkenau era di circa un' ora. Questi forni erano stati progettati e costruiti per la cremazione di un solo cadavere per volta; la loro esigua disponibilitá oraria di calore rendeva infatti impossibile una cremazione economicamente vantaggiosa, sia dal punto di vista del consumo di coke, sia da quello della durata, di due o più cadaveri insieme. La cremazione contemporanea di quattro cadaveri in un' ora, come sostiene Pressac, era dunque a maggior ragione termotecnicamente impossibile. Il funzionamento dei forni richiedeva una sosta di almeno quattro ore per la pulizia delle griglie dei focolari dalle scorie del coke, perció la capacitá massima di cremazione dei forni di Auschwitz-Birkenau era di 1.040 cadaveri al giorno.
Nell' ipotesi della realtá delle gasazioni omicide, considerando la percentuale dei bambini e ragazzi tra i cadaveri dei gasati, nonche il loro peso medio in funzione dell' etá, la capacitá di cremazione giornaliera sarebbe aumentata di 6/5 a 1.248 cadaveri al giorno. Ció non significa che le SS di Auschwitz avessero ordinato i forni in previsione della cremazione di 1.248 o anche di 1.040 cadaveri al giorno: queste sono soltanto delle cifre massime teoriche.
Tenendo conto di tutte le circostanze, si puó affermare che la Bauleitung di Auschwitz aveva ordinato alla ditta Topf le 46 muffole di Birkenau in previsione della mortalitá, nei periodi più cruciali, di circa 500 detenuti al giorno su una forza media prevista di 200.000 detenuti. La capacitá di cremazione dei crematori era dunque perfettamente adeguata all' aumento della forza del campo decisa da Himmler in previsione di una eventuale epidemia di tifo futura.
Qualcuno, argomentando astrattamente, obietta che la capacitá di cremazione di 1.040 cadaveri al giorno era eccessiva. In effetti, nell' agosto 1942 ad Auschwitz morirono in media 269 detenuti al giorno, perció la capacitá massima di cremazione era quasi 4 volte superiore al numero effettivo dei decessi, e ció dimostrerebbe l' intenzione omicida delle SS di Auschwitz.
A questa obiezione si può rispondere che in Germania, nel 1939,esistevano 131 crematori con circa 200 forni che avevano una capacitá massima di cremazione di circa 4.000 cadaveri al giorno; ma il numero dei decessi dell' intero anno fu di circa 102.000, in media circa 280 al giorno. Dunque i crematori tedeschi avevano una capacitá massima di cremazione 14 volte superiore al numero effettivo dei decessi: ció dimostra forse che i nazisti avevano l' intenzione di sterminare la popolazione civile tedesca?
Ricapitolando, Pressac assume una capacitá di cremazione massima dei forni di Auschwitz-Birkenau che é all' incirca il quadruplo di quella reale e un consumo minimo di coke per ogni cremazione che é all' incirca un quinto del consumo medio effettivo. Ció significa che le sue affermazioni riguardo alla cremazione in massa dei presunti gasati sono tecnicamente e storicamente infondate.
Lo studio dei forni crematori di Auschwitz-Birkenau offre tuttavia anche prove dirette che confutano la tesi delle gasazioni in massa. Le prove più importanti sono tre.
La prima prova si riferisce alla previsione delle SS riguardo al numero dei cremati nel marzo 1943. La nota per gli atti della Bauleitung del 17 marzo 1943 espone la stima del consumo di coke previsto per i quattro crematori di Birkenau. Il tempo di attivitá dei crematori indicato é di 12 ore. La lettera menziona anche il consumo di coke previsto, sicché si può calcolare il quantitativo di cadaveri che era possibile cremare: circa 360 cadaveri emaciati di adulti al giorno. Dal 1 al 17 marzo la mortalità media di Birkenau fu di 292 detenuti al giorno, che, in termini di consumo di coke, rappresenta l' 80% della previsione delle SS. Ció significa che questa previsione è stata calcolata sulla base della mortalità media effettiva piú un 20% come margine di sicurezza e non include affatto i presunti gasati, i quali, in questo periodo, secondo il Kalendarium di Auschwitz, furono 1.100 al giorno. Se dunque la cremazione dei cadaveri dei presunti gasati non fu prevista dalla Bauleitung, ciò significa che non ci fu alcuna gasazione omicida.
La seconda prova riguarda il consumo di coke dei crematori di Auschwitz-Birkenau. Dal 1 marzo al 25 ottobre 1943 ai crematori di Auschwitz- Birkenau furono fornite complessivamente 641, 5 tonnellate di coke. In questo periodo il numero dei detenuti morti di morte naturale fu di circa 27.300, quello dei presunti gasati secondo il Kalendarium di Auschwitz di circa 118.300, complessivamente circa 145.600 morti; ora, per i detenuti morti di morte naturale risulta una disponibilità media di coke di circa 23,5 kg per ogni cadavere, che concorda perfettamente con i consumi dei forni; per i presunti gasati più i detenuti morti di morte naturale, invece, risulta una disponibilità di 4,4 kg, il che é termotecnicamente impossibile. Perció il quantitativo di coke fornito ai crematori dal marzo all' ottobre 1943 dimostra che i crematori hanno cremato soltanto i cadaveri dei detenuti immatricolati morti di morte naturale e, conseguentemente,che non c' è stata nessuna gasazione in massa.Ricordo che, secondo la storiografia sterminazionista, in questo periodo non furonomai usate " fosse di cremazione ".
La terza prova concerne la durata della muratura refrattaria dei forni crematori. Nel suo ultimo libro Pressac afferma che ad Auschwitz ci furono 775.000 morti, di cui almeno 675.000 furono cremati nei crematori di Birkenau. La cifra di cremati addotta da Pressac é tecnicamente impossibile. L' ing. Rudolf Jakobskàtter, parlando, nel 1941, dei forni Topf con riscaldo elettrico del crematorio di Erfurt, dice con orgoglio che il secondo forno era riuscito ad eseguire 3.000 cremazioni, mentre normalmente la durata della muratura refrattaria dei forni era di 2.000 cremazioni. Il forno Topf a 2 muffole di Gusen resistette a circa 3.200 cremazioni, dopo di che fu necessario smantellarlo e sostituire la sua muratura refrattaria. La durata di una muffola fu dunque di circa 1.600 cremazioni. Ora, anche supponendo che i forni di Auschwitz-Birkenau fossero stati usati fino al limite estremo di 3.000 cremazioni per ogni muffola, complessivamente avrebbero potuto cremare circa 156.000 cadaveri – incidentalmente, secondo Pressac il numero totale delle vittime tra i detenuti fu di 130.000 – , mentre la cremazione di 675.000 cadaveri avrebbe richiesto almeno quattro sostituzioni complete della muratura refrattaria di tutte le muffole: per i crematori II e III, sarebbero state necessarie 256 tonnellate di materiale refratta soltanto rio e un tempo di lavoro di circa 7.200 ore.
Tuttavia, negli archivi della Bauleitung, che furono lasciati "intatti" dalle SS di Auschwitz e che Pressac ha esaminato integralmente, non esiste traccia di questi enormi lavori, perció questi lavori non sono mai stati eseguiti.Dunque la cremazione di 675.000 cadaveri nei forni crematori é tecnicamente impossibile, di conseguenza ad Auschwitz-Birkenau non è stato perpetrato alcuno sterminio in massa.
Veniamo ora alla questione delle camere a gas omicide.
La tesi di fondo di Pressac é che i crematori II e III furono progettati e costruiti come normali installazioni igienico-sanitarie, ma furono successivamente trasformati in strumenti criminali installando nel loro seminterrato camere a gas omicide. Non c' è dubbio che a partire dalla fine del 1942 il seminterrato dei crematori II e III abbia subito varie trasformazioni rispetto al progetto iniziale, come non c' è dubbio che la sala dei forni, per quanto concerne il loro numero e la loro capacitá di cremazione, non ha subito alcuna modifica rispetto al piano iniziale.
Come spiegare questa incongruenza?
Se i crematori II e III erano stati progettati come semplici installazioni sanitarie, adeguate per il tasso di mortalitá naturale del campo, la loro trasformazione in strumenti di sterminio in massa avrebbe richiesto un corrispondente ampliamentodella capacitá di cremazione dei forni, ma ció non è accaduto. A Pressac non resta dunque che triplicare o quadruplicare la capacitá di cremazione reale dei forni e dichiarare, contraddittoriamente, che dei forni progettati in una prospettiva sanitaria potevano far fronte senza difficoltà anche ad uno sterminio in massa.
La realtá è ben diversa.
L' installazione nei crematori II e III di una camera a gas di 210 m2 (tale era la superficie del Leichenkeller 1 o camera mortuaria seminterrata 1) in cui, secondo Pressac, si sarebbero potute gasare senza difficoltá 1.800 vittime (ma i testimoni oculari parlano anche di 3.000), per la cremazione in giornata dei cadaveri, avrebbe richiesto 75 muffole, in luogo delle 15 esistenti, le quali, per la cremazione dei corpi delle vittime, avrebbero impiegato cinque giorni, creando un gravissimo ostacolo al processo di sterminio. Il fatto dunque che la sala dei forni non sia stata trasformata, dimostra che le trasformazioni dello scantinato non erano criminali.
Il progetto finale delle SS, quello effettivamente realizzato, secondo Pressac fu la trasformazione del Leichenkeller 1 in camera a gas omicida e del Leichenkeller 2 in spogliatoio. A sostegno della sua tesi, Pressac adduce una serie di indizi, i piú importanti dei quali sono ricollegabili agli impianti di ventilazione dei crematori e ai Gasprüfer.
E` noto che, nelle camere a gas di disinfestazione, a causa dell' estrema tossicitá dell' acido cianidrico, il problema della ventilazione era di importanza vitale.
Pressac afferma che un elemento importante della trasformazione criminale dei crematori fu l' aumento della portata dei ventilatori della presunta camera a gas omicida da 4.800 a 8.000 m3 di aria all' ora. Questo aumento sarebbe stato deciso per sopperire all' inconveniente derivante dal fatto che questo impianto di ventilazione era stato progettato e costruito per una normale camera mortuaria. Ciò dimostrerebbe la trasformazione del locale da camera mortuaria in camera a gas omicida. Per simmetria, Pressac dichiara che anche la portata del ventilatore del presunto spogliatoio fu aumentata da 10.000 a 13.000 m3 di aria all' ora. La fonte addotta da Pressac a sostegno di questa variazione della portata dei ventilatori é lafattura della Topf n.729 del 27 maggio 1943 per il crematorio III.
Lo studio degli impianti di ventilazione dei crematori II e III dimostra al contrario che il Leichenkeller 1 non fu trasformato in una camera a gas omicida. Anzitutto, la fattura della Topf menzionata da Pressac prevede per la presunta camera a gas omicida un ventilatore con portata di 4.800 m3 di aria all' ora, non di 8.000, e per il presunto spogliatoio un ventilatore con portata di 10.000 m3, non di 13.000. Dunque Pressac ha falsificato i dati di questo documento.
In secondo luogo considerando i volumi dei due locali, risulta che per la presunta camera a gas omicida le SS avevano previsto 9,5 ricambi di aria all' ora, mentre per il presunto spogliatoio 11 ricambi di aria all' ora: dunque la camera a gas era meno ventilata dello spogliatoio!
Ciò è tecnicamente insensato.
Nell' opera classica dell' ing. Heepke sulla progettazione dei crematori si legge che per le camere mortuarie bisognava prevedere come minimo 5 ricambi di aria all' ora, ma in caso di intenso utilizzo fino a 10 ricambi. Ció dimostra che l' impianto di ventilazione del Leichenkeller 1, con i suoi 9,5 ricambi di aria all' ora, é stato progettato e costruito per una camera mortuaria e che il locale in questione non è stato trasformato in camera a gas omicida. A titolo di confronto, per le camere a gas di disinfestazione ad acido cianidrico con sistema DEGESCH-Kreislauf, cioé a circolazione di aria calda, si prevedevano 72 ricambi di aria all' ora.
Riassumendo, Pressac afferma che i crematori II e III furono progettati e costruiti come normali impianti igienico-sanitari, ma poi furono trasformati in strumenti di sterminio; tuttavia, dopo la presunta trasformazione criminale, la sala forni dei due crematori aveva ancora lo stesso numero di forni che era stato previsto per la mortalità naturale dei detenuti, e i ventilatori del Leichenkeller 1 avevano ancora lastessa portata che era stata prevista per normali camere mortuarie. Ma allora in che cosa consiste la trasformazione criminale dei crematori?
Passiamo alla questione dei Gasprüfer. Il 26 febbraio 1943 l'amministrazione del crematorio II di Auschwitz chiese alla ditta Topf l' invio di 10 Gasprüfer. A Mosca Pressac ha scoperto la lettera di risposta della ditta Topf, datata 2 marzo 1943, nella quale i Gasprüfer vengono definiti " Anzeigegeräte für Blausäure-Reste ", apparati di indicazione per residui di acido cianidrico. Pressac scrive ingenuamente che questo documento costituisce la prova definitiva dell'esistenza di una camera a gas omicida nel crematorio II. In realtá questo documento puó essere al piú un indizio, non una prova definitiva, dell'esistenza di una camera a gas, ma che questa camera a gas sia omicida, è una semplice affermazione arbitraria di Pressac.
Riguardo a questo documento osservo sommariamente quanto segue:
a) i Gasprüfer, nella terminologia tecnica tedesca, erano dei semplici analizzatori di gas di combustione;
b) l' apparato che veniva utilizzato per la prova dei residui dell' acido cianidrico si chiamava " Gasrestnachweisgerät für Zyklon", cioè apparato di prova del gas residuo per lo Zyklon;
c) questo apparato era in dotazione obbligatoriamente a tutte le installazioni di disinfestazione ad acido cianidrico, comprese quelle di Auschwitz;
d) la richiesta di 10 analizzatori di gas combusti ad una ditta che produceva impianti di combustione è perfettamente comprensibile: ma per quale motivo la Bauleitung di Auschwitz avrebbe dovuto richiedere 10 apparati di prova dei residui di acido cianidrico ad una ditta che produceva appunto impianti di combustione, invece di ordinarli direttamente alle ditte che li distribuivano insieme allo Zyklon B e alle maschere antigas – cioè la DEGESCH e, in particolare, la ditta Tesch und Stabenow – con le quali l' amministrazione di Auschwitz era regolarmente in contatto?
La conclusione è che i 10 Gasprüfer erano dei semplici analizzatori dei gas di combustione per i crematori. Essi erano destinati ai 10 condotti del fumo dei crematori II e III oppure alle 10 canne fumarie dei crematori di Birkenau.
Il documento scoperto da Pressac è perciò senza dubbio un falso.
Come ho accennato all' inizio, Pressac ha voluto studiare tecnicamente la questione dei forni crematori e delle presunte camere a gas omicide di Auschwitz-Birkenau, però non avendo la minima competenza tecnica per intraprendere tale studio. Tuttavia egli ha dovuto accettare il principio metodologico, propugnato dai revisionisti secondo il quale, dove esiste discordanza tra le testimonianze e la tecnica, é quest' ultima che deve prevalere. In tal modo egli ha aperto una falla irreparabile nella storiografia sterminazionista, perché la tecnica dimostra l' impossibilità materiale di uno sterminio in massa ad Auschwitz-Birkenau.
I colleghi di Pressac hanno capito immediatamente la pericolosità di questa metodologia e sono corsi prontamente ai ripari. In effetti, il libro ANATOMY OF THE AUSCHWITZ DEATH CAMP, recentemente pubblicato da Yisrael Gutman e Michael Berenbaum in collaborazione con l' Holocaust Memorial Museum di Washington, piú che contro i revisionisti, sembra diretto contro Pressac: esso costituisce infatti una ferma negazione della metodologia storiografica di Pressac, di cui smentisce le tre piú importanti conclusioni, affermando che:
1) tutti i crematori di Birkenau furono progettati fin dall' inizio a scopo criminale 2) il numero delle vittime di Auschwitz fu di 1.100.000 3) i crematori di Birkenau potevano cremare 8.000cadaveri al giorno.
Con ciò il dogmatismo teologico propugnato nel 1979 dagli storici francesi, incautamente violato da Pressac, è ora pienamente ristabilito: a Pressac non resterà che fare pubblica ammenda. A quanto pare, egli ha già cominciato a farla, prestando la sua collaborazione suicida a questo libro.
Per i revisionisti, invece, i libri di Pressac rappresentano la fine di una leggenda.
I “NUOVI” DOCUMENTI SU AUSCHWITZ DI BILD.DE:
UNA BUFALA GIGANTESCA?
Nella foto a sin. Il sionista netanyahubenjamin , con Ralf Georg Reuth, BERLINO, Thu Aug 27, 2009,cercano le camere a gas di Birkenau, sforzandosi di capire di mappe e disegni tecnici.BW5a
_____________
Di Carlo Mattogno (2008)
L’8 novembre 2008 il giornale tedesco Bild.de ha pubblicato un articolo a firma dello storico Ralf Georg Reuth intitolato “Bild mostra i documenti dell’atrocità che sono stati trovati ora a Berlino. I disegni costruttivi di Auschwitz”[1], che in Italia ha provocato eccitazione e commenti tracotanti contro i “negazionisti”.
___________________ …e lui ,prontamente,le esibisce all'incompetenza dell'ONU!
Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu United Nations General Assembly at U.N. headquarters in New York, September 24, 2009.BW5a.
___________________
Sebbene l’importanza della scoperta sia già stata drasticamente ridimensionata da due storici ebrei, Israel Gutman e Robert Jan van Pelt[2], vale comunque la pena di approfondire la questione, se non altro a beneficio di quei creduloni sempre pronti ad ingoiare senza battere ciglio qualunque panzana – si tratti di testimonianze, come quella di Shlomo Venezia[3], o di documenti, come quelli in oggetto – purché porti acqua al mulino olocaustico.
Reuth informa che «a quanto pare (angeblich)[!] nello sgombero di un appartamento di Berlino» sono state trovate 28 piante originali risalenti agli anni 1941-1943.
«Sono documenti dell’atrocità. Accuratamente disegnati. Planimetrie, piante e viste laterali di edifici, tutto su carta ingiallita, generalmente in scala 1:100. Sono piante del campo di sterminio nazionalsocialista di Auschwitz».
Tra questi documenti ci sono anche «un impianto di disinfestazione (Entlausungsanlage) con camera a gas (Gaskammer)»[4] e un crematorio[5].
Documento 1
Documento 2
Viene anche dato risalto al fatto che
«una delle planimetrie è stata siglata personalmente, con matita verde, dall’allora Reichsführer-SS e capo organizzatore del genocidio Heinrich Himmler»,
ma senza specificare di quale planimetria si tratti.
Il direttore archivista dell’Archivio Federale (Bundesarchiv) di Berlino, Hans-Dieter Kreikamp
[a destra nella foto.BW5a]
ha attribuito un’ «importanza straodinaria» ai documenti, dichiarando al giornale che
«i piani sono le testimonianze autentiche del genocidio degli Ebrei europei sistematicamente progettato».
Dal canto suo lo storico aggiunge che «i documenti confutano inoltre gli ultimissimi negatori dell’Olocausto». Indi descrive le due terribili “prove”.
«Il documento dell’atrocità più sconvolgente: la pianta di un “impianto di disinfestazione” (Entlausungsanlage). Da uno “spogliatoio” (Auskleideraum) delle porte conducono ad una “sala lavaggio e doccia” (Wasch- und Brauseraum) e di lì ad un “vestitoio” (Ankleideraum). Ma dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” [locali di compensazione della pressione] in una “camera a gas”. Sulla pianta è scritto nero su bianco: “Gaskammer”.
Il fatto che nella grossa “camera a gas” di 11,66 x 11,20 metri[6] non si dovessero disinfestare capi di vestiario coll’agente a base di acido cianidrico solitamente usato dalle SS, bensì gasare esseri umani, dev’essere considerato molto probabile (sehr wahrscheinlich). Infatti (denn) la pianta, che fu disegnata ad Auschwitz da un “detenuto n. 127”[7], risale all’8 novembre 1941. In questo periodo il comandante del campo Rudolf Höss faceva già esperimenti coll’agente a base di acido cianidrico “Zyklon-B”, col quale nel campo principale di Auschwitz fece uccidere detenuti malati e prigionieri di guerra russi».
Reuth rileva poi che il presunto sterminio sistematico degli Ebrei europei non fu deciso alla conferenza di Wannsee, ma ben prima, e commenta:
«Non è noto se l’“impianto di disinfestazione” di Auschwitz-Birkenau fu costruito esattamente come fu disegnato nei piani. Certo è che le gasazioni in massa di Ebrei europei ad Auschwitz cominciarono nella primavera del 1942 in una ex casa colonica, la cosiddetta “casa rossa” ».
La seconda “prova” riguarda ovviamente il crematorio.
«Gli Ebrei uccisi furono cremati inizialmente in fosse scavate nel terreno. Già nell’ottobre dell’anno precedente fu presa in considerazione la costruzione di un grosso crematorio. Nel novembre furono poi realizzati i primi disegni. Il piano in possesso di Bild.de mostra un primo schizzo con viste laterali e piante sempre in scala 1:100.
Particolarmente istruttivo: il disegno del piano interrato. Esso mostra i basamenti per i forni crematori, che furono successivamente forniti dalla ditta “Topf und Söhne” di Erfurt. Nella pianta è schizzato anche il “L-Keller” (Leichenkeller: scantinato obitorio), che ha una larghezza di otto metri. I progettisti delle Waffen-SS non avevano stabilito la sua lunghezza. Vi si può leggere: “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” ».
Questo presunto «vero scoop storico», come lo definisce Il Messaggero[8], è in realtà una vera bufala. I documenti in questione sono noti da anni agli specialisti, essendo stati pubblicati da Jean-Claude Pressac tra il 1989 e il 1993. Io stesso li ho consultati a Mosca nel 1995 nell’ Archivio russo di Stato della guerra (Rossiiskii Gosudarstvennii Vojennii Archiv: RGVA).
Nel suo studio Auschwitz: Technique and operation of the gas chambers[9], il ricercatore francese dedicò un capitolo alle “Installazioni di spidocchiamento e disinfestazione nel KGL [campo per prigionieri di guerra] di Birkenau costruzioni BW[10] 5a e 5b” (pp. 53-62) nel quale presentò i progetti originali dell’ “Entlausungsanlage” summenzionata (pianta 801 dell’8 novembre 1941: “Entlausungsanlage für K.G.L., impianto di disinfestazione per il KGL”)[11], comprendenti anche la pianta dell’approvvigionamento idrico e della rete fognaria dell’impianto (pianta 1293 del 9 maggio 1942)[12], la pianta relativa all’installazione al suo interno di una sauna (pianta 1715 del 25 settembre 1942)[13] e quella riguardante la trasformazione della camera a gas del BW 5b in impianto di disinfestazione ad aria calda (pianta n. 2540 del 5 luglio 1943)[14].
Documento 3
Documento 3a
Documento 4
Documento 5
Documento 6
Questi progetti si riferivano a due cosiddette “Entlausungsbaracken” (in realtà strutture in muratura) che furono costruite una nel settore femminile BIa di Birkenau (BW 5a), l’altra nel settore maschile BIb (BW 5b) esattemente secondo i piani. Una lettera redatta il 9 gennaio 1943 dal capo della Zentralbauleitung di Auschwitz, SS-Hauptsturmführer Karl Bischoff, con oggetto “Installazioni igieniche nel K.L. e nel K.G.L. di Auschwitz” elenca appunto tutte le installazioni igieniche presenti nei campi di Auschwitz e Birkenau, tra le quali le due summenzionate, descritte così:
«1 apparato di disinfezione [Desinfektionsapparat] (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda [Heissluftapparat] (ditta Hochheim), così pure una sauna [Saunaanlage] sono installati nella baracca di disinfestazione [Entlausungsbaracke] del campo maschile del KGL, BAI [il BW 5b] e sono in funzione dal novembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico [Kammer für Blausäurevergasung] che è già in funzione dall’autunno del 1942.
1 apparato di disinfezione (ditta Werner) e 1 apparato ad aria calda (ditta Hochheim), così pure una sauna sono installati nella baracca di disinfestazione del campo femminile del KGL, BAI [il BW 5a] e sono in funzione dal dicembre 1942. Inoltre nella baracca di disinfestazione è installata una camera per gasazione con acido cianidrico che è già in funzione dall’autunno del 1942»[15].
E una “Lista degli impianti di disinfestazione, bagni e apparati di disinfezione costruiti nel KL e nel KGL di Auschwitz” stilata dall’impiegato civile della ZentralbauleitungRudolf Jährling il 30 luglio 1943, in riferimento ai «B.W. 5a und 5b» menziona una «Blau[säure]gaskammer», una camera a gas ad acido cianidrico[16]. Il termine “Gaskammer” designava dunque una vera camera di disinfestazione e l’ Entlausungsanlage un vero impianto di disinfestazione.
Del resto, come risulta dal suo testo[17], Pressac non è stato sfiorato neppure lontanamente dall’idea balzana che queste due installazioni fossero state progettate a scopo omicida; e Robert Jan van Pelt, nel suo ponderoso The Case for Auschwitz. Evidence from the Irving Trial[18], non accenna nemmeno fugacemente a una tale possibilità, che non è mai stata avanzata da nessuno storico e da nessun testimone.
Reuth pretende invece che lo scopo criminale dell’impianto di disinfestazione sia «molto probabile» perché, a suo dire, nel novembre 1941 Höss faceva già esperimenti di gasazione omicida con lo Zyklon B. Il riferimento è alla storiella della prima gasazione omicida nel Bunker del Block 11 di Auschwitz, che ho già smantellato da anni[19].
Quanto alla descrizione della pianta secondo la quale «dal vestitoio delle porte vanno anche in due “anticamere” (Vorräume) e da lì, attraverso “Schleusen” in una “camera a gas”», bisogna rilevare che essa è a dir poco maliziosa, perché le parti destra e sinistra dell’impianto di disinfestazione erano simmetriche; e se è vero che dal vestitoio una sola porta conduceva in una sola anticamera e poi, attraverso un locale di compensazione della pressione, nella camera a gas, è altrettanto vero che il medesimo percorso era specularmente possibile anche dallo spogliatoio. Per poter insinuare che la pianta in questione mostri un impianto omicida, Reuth ha infatti taciuto il fatto essenziale che l’Auskleideraum, lo spogliatoio, è designato nella pianta “unreine Seite”, lato contaminato, l’Ankleideraum, il vestitoio, “reine Seite”, parte incontaminata. Ciò spiega chiaramente la finalità e il funzionamento dell’impianto. I detenuti contaminati (infestati da parassiti) entravano nell’ Auskleideraum, si spogliavano nudi e poi entravano attraverso l’apposita porta nel Wasch- und Brauseraum, dove si lavavano; indi, uscendo dalla porta opposta, entravano nell’ Ankleideraum, dove ricevevano e indossavano i vestiti disinfestati.
Parallelamente, infatti, i vestiti contaminati lasciati dai detenuti nell’ l’Auskleideraumvenivano raccolti e trasportati, attraverso il Vorraum e la Schleuse, nella camera a gas dove venivano disinfestati; poi, passando per la seconda porta che dava sull’altra Schleuse e sull’altro Vorraum, venivano riportati nell’ Ankleideraum ai detenuti[20]. Le due anticamere e le due camere di compensazione della pressione non comunicavano e non potevano comunicare l’una con l’altra, per evitare una eventuale contaminazione che avrebbe reso vano l’intero processo di disinfestazione. Per questo Bild.de ha deciso maliziosamente di pubblicare soltanto la sezione della pianta che riguarda la camera a gas[21].
Passiamo alla pianta del crematorio. Anche qui nessuna novità. Essa era già stata pubblicata da Pressac nel libro Les crématoires d'Auschwitz.La machinerie du meurtre de masse[22], documenti 10-11 fuori testo. Si tratta della pianta redatta nel novembre 1941 dall’archietto Werkmann, un impiegato civile che faceva parte della Sezione II/3/3 (Affari edilizi dei campi di concentramento e campi per prigionieri di guerra) [Abteilung II/3/3 (Bauangelegenheiten der KL und KGL)] dell' Hauptamt Haushalt und Bauten (Ufficio centrale bilancio e costruzioni).
Reuth richiama l’attenzione sul fatto che la lunghezza del Leichenkeller non è menzionata, ma al suo posto appare l’indicazione “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno”. Nel suo resoconto già citato, Il Messaggero a questo punto, tagliando e rimettendo insieme a casaccio spezzoni del testo di Bild.de, commenta:
«La lunghezza esatta del forno crematorio non viene ancora definita e sarà fissata “a seconda delle esigenze”. Un particolare, questo, decisamente macabro che secondo il direttore dell'Archivio federale tedesco Hans Dieter Kreikamp “è una prova autentica del genocidio degli ebrei europei sistematicamente progettato dal regime nazista”».
La pianta in discussione era la revisione da parte di Berlino del progetto eseguito ad Auschwitz dall’SS–Untersturmführer Walter Dejaco il 24 ottobre 1941 su suggerimento dell’ingegnere della Topf Kurt Prüfer, parimenti pubblicato da Pressac (documento 9), in cui il Leichenkeller, al pari della pianta di Werkmann, è disegnato solo in parte, ma reca l’indicazione delle misure: m 8 x 60. Dato che la scala del progetto è di 1:100, si comprende facilmente perché il Leichenkeller non sia stato disegnato per intero. La pianta di Werkmann ha solo l’indicazione della larghezza, 8 metri, sicché la scritta “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno” fa pensare più a una riduzione che a un aumento della lunghezza di 60 metri. In effetti, nei crematori di Birkenau questo locale divenne il Leichenkeller 2, che era lungo 49,49 metri.
Il bello è che il libro di Pressac fu prontamente tradotto anche in tedesco[23], sicché Bild.denon ha alcuna giustificazione.
Il contesto storico reale nulla concede all’ipotesi che il crematorio di questo progetto servisse a scopo di sterminio. Pressac afferma esplicitamente che «il fabbricato concepito da Prüfer e migliorato da Werkmann, non era stato progettato a questo scopo», con riferimento ai «trattamenti omicidi col gas»[24].
Nel mio studio Genesi e funzioni del campo di Birkenau[25] ho documentato che il Kriegsgefangenenlager di Birkenau fu progettato il 30 ottobre 1941 per 125.000prigionieri di guerra sovietici che dovevano essere impiegati in lavori di costruzione nel quadro del “Generalplan Ost” (“progetto generale Est”), un piano di colonizzazione tedesca dei territori orientali incorporati dalla Germania (soprattutto i ReichsgaueDanzica-Prussia orientale e Wartheland) per mezzo di manodopera coatta – prigionieri di guerra sovietici, poi Ebrei – concentrata nei campi di Birkenau, di Lublino e di Stutthof. In tale contesto rientra anche la decisione di costruire il crematorio in oggetto, che è spiegata così in una lettera di Bischof, all’epoca Bauleiter di Auschwitz, al Rüstungskommando (comando degli armamenti) di Weimar del 12 novembre 1941:
«La ditta Topf & Söhne, impianti tecnici di combustione, Erfurt, ha ricevuto da questo ufficio l’incarico di costruire il più presto possibile un impianto di cremazione, perché al campo di concentramento di Auschwitz è stato annesso un campo per prigionieri di guerra che in brevissimo tempo sarà occupato da circa 120.000 Russi. La costruzione dell’impianto di cremazione è diventata perciò assolutamente necessaria per prevenire epidemie e altri pericoli».
[«Die Firma Topf & Söhne, feuerungstechn. Anlagen, Erfurt hat von der hiesigen Dienststelle den Auftrag erhalten, schnellstens eine Verbrennungsanlage aufzubauen, da dem Konzentrationslager Auschwitz ein Kriegsgefangenenlager angegliedert wurde, das in kürzester Zeit mit ca. 120 000 Russen belegt wird. Der Bau der Einäscherungsanlage ist deshalb dringend notwendig geworden um Seuchen und andere Gefahren zu verhüten»][26].
Himmler, in qualità di «Commissario del Reich per il consolidamento del germanesimo» (Reichskommissar für die Festigung deutschen Volkstums), era responsabile del “Generalplan Ost” e dunque della progettazione e costruzione del campo di Birkenau, perciò c’è poco da stupirsi se qualche pianta fu siglata da lui personalmente «con matita verde».
In questa gigantesca bufala chi fa la figura più grama sono Hans-Dieter Kreikamp e Ralf Georg Reuth. Si stenta a credere che uno storico e un «direttore archivista dell’Archivio Federale di Berlino» abbiano dato prova di un’ignoranza storica così grottesca.
E se questi sono gli storici e gli archivisti tedeschi, i dilettanti allo sbaraglio italiani sono in ottima compagnia.
Carlo Mattogno
12 novembre 2008
Bild.De: Bufalaecontrobufala
Il 16 febbraio 2009 è stata allestita a Berlino una esposizione delle piante di Auschwitz trovate nel novembre 2008 e presentate dal quotidiano Bild.De nel numero dell’8 novembre 2008 come una scoperta sensazionale, anzi sconvolgente, perché, per la prima volta su una pianta, era «scritto nero su bianco “Gaskammer”», camera a gas. Ho già dimostrato che questi documenti erano noti da anni e che la “Gaskammer” in questione era semplicemente la camera a gas di dinfestazione ad acido cianidrico progettata e costruita nelle due “baracche di spidocchiamento” dei settori BIa e BIb di Birkenau, designate appunto “Entlausungsbaracken” e indicate come BW 5a e 5b[1]. Foto satellitare dell'impianti in questione. Cerchiato di rosso.BW5a
Bild.De è ritornato sulla questione proprio nel numero del 16 febbraio, con un articolo intitolato Perlaprimavoltavengonomostratiidocumentidell’atrocitàinGermania. IdisegnicostruttividiAuschwitz[2]. A differenza della pubblicazione precedente, però, in cui campeggiavano le piante dell’edificio di accesso (Eingangsgebäude) al campo di Birkenau, della “Gaskammer” e del crematorio, in questo numero del quotidiano appare soltanto il crematorio[3]. La pianta della “Gaskammer” è scomparsa. E non solo la pianta. Ecco infatti il relativo commento:
«L’autenticità dei documenti è stata verificata dall’Archivio Federale. Nella perizia si dice: “Il risultato è l’accertamento che sull’autenticità delle fonti di storia contemporanea non sussiste alcun dubbio”. Nell’esposizione tra l’altro vengono mostrati i progetti di ampliamento del campo principale. Un primo disegno in bella copia del futuro KL Birkenau, che fu costruito per ordine di Himmler. Unapiantadelcrematorioconspogliatoioecameraagas»(corsivo mio).
In precedenza Bild.De aveva parlato di «un impianto di disinfestazione (Entlausungsanlage) con camera a gas (Gaskammer)» e di un crematorio, che aveva descritto così:
«Particolarmente istruttivo: il disegno del piano interrato. Esso mostra i basamenti per i forni crematori, che furono successivamente forniti dalla ditta “Topf und Söhne” di Erfurt. Nella pianta è schizzato anche il “L-Keller” (Leichenkeller: scantinato obitorio), che ha una larghezza di otto metri. I progettisti delle Waffen-SS non avevano stabilito la sua lunghezza. Vi si può leggere: “Lunghezza a seconda delle esigenze che si presenteranno”».
Ora invece la «camera a gas» trasmigra inspiegabilmente dall’impianto di disinfestazione al crematorio, che acquisisce per di più anche uno «spogliatoio».
Mentre prima si poteva attribuire la bufala soprattutto all’ ignoranza storica dei redattori, nella controbufala la malafede è evidente.
Ma non è per questo che ho esposto questa sordida operazione giornalistica, quanto piuttosto per mostrare la metodologia dei giornalisti (e degli storici) di regime.
Il testo di Bild.De dell’8 novembre 2008 fu semplicemente tradotto – o riassunto – e come tale apparve in una miriade di mezzi di informazione.
Ci fosse stato un giornalista cui sia balenato il dubbio, o che abbia soltanto sentito se non il dovere, almeno la curiosità di ascoltare il parere di uno specialista!
Un’eco della controbufala in Italia
Auschwitz 1,2,3 Gennaio 2012,BW 5a,impianto disinfestazione. BW5a
Il Messaggero del 22 febbraio 2009, nella rubrica “Esteri”, rende conto dell’esposizione in un breve articolo di Walter Rauhe con un titolo illuminante:Mostraanti–negazionismo. Espostiiprogettipercostruirela“fabbricadellamorte”. Questo resoconto si arricchisce di ulteriori corbellerie. Apprendiamo così che le piante conterrebbero i
«piani per la costruzione del più gigantesco e moderno campo nazista munito di 174 baracche in grado di accogliere ciascuna fino a 744 deportati (130mila in tutto), progettiperl’aerazionedicamereagas»(!),
e che il ritrovamento avrebbe rappresentato
«una piccola sensazione storica [?] dal momento che documentava le concrete intenzioni del regime nazista di erigere ad Auschwitz un campo di sterminio di dimensioni gigantesche ancor prima dell’approvazione della soluzione finale della questione ebraica e quindi dell’Olocausto durante la famigerata conferenza di Wannsee il 20 gennaio del 1942.
I piani scoperti dalla BildZeitung e ora esposti a Berlino risalgono infatti alla primavera del 1941 e sono controfirmati da Heinrich Himmler, il capo delle SS ed uno dei più stretti collaboratori di Adolf Hitler.
Ancor prima dell’invasione dell’Unione Sovietica e dell’avvio sistematico della Shoah, il regime nazista aveva ben chiaro in testa le dimensioni e le modalità dello sterminio degli ebrei europei, camere a gas e forni crematori compresi».
Lasciando da parte il significato attribuito alla conferenza di Wannsee, che risale ad una trentina d’anni fa ed è stato ampiamente superato e invalidato dalle ricerche olocaustiche degli ultimi due decenni, la pretesa che il campo di Birkenau fosse stato progettato fin dall’inizio come “campo di sterminio” è francamente ridicola.
Primo, perché il primo progetto del campo di Bireknau, denominato «Rapporto esplicativo del progetto preliminare per la nuova costruzione del campo per prigionieri di guerra delle Waffen-SS, Auschwitz, Alta Slesia» (ErläuterungsberichtzumVorentwurffürdenNeubaudesKriegsgefangenenlagersderWaffen–SS, AuschwitzO/S)[4], proprio quello che prevede le 174 baracche summenzionate, risale al 30 ottobre 1941, non già «alla primavera del 1941».
Secondo, perché esso fu progettato come Campo per prigionieri di guerra sovietici (Kriegsgefangenenlager), non per detenuti ebrei.
Terzo, perché il campo di Birkenau fu istituito come campo di lavoro nel quadro del “GeneralplanOst”, come ha mostrato lo storico olocaustico Jan Erik Schulte nell’articolo articolo intitolato Dal campo di lavoro al campo di sterminio. Storia della genesi di Auschwitz-Birkenau 1941-1942 (VomArbeits– zumVernichtungslager. DieEntstehungsgeschichtevonAuschwitz–Birkenau1941/42)[5].
Di ciò mi sono occupato nell’articolo Genesi e funzioni del campo di Birkenau. 2008[6].
Quarto, perché, come riconoscono due tra i più considerati storici olocaustici di Auschwitz, Jean-Claude Pressac e Robert Jan van Pelt, il progetto del campo di Birkenau non considerava ovviamente la presenza di camere a gas omicide.
Il nostro valente giornalista aggiunge:
«“La realtà dell’Olocausto non ha più bisogno di essere provata”, dichiara un portavoce della casa editrice tedesca [Springer, che ha organizzato l’esposizione]. “Ma i progetti originali che mostrano i piani per il campo, le camere a gas dove centinaia di migliaia di deportati ed ebrei vennero assassinati col gas Zyklon B, dimostra ancora una volta la dimensione di questi crimini».
Ribadisco, a costo di apparire tedioso, che non esiste alcun piano di una camera a gas omicida.
Ed ecco la chicca finale:
«Ora possono visionare di prima mano questi progetti dell’orrore nutrendo magari l’augurio che un giorno a guardarseli sia anche il vescovo Williamson e tutti gli altri negazionisti».
Per quanto mi riguarda, caro Walter Rauhe, questi progetti li ho visionati e me li sono guardati a Mosca fin dal 1995, li ho fatti fotocopiare e li ho studiati con tutta calma. Per la precisione, ho visionato 88.200 pagine di documenti originali, di cui quelli trovati a Berlino sono un’infima parte. E proprio questa documentazione mi ha convinto profondamente che ad Auschwitz-Birkenau non esistettero mai camere a gas omicide.
3)La“pensatrice”italianadell’anti-“negazionismo”
Questi esempio mostrano a sufficienza che la metodologia di questa gente è quella del copia-incolla. La verifica delle fonti non esiste. Ciò dipende dal fatto che, soprattutto in certi campi, non è lecito verificare. Qualcuno ha già pensato per loro. Qualcuno ha già scritto per loro. Essi devono soltanto copiare-incollare.
In campo olo-revisionistico, questo qualcuno è Pierre Vidal-Naquet, un dilettante della storia contemporanea che aveva acquisito qualche nozioncina storica dagli scritti di Georges Wellers e aveva tratto il suo impianto argomentativo dall'articolo di Nadine Fresco Lesredresseursdemorts[7], uno dei primi saggi contro il revisionismo in cui erano già fissati quasi tutti gli argomenti capziosi adottati dagli olo-propagandisti successivi[8].
In Italia, per nostra somma fortuna, abbiamo addirittura la versione femminile di Vidal-Naquet: Valentina Pisanty, una dottoressa in semiotica incautamente prestata alla storiografia. Costei fu infatti indotta a redigere un'opera di una mediocrità disarmante, dal titolo L’irritantequestionedellecamereagas. Logicadelnegazionismo[9], in cui pretendeva di dimostrare che il revisionismo non è una storiografia scientifica, ma una strategia ingannatrice, basata su una metodologia fallace, mirante a negare per scopi inconfessabili (ma sempre riconducibili all' “antisemitismo”) la realtà della Shoah. Dato che la dottoressa prendeva in esame anche qualche presunta fallacia tratta da qualcuno dei miei scritti, risposi prontamente col libro L'«irritante questione» delle camere a gas ovvero daCappuccettorossoad…Auschwitz. RispostaaValentinaPisanty, pubblicato nel 1998 dall'Editore Graphos di Genova. Riassumo lapidariamente: Laqualificazioneelacompetenzaspecifica della Pisanty in campo storiografico sono nulle, trattandosi di una dottoressa in semiotica, esperta in favole, con specializzazione in Cappuccetto Rosso.
Il titolo stesso del libro è ingannatore, in quanto fa riferimento a una presunta frase di Paul Rassinier contenuta in una inesistente “seconda edizione” del suo memoriale Passagedelaligne.
La bibliografia è in massima parte un’accozzaglia eterogenea di opere di argomento disparato in cui quelle olocaustiche sono poche, mal lette e mal digerite, senza alcuna opera in tedesco, lingua fondamentale per questo genere di studi, che la dottoressa Pisanty ignorava. Preselezioneopportunisticadelleopererevisionistiche: Le pochissime opere revisionistiche citate sono il frutto di una spietata preselezione, grazie alla quale la Pisanty ha escluso dal suo campo di indagine tutti gli studi più documentati e più recenti.
Metodologia:
– Citazioni: Si dividono in due grandi categorie: quella dei testi che la Pisanty ha letto e che indica con il riferimento esatto (autore, titolo, anno di pubblicazione e pagina) e quella dei testi che non ha letto ma che finge di aver letto e spaccia per sue. La seconda categoria comprende parecchie citazioni di seconda o di terza mano per le quali l’Autrice non sa indicare il riferimento completo.
– Documenti: La Pisanty non fornisce i riferimenti esatti neppure dei documenti che cita. La cosa non stupisce, perché essa li trae quasi sempre dai testi revisionistici.
– Plagiostorico–criticoeargomentativo: Nel libro della Pisanty l’appropriazione indebita (senza riferimento alla fonte) di fonti o documenti di altre opere non è un fenomeno sporadico, ma una vera e propria metodologia. Il suo intero libro è, in massima parte, il risultato di un inverecondo saccheggio di testi altrui, revisionistici e non revisionistici, dalle chiavi interpretative alle argomentazioni, dalle obiezioni agli inquadramenti storici, fino alle osservazioni e alle spiegazioni più minute. Ciò che la Pisanty ha aggiunto di proprio, sono soltanto delle osservazioni semiotiche decisamente insulse o cavillose. Ho elencato minuziosamente i passi originali e i passi da lei plagiati. Per quanto riguarda l’aspetto qui considerato, i testi saccheggiati sono quelli di Deborah Lipstadt[10] e di Pierre Vidal-Naquet[11].
Nel mio studio citato sopra Olocausto: dilettantiallosbaraglio avevo già confutato le elucubrazioni sofistiche dei suoi due maestri, Vidal-Naquet e Lipstadt[12], e si comprende facilmente perché la nostra esperta in favole non l’abbia menzionato neppure di sfuggita.
– Plagiodeimieitesti: In relazione al “rapporto Gerstein”, la Pisanty plagia sfrontatamente addirittura il mio libro[13], non solo le mie indicazioni storiografiche relative alla storia processuale dei documenti, ma addirittura le critiche da me rivolte agli altri autori revisionisti, appropriandosi di esse senza il minimo riferimento alla fonte e spacciandole per sue!
Argomenti e strategie ermeneutiche:
– La «premessaindiscussa»: La Pisanty parte dall’assunzione aprioristica, fideistica e indiscutibile della realtà storica dello sterminio ebraico. Da ciò scaturiscono due princìpi ermeneutici aberranti che infirmano radicalmente i suoi argomenti: ilprimatodellatestimonianzasuldocumento (in senso stretto) e l’accettazioneaprioristicadell’attendibilitàdellatestimonianza. Il primo principio comporta il rovesciamento della normale metodologia storiografica. Il secondo conduce inevitabilmente alla negazione del più elementare senso critico, alla fede cieca nella veridicità delle testimonianze e, alla fine, al loro travisamento sistematico. Ciò si concretizza infatti nei seguenti
– Sofismiepistemologici
Confondendo «iprincipifondamentalideldiritto» con i principi fondamentali della storiografia, la Pisanty pretende che le testimonianze abbiano «valore di prova», e presume, sempre fideisticamente, che:
1) tutte le testimonianze siano indipendenti,
2) tutte le testimonianze siano veridiche e contengano solo errori marginali e involontari,
3) al di là di questi errori esse abbiano tutte un «nucleo essenziale» di verità.
Sulla base di questi presupposti dogmatici, la Pisanty si lambicca il cervello nel tentativo di spiegare razionalmente le assurdità e le contraddizioni di cui esse sono cosparse, minimizzandole, arrampicandosi sugli specchi per escogitare una spiegazione plausibile, appellandosi all’ ignoranza generale delle circostanze (che è in realtà soltanto sua), tacendole semplicemente, quando sono troppo assurde e troppo contraddittorie.
Confutazionedelle “confutazioni”:
Nel capitolo III ho confutato le “confutazioni” della Pisanty riguardo a:
– Il diario di Anna Frank
– Il diario del dottor Kremer
– I “Protocolli di Auschwitz”
– I manoscritti dei membri del Sonderkommando
– Le fotografie
– IlcapitoloIV, IlrapportoGersteineil “campodisterminio” diBelzec, contiene la replica, punto per punto, a tutte le argomentazioni addotte dalla Pisanty contro il mio studio IlrapportoGerstein: Anatomiadiunfalso.
La Pisanty in questo libro preseleziona alcuni capitoli nei quali preseleziona alcune obiezioni, quasi sempre marginali ed isolate dal contesto. Con questa tecnica ella frantuma la struttura argomentativa dell’opera; indi critica in modo capzioso questi episodi marginali e conclude che, in ogni caso, essi non toccano la «qualità» della «testimonianza oculare» di Gerstein.
La critica della Pisanty alle mie argomentazioni si basa su due presupposti assunti fideisticamente:
1) a Belzec (Treblinka e Sobibór) sono esistite camere a gas omicide, dunque
2) Il rapporto Gerstein è necessariamente veridico.
In altri termini, poiché, per la storiografia ufficiale, il rapporto Gerstein è (ma non per tutti[14]) la prova essenziale dell’esistenza di camere a gas omicide a Belzec, ne consegue che esso è veridico perché è veridico. Sulla base di questi presupposti la Pisanty pretende di spiegare le innumerevoli contraddizioni e assurdità del rapporto Gerstein, ma non sul piano storico e tecnico, bensì su quello meramente semiotico.
La mia replica riguarda:
– Il primo gruppo di argomenti della Pisanty: pretesi «errori di battitura»
– Il secondo gruppo di argomenti: miei pretesi «errori interpretativi»
– Il terzo gruppo di argomenti: presunte «obiezioni inesistenti»
– Le obiezioni di carattere tecnico
– I punti meritevoli di considerazione
– Le critiche indirette
– Il documento “TötungsanstalteninPolen”
– I garanti di Gerstein: Il barone von Otter, Il vescovo Dibelius, Wilhelm Pfannenstiel, Rudolf Reder
– Le altre testimonianze «non trattate da Mattogno»: Jan Karski, I testimoni SS, Chaim Hirszman.
– NelcapitoloV, RudolfHösseil “campodisterminio” diAuschwitz, ho risposto, anche qui in modo molto dettagliato, alla critica della Pisanty al mio studio Auschwitzle “confessioni” diHöss, prendendo in esame:
– La visita ad Auschwitz di Eichmann
– La prima gasazione omicida
– «La prima gasazione a cui Höss assistette»
– «La prima operazione di sterminio ebraico»
– Le «inesattezze»
– L’ordine di Himmler di sospendere le gasazioni
– Statistiche e cifre
– La visita di Höss a Chelmno [Kulmhof]
– Il grasso umano
– I “Gasprüfer” di Auschwitz
– Il plagio di Filip Müller.
La «cospirazionegiudaicamondiale»:
dall’anti“negazionismo” alvisionarismo.
La Lipstadt sosteneva che il revisionismo è il il risultato di una cospirazione nazista. La Pisanty, sotto la nefasta influenza di questa panzana, congettura che i revisionisti non solo credano ad una «cospirazione giudaica mondiale», ma che questa teoria sia addirittura il fondamento stesso del revisionismo. Le conclusioni generali della Pisanty sull’essenza del revisionismo sono il degno coronamento del suo libro. Ella vi si abbandona ad una sorta di visionarismo apocalittico che chiama in causa – tanto per essere originale – i ProtocollideiSaviAnzianidiSion, altro tema che ossessiona la povera dottoressa. Alla fine la Pisanty mostra il vero significato delle sue elucubrazioni sulla «cospirazione giudaica mondiale» e rientra nell’ortodossia della maestra solo apparentemente sovvertita: il revisionismo non è solo il risultato di una cospirazione nazista; peggio, molto peggio: è l’epigono di quell’ «antisemitismo storico» che trova il suo culmine, appunto, nei ProtocollideiSaviAnzianidiSion! Donde la solenne conclusione che
«i negazionisti raccolgono il testimone dell’ antisemitismo storico»[15].
“Antisemitismo”, ecco la parola magica, che ci porta allo scopo di questo articolo: mostrare, con un altro esempio autorevole, come giornalisti e storici di regime intendano e trasmettano le fandonie pisantyane[16].
Nell’OsservatoreRomano del 26-27 gennaio 2009 è apparso il seguente articolo di Anna Foa (nella foto.BW5a):
«L'antisemitismounicomoventedeinegazionisti
Il negazionismo della Shoah non è un'interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso.
Il negazionismo è menzogna che si copre del velo della storia, che prende un'apparenza scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l'antisemitismo. Un negazionista è anche antisemita. Ed è forse, in un mondo come quello occidentale in cui dichiararsi antisemiti non è tanto facile, l'unico antisemita chiaro e palese.
L'odio antiebraico è all'origine di questa negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, riallacciandosi idealmente al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e schernivano i deportati dicendo loro che se anche fossero riusciti a sopravvivere nessuno al mondo li avrebbe creduti. Il negazionismo attraversa gli schieramenti politici, non è solo legato all'estrema destra nazista, ma raccoglie tendenze diverse: il pacifismo più estremo, l'antiamericanismo, l'ostilità alla modernità. Esso nasce in Francia alla fine degli anni Quaranta a opera di due personaggi, Maurice Bardèche e Paul Rassinier, l'uno fascista dichiarato, l'altro comunista. Dopo di allora, si sviluppa largamente, e i suoi sostenitori più noti sono il francese Robert Faurisson e l'inglese David Irving, nessuno dei due storico di professione.
I negazionisti sviluppano dei procedimenti assolutamente fuori dal comune nella loro negazione della realtà storica. Innanzitutto, considerano tutte le fonti ebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere. Tolte così di mezzo una buona parte dei testimoni, tutta la memorialistica espressa dai sopravvissuti ebrei e la storiografia opera di storici ebrei o presunti tali, i negazionisti si accingono a demolire il resto delle testimonianze, delle prove, dei documenti.
Tutto ciò che è posteriore alla sconfitta del nazismo è per loro inaffidabile perché appartiene alla “verità dei vincitori”. La storia della Shoah l'hanno fatta i vincitori, continuano instancabilmente a ripetere, mettendo in dubbio tutto quello che è emerso in sede giudiziaria, dal processo di Norimberga in poi: frutto di pressioni, torture, violenze. Resta però ancora una parte di documentazione da confutare, quella di parte nazista che precede il 1945. Qui, i negazionisti hanno scoperto che nessuna affermazione scritta dai nazisti dopo il 1943 può dichiararsi veritiera, perché a quell'epoca i nazisti cominciavano a perdere la guerra e avrebbero potuto fare affermazioni volte a compiacere i futuri vincitori. “Et voilà”, il gioco è fatto: la Shoah non esiste!
Il negazionismo si applica in particolare a dimostrare l'inesistenza delle camere a gas, attraverso complessi ragionamenti tecnici: non avrebbero potuto funzionare, avrebbero avuto bisogno di ciminiere altissime e via discorrendo. È questa la tesi che ha dotato di notorietà uno pseudo-ingegnere, Fred Leuchter, e che domina nei siti negazionisti di internet.
Oggi, il negazionismo è considerato reato in molti Paesi d'Europa, anche se una parte dell'opinione pubblica rimane restia – come chi scrive – a trasformare, mettendoli in prigione, dei bugiardi in martiri. Non mancano poi sostenitori del negazionismo in funzione antiisraeliana. Bisogna però ripetere che dietro il negazionismo c'è un solo movente, un solo intento: l'antisemitismo. Tutto il resto è menzogna»[17].
Non mi soffermo a confutare questo concentrato di sciocchezze, che rasentano spesso la comicità. La storiella del «dopo il 1943», ad esempio, è veramente spassosa. Quale mirabile inventiva!
La cosa più grave è che Anna Foa non è una semplice collaboratrice dell’OsservatoreRomano, ma è soprattutto una storica di prestigio[18], che però non soltanto non si è mai curata di aprire un libro revisionistico, ma non è stata neppure capace di presentare un riassunto decente delle favole pisantyane, avendo profuso nello scritto sopra citato spropositi assurdi che la stessa Pisanty non ha osato neppure sfiorare. Da ciò si desume che questa storica non ha letto nemmeno il libro della Pisanty, ma si è basata semplicemente su resoconti giornalistici. Un copia-incolla di seconda mano.
E questi sarebbero gli “storici” olocaustici: individui che si riducono ad attingere dagli scopiazzatori-giornalisti, ma che, nonostante ciò, rivendicano orgogliosamente la loro qualifica di “storici” accademici, sottolineando con compiacimento e una punta di disprezzo che né «il francese Robert Faurisson» né «l'inglese David Irving» è uno «storico di professione»!
Un indubbio merito, a paragone di uno “storico di professione” olocaustico.
Come quasi sempre, la verità è il contrario di ciò che proclamano gli adepti della HolocausticaReligio:
la Shoah non è un'interpretazione storiografica, ma un articolo di fede, una nuova forma di battesimo in virtù del quale si entra nella communioecclesiale, ma anche una nuova forma di diritto naturale grazie al quale si viene ammessi nel consesso sociale. I reprobi sono relegati nelle tenebre esteriori, dove c’è pianto e stridor di denti.
La fede nella Shoah non ha nulla a che vedere con la storia o la storiografia, ma ha un carattere essenzialmente ideologico.
La stessa storiografia olocaustica, nel suo nucleo centrale, è essenzialmente il risultato di una ideologia[19].
Per questo motivo gli olo-santoni messianici non sono affatto interessati all’accertamento della verità, neppure all’akribéia in campo storico-documentario.
Per questo motivo non si curano minimamente della letterarura scientifica revisionistica.
Valentina Pisanty, novella Pizia, ha vaticinato e non bisogna far altro che diffondere il responso.
E se si trattasse di Oracoli Sibillini?
Questa risposta è a disposizione di Valentina Pisanty da più di dieci anni. E da più di dieci anni la nostra dottoressa in semiotica la ignora, pur continuando a sproloquiare sul “negazionismo”, da ultimo nella trasmissione SorgentediVita, replicata su RAI 2 il 23 febbraio 2009 alle 9,30[20].
Non è ora che si decida a prenderla in considerazione e a controbattere?
In fondo è così facile confutare le “pseudoargomentazioni” revisionistiche! E allora che cosa aspetta a farlo?
Anna Foa vuole che i revisionisti considerino «tutte le fontiebraiche di qualunque genere inattendibili e menzognere»: prescindendo dal fatto che si tratta di una scempiaggine, dal punto di vista metodologico e deontologico, non è più grave fingere che le fontirevisionistiche non esistano affatto?
La "scoperta" del "bunker 1" di Birkenau: vecchie e nuove imposture
DI CARLO MATTOGNO
Secondo il "Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945", a Birkenau, prima della costruzione dei quattro crematori, due case coloniche polacche preesistenti furono trasformate dall'amministrazione del campo in "camere a gas" omicide. La"casetta rossa", o "Bunker 1", entrò in funzione il 20 marzo 1942; la "casetta bianca", o "Bunker 2", il 30 giugno. Il "Bunker 1" fu demolito nel 1943 e di esso si è perduta ogni traccia; il "Bunker 2" fu distrutto alla fine del 1944, ma della casa alla quale fu attribuita questa denominazione e questa funzione restano ancora le fondamenta, che attualmente fanno parte del percorso di visita del campo di Birkenau.
Marcello Pezzetti vi annuncia di aver scoperto il luogo dove un tempo si trovava il presunto "Bunker 1" di Birkenau, luogo nel quale fino a qualche mese fa sorgeva una casa privata abitata da una famiglia polacca, ora in demolizione. Anzi, secondo Marcello Pezzetti, la casa stessa era il "Bunker 1", perché egli "si chiedeva come fosse possibile vivere serenamente in una camera a gas", il che è assurdo, dato che il presunto "Bunker 1" fu raso al suolo nel 1943.
La "scoperta" sarebbe avvenuta nell'estate del 1993, quando "Schloma" [recte: Schlomo; nome polacco: Szlama] Dragon, il fratello Abraham, e Eliezer "Esisenschmidt" [recte: Eisenschmidt] lo avrebbero accompagnato davanti alla casa ritratta nella fotografia piccola a sinistra nella pagina summenzionata [vedi allegato 5].
Chi è Marcello Pezzetti?
pezzetti marcello(nella foto a dex. BW5a)
è un ricercatore del "Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea" (CDEC) di Milano, noto soprattutto per le sue consulenze ai film olocaustici di Spielberg (Schindler's List) e di Benigni (La vita è bella) e per aver curato la realizzazione del CR-Rom "Destinazione Auschwitz" (Proedi, Milano 2000), una specie divideo game creato come strumento di lavaggio del cervello delle giovani generazioni.
Negli ambienti giornalistici italiani, che gli danno largo spazio, Marcello Pezzetti è considerato "uno dei massimi esperti di Auschwitz e Shoah al mondo", e la cosa tragica è che, a quanto pare, lo crede anche lui!
Il primo annuncio della "scoperta"
Marcello Pezzetti aveva già annunciato la prodigiosa "scoperta" del presunto "Bunker 1" di Birkenau quattro anni or sono.
Nel numero del 26 febbraio 1998, il settimanale "Panorama" ha pubblicato un articolo di tale Valeria Gandus intitolato "Operazione memoria" (pp.94-97), concernente la decisione dell'Unesco di inserire l'ex KL Auschwitz
"nel programma destinato al restauro e alla conservazione dei più importanti musei di tutto il mondo" (p.94).
La giornalista informava che ciò che resta dei crematori II e III di Birkenau viene costantemente
"violato e saccheggiato dai naziskin in caccia di macabri souvenir e dai negazionisti alla ricerca di prove "scientifiche"" (p. 94),
perciò l'Unesco sta elaborando un progetto che
"prevede che quel che resta dei due edifici venga protetto (probabilmente sarà messo sotto vetro) e reso accessibile solo agli studiosi" (p.96).
Lo scopo del progetto è chiaro: precludere agli studiosi revisionisti l'accesso alle rovine di queste presunte installazioni di sterminio per impedire ulteriori approfondimenti della questione non certo irrilevante della "chimica dello sterminio". Evidentemente Fred Leuchter e Germar Rudolf hanno lasciato il segno nella cultura ufficiale.
La giornalista ci informa poi che
"membro delegato dall'Unesco al progetto e al controllo dell'operazione è un italiano, Marcello Pezzetti, storico e ricercatore del Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea), uno dei massimi esperti mondiali del luogo più oscuro della memoria collettiva d'Europa" (pp.94-95).
Ed ecco l'annucio della straordinaria "scoperta":
"studiando le mappe originali del campo e interrogando gli ultimisopravvissuti della prima squadra di "sonderkommando" [sic] (i prigionieri addetti alla spoliazione delle vittime e alla raccolta [!] dei cadaveri) Pezzetti ha trovato il luogo e l'edificio. "Del Bunker 1 avevano parlato, nei processi celebrati dopo la guerra, pochi testimoni. Nessuno di loro, però, era stato portato fisicamente al campo per identificare il luogo e la costruzione", racconta Pezzetti.
Per una malintesa esigenza di pacificazione, la realpolitik imponeva che non si facessero scomode ricerche su un territorio che avrebbe dovuto essere tutelato e consacrato al ricordo e che veniva invece colonizzato da polacchi in cerca di terreni a buon mercato dove ricostruire le case distrutte dalla guerra e da alcuni vecchi abitanti che a suo tempo erano stati evacuati dai nazisti. Fra questi ultimi, tornarono "a casa" anche coloro che prima della costruzione di Birkenau possedevano e abitavano l'edificio poi trasformato in camera a gas. E sulle rovine della vecchia villetta fatta saltare parzialmente dalle Ss nel novembre del 1944 [sic!], ricostruirono la nuova abitazione""(p.95).
All'epoca questa eccezionale "scoperta" è passata quasi inosservata, ma ora le cose sono diverse, perché questa volta entra in gioco l'industria dell'Olocausto.
Vediamo anzitutto quale sia il valore storico di questa "scoperta". In quel che segue, anticipo alcuni risultati di un mio studio in corso sui presunti "Bunker" di Birkenau.
Il valore storico della "scoperta"
Premetto che i "Bunker" di Birkenau, come installazioni di sterminio, non sono mai esistiti. Intorno al campo di Birkenau esistettero invece varie case polacche; alcune furono demolite; altre furono prese in carico dalla SS-Neubauleitung (poi Bauleitung, infine Zentralbauleitung) di Auschwitz, provviste di numero di "Bauwerk" e di denominazione e impiegate per lo scopo prescelto (ad esempio, la casa polacca censita col numero 44 divenne il "Bauwerk 36c", fu ristrutturata e fu assegnata come alloggio all'SS–Sturmbannführer Cäsar, Leiter der landwirtschaftlichen Betriebe); altre ancora furono lasciate intatte ma non furono prese in carico dalla Zentralbauleitung, perciò rimasero inutilizzate. A due di queste case — con un tortuoso processo letterario che cominciò nell'agosto 1942, si sviluppò tra il 1942 e il 1944 in un coacervo di temi disparati e contrastanti e raggiunse un primo stadio letterario organico nel febbraio 1945 grazie a Szlama Dragon — fu infine attribuita la qualifica di "Bunker 1" e "Bunker 2".
Allegato-1,cliccare sulla foto per ingrandire.BW5a.
Qui però il problema è un altro: la posizione del presunto "Bunker 1" indicata da Marcello Pezzetti è infatti in totale contrasto con l'unica fonte di cui disponga la storiografia ufficiale. Si tratta della relazione della signora Józefa Wisifska resa il 5 agosto 1980 e consegnata al Museo di Auschwitz, che fu protocollata da Franciszek Piper e che si trova attualmente nella collezione "Oswiadczenia", tomo 113, pp. 77-78 [vedi allegato 1].
La signora Wisifska dichiarò che, prima della Seconda guerra mondiale, la sua famiglia abitava nelle immediate vicinanze del campo di Birkenau. Nel 1941 la casa di suo zio, Józef Harmata (e di suo genero Gryzek), fu requisita e trasformata poi dai Tedeschi nel "Bunker 1". Nel 1949 la signora Wisifska tornò nel terreno di sua proprietà: la casa di suo zio (il presunto "Bunker 1") non esistevapiù. A pochi metri dal luogo in cui si trovava fu successivamente costruita una casa che all'epoca apparteneva al signor Stanislaw Czarnik.
Allegati-2,3,cliccare sulle foto per ingrandire.BW5a.
La signora Wisifska allegò alla sua relazione uno schizzo topografico della zona [vedi allegati 2 e 3] in cui è indicata la posizione esatta della vecchia casa di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1") e della nuova casa del signor Czarnik.
La signora Wisifska non aveva ovviamente nessuna prova di nessun tipo che la casa di suo zio Józef Harmata e di suo genero Gryzek fosse stata trasformata dalle SS di Auschwitz in "Bunker 1". Ella era stata evidentemente imbeccata dal Museo di Auschwitz, il quale, fin dal 1978, avendo fissato arbitrariamente in una pianta ufficiale del campo di Birkenau la posizione del presunto "Bunker 1" proprio nel punto indicato nel 1980 dalla signora Wisifska, aveva bisogno di questa "prova" fittizia a posteriori per giustificarsi.
La scelta di un membro della famiglia Harmata si spiegava col fatto che la sentenza del processo Höss (2 aprile 1947) aveva dichiarato che le case polacchepresuntamente trasformate in "Bunker 1" e in "Bunker 2" appartenevano ai contadini di Brzezinka (Birkenau) Wiechuja e Harmata. Tuttavia i nomi di questi due contadini furono scelti arbitrariamente, tra le persone che abitavano nella zona e che erano state espropriate delle loro case dalle SS, soltanto per creare una prova fittizia della localizzazione dei "Bunker". In questa penosa finzione, i giudici attribuirono il presunto "Bunker 1" alla casa della famiglia Wiechuja, il presunto "Bunker 2" a quella della famiglia Harmata. In ciò essi seguirono quanto il perito Roman Dawidowskiaveva scritto nella sua perizia del 26 settembre 1946. La signora Wisifska asseriva invece che la casa presuntamente trasformata in "Bunker 1" apparteneva alla famiglia Harmata e non a quella Wiechuja, il che è una ulteriore conferma del fatto che l'attribuzione dei due "Bunker" alle case delle due famiglie summenzionate non aveva alcun fondamento reale.
A sin,l'allegato-4, cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
A dex,l'allegato-5, cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
Il 20 settembre 1985 Franciszek Piper scattò quattro fotografie di una casa, da lui indicata come quella del signor Czarnik, e le allegò alla relazione della signora Wisifska. Una di queste fotografie, inventariata dal Museo di Auschwitz col riferimento d'archivio "nr neg. 21225/3", mostra una veduta frontale della casa in questione [vedi allegato 4], la quale è identica a quella della fotografia pubblicata nell'articolo menzionato sopra [vedi allegato 5].
Tuttavia questa casa, che anch'io ho fotografato nell'agosto del 2000 [vedi allegato 6], si trova al di là della strada che attualmente fiancheggia esternamente la recinzione ovest del campo di Birkenau, mentre la casa di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1"), come risulta indubitabilmente dallo schizzo topografico della signora Wisifska, era situata molto più a est, all'interno della recinzione del campo e precisamente poche decine di metri a nord delle quattro fosse dell'impianto di chiarificazione ("Kläranlage"), che esistono ancora.
Allegato-7,cliccare sulla foto per ingrandire.BW5a.
La casa indicata da Marcello Pezzetti è posta a ovest di un altro punto di riferimento facilmente individuabile, il monumento ai prigionieri di guerra sovietici. Questo monumento è situato circa 200 metri a ovest dell'impianto di chiarificazione e dunque del punto in cui si trovava la casa di Józef Harmata (presunto "Bunker 1"), in prossimità della recinzione ovest del campo e della strada che la fiancheggia [vedi allegato 7], alla quale si accede attraverso un vecchio cancello. Da qui, procedendo verso destra (nord), la casa in questione si trova a un centinaio di metri.
In pratica, questa casa, la quale, secondo Marcello Pezzetti, sorgeva sulle rovine del "Bunker 1" (o era addirittura il "Bunker 1"!), dista in linea d'aria più di 300 metri dal punto in cui si trovava la casa di Józef Harmata e dunque dal luogo in cui sorgeva il presunto "Bunker 1".
Da quanto sopra risultano tre conclusioni:
1) il fatto che una casa (quella del signor Czarnik) si trovi a pochi metri dalla casa che fu di Józef Harmata (il presunto "Bunker 1") non è una scoperta di Marcello Pezzetti, ma una rivelazione della signora Wisifska
2) l'identificazione della casa appartenente al signor Czarnik con la casa che appare nella fotografia pubblicata nell'articolo del "Corriere della Sera" è stata effettuata da Franciszk Piper otto anni prima di Marcello Pezzetti
3)questa identificazione è errata, perché la casa ritratta nelle fotografie di Franciszek Piper e di Marcello Pezzetti e nella mia fotografia non può essere la casa del signor Czarnik indicata dalla signora Wisifska, dunque non può essere la casa sorta sulle rovine del presunto "Bunker 1".
Perciò la "scoperta" di Marcello Pezzetti non ha alcun valore storico.
I "testimoni" di Marcello Pezzetti
Marcello Pezzetti racconta che, nel 1993, Szlama Dragon, il fratello Abraham ed Eliezer Eisenschmidt lo guidarono dritto e senza esitazione alla casa dove presuntamente sorgeva il presunto "Bunker 1". Ora — come vedremo sotto — Szlama Dragon nel 1945 era stato interrogato prima dai Sovietici, poi dai Polacchi, ma non aveva mai saputo fornire alcuna indicazione sulla posizione del presunto "Bunker 1".
Come si può dunque credere seriamente che egli abbia individuato con tutta sicurezza un luogo che non era stato capace di trovare 48 anni prima?
La cosa è tanto più incredibilein quanto a Vienna, alla 26a udienza del processo Dejaco-Ertl (2 marzo 1972), questo testimone, dopo aver confuso il giorno prima il crematorio I con il "Bunker 2" (!), fu costretto a confessare:"Ich kann mich heute nach 30 Jahren nicht mehr erinnern…" ("Oggi, dopo 30 anni, non riesco più a ricordare…").
Per un portentoso prodigio della natura, dunque, Szlama Dragon ha ricordato perfettamente dopo 48 anni ciò che non ricordava dopo 30 e non sapeva dopo tre anni!
Il fratello di Szlama Dragon, Abraham, non depose né al processo Auschwitz né al processo della guarnigione del campo, non fece successivamente dichiarazioni giurate né scrisse rapporti sulle sue esperienze; la stessa cosa vale per Eliezer Eisenschmidt. Entrambi hanno raccontato per la prima volta la loro storia negli anni Novanta!.
Nell' intervista riportata in quest'opera, i fratelli Dragon dichiarano di aver lavorato un solo giorno presso il presunto "Bunker 2" nel dicembre 1942; inoltre Szlama vi lavorò per due giorni nel 1944, e questo è tutto! Né Szlama né Abraham furono mai portati al presunto "Bunker 1": ma allora, come poterono localizzarlo con tanta sicurezza nel 1993?
Eliezer Eisenschmidt pretendeva invece di aver lavorato al "Bunker 1" per sei mesi, ma, nonostante ciò, egli non ha saputo fornire neppure un vago indizio sulla sua posizione. Non solo, ma egli ignorava perfino la denominazione di "Bunker" per la presunta "camera a gas", anzi, credeva addirittura che i "Bunker" (al plurale) fossero le presunte "fosse di cremazione"!
"Le fosse o "Bunker", come le chiamavamo, erano grosse e profonde".
Nel libro menzionato sopra, Gideon Greif racconta che nell'estate del 1993, mentre intervistava Szlama Dragon presso le rovine del presunto "Bunker 2", si avvicinò "un amico della televisione italiana" che gli mostrò una pagina della deposizione polacca di Szlama Dragon del 1945. L'italiano, con tale documento, cercava di individuare il luogo delle "fosse di cremazione" e allora Gideon Greif gli disse di interrogare direttamente Szlama Dragon, che era lì presente. Al che, l'italiano rimase "senza parole". D'altra parte, anche Eliezer Eisenschmidt era a Birkenau nell'estate del 1993, perciò è chiaro che l' "amico della televisione italiana" non era altri che Marcello Pezzetti. In questa occasione dunque egli interpellò i tre "superstiti" e "scoprì" il presunto "Bunker 1": ma allora perché Gideon Greif non accenna minimamente alla presunta "scoperta"?
Nel suo libro viene riprodotta la pianta di Birkenau già pubblicata nel "Kalendarium der Ereignisse im Konzentrationslager Auschwitz-Birkenau 1939-1945", nella quale la "1.provisorische Gaskammer" (prima camera a gas provvisoria) viene indicata esattamente nello stesso punto (e con lo stesso simbolo) in cui appariva nella pianta pubblicata nel libro "Auschwitz. Nazi Extermination Camp" (1978) — sulla quale ritornerò sotto — cioè poco a nord del Kläranlage del Bauabschnitt III (settore di costruzioni III), nella posizione indicata dalla signora Wisifska. Ora, se è vero che Szlama Dragon, Abraham Dragon e Eliezer Eisenschmidt avevano individuato esattamente la posizione del presunto "Bunker 1" già nel 1993 (evidentemente in presenza di Gideon Greif, che li aveva portati a Birkenau per intervistarli), perché questi non ne parla affatto?
E perché i tre testimoni non corressero la pianta di Birkenau pubblicata nel suo libro?
Marcello Pezzetti pretende che i tre testimoni lo accompagnarono senza esitazionedavanti alla casa polacca summenzionata "partendo dal Krematorium III". Si tratta di una semplice affermazione retorica ad effetto che può solo far sorridere chi abbia una certa dimestichezza con la topografia di Birkenau, tanto più in quanto, dal 1943 al 1993, la zona intorno al campo è cambiata enormemente.
Se dunque la storia della passeggiata a Birkenau è vera, questi tre poveri vecchi hanno semplicemente condotto Marcello Pezzetti dove egli voleva essere condotto.
La posizione del Museo di Auschwitz sulla "scoperta"
Il 20 novembre 2001, "Le Monde" ha pubblicato un breve articolo di Henri Tincq intitolato "Le mystère enfin levé de la première chambre à gaz d'Auschwitz-Birkenau" che è uno scialbo riassunto dell'articolo del "Corriere della Sera". Dal quotidiano parigino la notizia della "scoperta" è successivamente passata nella stampa europea e americana. Perfino il Museo di Auschwitz ha appreso della "scoperta" di Marcello Pezzetti dall'articolo di "Le Monde" e ha risposto con un articolo di Jerzy Sadecki su "Rzeczpospolita" (Repubblica) intitolato "Auschwitz-Birkenau. Le Monde solves a mystery that was no mystery", che contiene anche le considerazioni del direttore del Museo, Jerzy Wróblewski, e di Franciszek Piper. Riporto le parti salienti dell'articolo, che ho tratto dal sito http://www.auschwitz-muzeum.oswiecim.pl/html/eng/aktualno…:
"Non è possibile vivere in qualcosa che non esiste. "Quella famiglia non può aver vissuto in una camera a gas, perché i Tedeschi distrussero la casetta rossa nel 1943. Di essa non rimase alcuna traccia; i Tedeschi non lasciarono sul posto neppure un pezzetto delle sue fondamenta", spiega il dott. Franciszek Piper, del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau. "Solo nel 1955 i proprietari del terreno costruirono una nuova casa sul luogo della camera a gas e ci andarono ad abitare". […].
"Sfortunatamente, quando, nel 1957, furono fissati i confini del campo — dichiara Jerzy Wróblewski, direttore del Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, il terreno in cui si trovava la prima camera a gas nel 1942-1943 fu lasciata fuori, sebbene fosse adiacente. Non so per quale ragione all'epoca si prese questa decisione. Forse perché vi era già stata costruita una nuova casa e negli anni di generale ricostruzione dopo le devastazioni della guerra nessuno osò chiedere che fosse demolita".
Wróblewski è perplesso di fronte all'affermazione di Le Monde che il luogo è stato scoperto soltanto ora.
"L'ubicazione è nota da parecchio tempo e non costituisce alcun mistero. L'ubicazione fu identificata nel 1945 nei rapporti sia della commissione sovietica sia di quella polacca. Essa fu indicata da detenuti che testimoniarono all'epoca, incluso Schlomo Dragon. Il comandante del campo, Rudolf Höss, la descrisse nelle sue memorie, che furono pubblicate più tardi". "Tutte le guide che conducono i visitatori per il campo conoscono l'ubicazione",
affermano Piper e Wróblewski.
"Se il giornalista di Le Monde avesse voluto ottenere informazioni alla fonte, al Museo, avremmo potuto mostrargli il noto studio Auschwitz:Nazi Death Camp, pubblicato la prima volta da Interpress nel 1977, che contiene una pianta di Birkenau nella quale è segnato il luogo della prima camera a gas. Già negli Ottanta, prima che qualcuno qui avesse sentito parlare del signor Pezzetti, io consultai i documenti catastali dei proprietari e stabilii al metro l'ubicazione della casetta rossa", dice Piper. Una pianta della casa — egli rileva — si trova a p. 114 del terzo volume del compendio in cinque volumi Auschwitz pubblicato in polacco, in tedesco e in inglese". […].
Marcello Pezzetti apparve ad Auschwitz diversi anni fa e partecipò ai dibattiti su come risolvere il problema del luogo della casetta rossa. Pezzetti trovò uno sponsor, Richard Prasquier.
Dopo lunghe trattative, quest'anno il Museo è riuscito a comprare la proprietà e a trasferire i suoi abitanti in un'altra casa, che fu ricostruita. Squadre di tecnici del Museo hanno smantellato la struttura che era sul luogo della camera a gas e vi hanno realizzato un giardino. "In primavera — dice Wróblewski — vogliamo recintare il terreno, seminarvi l'erba, piantarvi la tuia ed erigervi una targa commemorativa recante una breve storia del luogo e un pavimento della prima cammera a gas"".
Le imposture del Museo di Auschwitz
Dunque il Museo di Auschwitz rivendica a sé la presunta "scoperta", ma, incredibilmente, non contesta affatto che la casa indicata da Marcello Pezzetti si trovasse nel luogo in cui era situato il presunto "Bunker 1". Questa tesi può essere sostenuta dai due personaggi summenzionati soltanto con argomenti menzogneri.
Jerzy Wróblewski afferma che
"l'ubicazione [del "Bunker 1"] fu identificata nel 1945 nei rapporti sia della commissione sovietica sia di quella polacca. Essa fu indicata da detenuti che testimoniarono all'epoca, incluso Schlomo Dragon".
Ciò è completamente falso.
Nessuno dei testimoni oculari interrogati dai Sovietici subito dopo la liberazione di Auschwitz fu in grado di indicarne la posizione né sul terreno né su mappe topografiche. Ciò vale in particolare per Szlama Dragon, il testimone per antonomasia dei presunti "Bunker" di Birkenau, che fu interrogato dai Sovietici il 26 febbraio 1945 e successivamente dai Polacchi il 10 e 11 maggio 1945 e che non fu mai in grado di indicare il punto in cui si trovava il presunto "Bunker 1".
Anzi, nonostante la presenza di Dragon e di altri testimoni, riguardo al presunto "Bunker 1" l'incertezza topografica dei Sovietici era tale che, nella pianta redatta dall'ing. Nosal il 3 marzo 1945 per conto della Commissione sovietica di inchiesta, esso appare in una posizione completamente diversa: al di fuori del campo, a circa 300 metri dalla recinzione nord del BauabschnittIII di Birkenau, ossia circa 500 metri a nord della posizione indicata dal Museo di Auschwitz nelle sue piante ufficiali (a cominciare da quella pubblicata nel libro Auschwitz:Nazi Death Camp). Il perito Dawidowski si limitò ad accettare la posizione indicata nella pianta summenzionata e questa è una riprova del fatto che le famiglie Harmata e Wiechuja non avevano alcuna relazione con le case presuntamente trasformate in "Bunker".
Nessuno dei testimoni che apparvero nel 1947 al processo Höss e al processo della guarnigione del campo di Auschwitz fu in grado di indicare la posizione del presunto "Bunker 1", e ciò vale anche per i testimoni che rilasciarono dichiarazioni successivamente.
Wróblewski e Piper rimandano poi al libro "Auschwitz: Nazi Death Camp, first published by Interpress in 1977, which contains a map of the Birkenau camp where the site of the first gas chamber is marked".
Allegato-8,cliccare sulla foto per ingrandire. BW5a.
E' vero che questo libro (apparso nel 1978) contiene una pianta del campo di Birkenau nella quale è indicata la posizione del "Bunker 1", ma questo non è situato al di fuori del campo, dove pretendono di averlo "scoperto" Franciszek Piper prima, Marcello Pezzetti poi, bensì davanti (a nord) alKläranlage, esattamente nella posizione indicata dalla signora Wisifska! [vedi allegato 8].
Dunque i due esponenti del Museo di Auschwitz mentiscono sapendo di mentire.
L'impostura viene completata da Franciszek Piper con questa affermazione:
"Già negli Ottanta, prima che qualcuno qui avesse sentito parlare del signor Pezzetti, io consultai i documenti catastali dei proprietari e stabilii al metro l'ubicazione della casetta rossa".
Qui Piper si riferisce alla relazione della signora Józefa Wisifska resa il 5 agosto 1980 e protocollata proprio da lui. Tuttavia, come ho spiegato sopra, la signora Wisifska, per il "Bunker 1", ha indicato "al metro" una posizione completamente diversa, perciò anche in questo caso Franciszek Piper mentisce sapendo di mentire.
Marcello Pezzetti non è da meno.Egli, nell'articolo del "Corriere della Sera" trasforma la relazione della signora Wisifska in una
"mappa del catasto, con tanto di documento autografo della proprietaria e l'indicazione gaskammer [sic]",
il che è pura fantasia.
(nella foto il pezzetti)
La realtà è che, secondo varie mappe tedesche dell'area di Birkenau, tra cui quella importantissima del 5 ottobre 1942, a est del futuro Bauabschnitt III del campo, entro un limite di 500 metri dalla recinzione, c'erano soltanto sei costruzioni, esattamente corrispondenti a quelle dello schizzo della signora Wisifska (ad eccezione della costruzione n. 6, una stalla, che non appare nella mappa). Nell'area in cui si trovava la casa polacca nella quale Marcello Pezzetti ha voluto ravvisare il "Bunker 1", invece,non è mai esistita alcuna costruzione!
E questo fatto dimostra inoppugnabilmente che la "scoperta" del presunto "Bunker 1" non è un errore in buona fede, ma una volgare impostura.
E che si tratti di un'impostura è confermato — senza ombra di dubbio — dal fatto che,nelle piante di Birkenau contenute nel CR-Rom "Destinazione Auschwitz" menzionato sopra e nel libro che da esso è stato tratto. In questo libro, pubblicato nel gennaio 2002 con la "consulenza storica" di Marcello Pezzetti, appare un disegno su due pagine del campo di Birkenau in cui il "Bunker 1" è ubicato esattamente nel punto indicato dalla signora Wisifska, cioè accanto al Kläranlage del Bauabschnitt III!.
Ma ciò non ha impedito al nostro "esperto mondiale di Auschwitz" di pubblicare anche una fotografia della casa polacca al di fuori della recinzione del campo oggetto della sua presunta "scoperta" con la seguente didascalia:
"Abitazione costruita da contadini polacchi sui resti del Bunker n. 1, smantellato dai nazisti nella primavera del 1943".
Se questa non è malafede deliberata, allora è tragica ottusitàstoriografica. Entrambe le eventualità sono indegne di chi pretenda di impartire agli altri lezioni di storia e di morale.
Ilbusinessdella "scoperta"
La presunta "scoperta" ha naturalmente un risvolto propagandistico-economico.
Riguardo alla casa che, secondo Marcello Pezzetti, sorgerebbe sulle rovine del presunto "Bunker 1", il "Corriere della Sera" scrive:
"Oggi casa e terreno sono stati acquistati, l'edificio abbattuto per scoprire le fondamenta del vecchio bunker [il presunto Bunker 1 C.M], "il terreno sarà compreso nel percorso [di visita al campo C.M.] del museo, restituito alla memoria e alla preghiera",spiega Pezzetti. Tutto grazie a lui e al dottor Richard Prasquier, un cardiologo parigino che da piccolo scampò con la famiglia alla "liquidazione" del ghetto di Varsavia ed ha finanziato tutta l'operazione".
Un articolo apparso sul "Bollettino della Comunità ebraica di Milano" (Anno 57°, numero 1, gennaio 2002, p. 11) ci svela già nel titolo quale sia la vera finalità della prodigiosa "scoperta" di Marcello Pezzetti:
"Shoà [sic]: la prima camera a gas di Auschwitz diventa museo".
L'articolo si apre con questa informazione:
"Due famiglie di contadini polacchi, gli Harmata e i Wichaj (sei persone tra nonni,figlio con moglie e due nipotini), nel mese di novembre hanno traslocato in una casa tutta nuova, studiata nei minimi particolari, con moquettes e marmi".
La nuova casa, continua l'articolo, è stata costruita grazie alla generosità del cardiologoebreo Richard Prasquier per "restituire alla memoria" il presunto "Bunker 1":
"Sì, perché la famiglia nel '47, alla fine della guerra, era rientrata nella casa che, requisita dai nazisti nel '42, era stata utilizzata fino all'aprile del '43 come camere a gas per gli ebrei".
Dunque nel 1947 "la famiglia" (quale delle due?) era andata ad abitare nientemeno che nel "Bunker 1"! A giustificazione dell'anonimo articolista bisogna dire che questa solenne idiozia gli è stata suggerita daMarcello Pezzettiin persona, di cui egli riporta le seguenti parole:
"Quando otto anni fa ho scoperto che la casa abitata da questa famiglia era nientemeno che il "bunker 1", cioè la prima camera a gas di Birkenau", racconta Marcello Pezzetti della Fondazione CDEC, "ho capito subito che si trattava di un luogo particolarmente importante per la memoria ebraica, che doveva entrare nel circuito museale di Auschwitz-Birkenau".
Marcello Pezzetti racconta poi i mezzi vergognosi con i quali è riuscito a "convincere" a sloggiare la famiglia in questione, che "non aveva alcuna intenzione di lasciare la casa".
Dopo otto anni di pressioni da parte delle "autorità politiche locali", del "nuovo direttore del museo [di Auschwitz] Stefan Wilkanowicz" e perfino dell'
"incaricato del Vaticano in Francia per i rapporti con il mondo ebraico",
e grazie al denaro del "filantropo francese Richard Prasquier, presidente di Yad Vashem Francia", la famiglia alla fine si è arresa e ha accettato di trasferirsi in un villino nuovo costruito a 500 metri di distanza. Nel frattempo Marcello Pezzetti si dava da fare per proprio conto. Egli confessa infatti candidamente che i componenti della famiglia polacca
"hanno forse salutato come la fine di un incubo" questo trasferimento,
"visto che, per farli decidere a trattare, avevo iniziato a portare davanti alla casa pulmann di visitatori ai quali indicavo la casa come la prima camera a gas e il suo giardino come un cimitero. Per anni, al nostro arrivo, usciva l'anziana nonna che tentava di mandarci via con parole e modi bruschi".
La povera famiglia è dunque stata tormentata psicologicamente in questo modo "per anni" da questi "visitatori" — calpestando vergognosamente il suo diritto alla privacy — per portarla all'esasperazione e costringerla a sgombrare dalla propria casa.
Marcello Pezzetti aggiunge che la nuova casa è stata pagata ufficialmente dal governo polacco
"perché la famiglia non voleva che i vicini pensassero che aveva accettato soldi da ebrei".
Il denaro investito dal "filantropo francese" in questo affare sarà senza dubbio ampiamente ripagato dallo sfruttamento propagandistico del nuovo padiglione dell'industria dell'Olocausto. Si può esser certi che la prima operazione commerciale sarà un video (che sarà venduto in milioni di copie) sulla "scoperta" del "Bunker 1".
Non c'è dubbio che anche il Museo di Auschwitz, grazie alla "scoperta", vedrà presto incrementare i suoi profitti.
Naturalmente la "scoperta" ha anche un importante aspetto ideologico-propagandistico: essa arriva infatti in un momento di grande crisi della storiografia ufficiale, la quale, perduto il contributo di Jean-Claude Pressac, si è impantanata in una sterile rimuginazione di temi già logori, del tutto incapace di fare un passo avanti sulla via della ricerca. Precipitata a capofitto da Pressac a van Pelt, essa si dibatte nella mediocrità e non sa più che cosa opporre alla critica revisionistica.
L'impostura del "Bunker 1" diventerà dunque una nuova arma mediatica contro il revisionismo.