Il MLNV condivide e propone l'attenta lettura della disamina proposta da Enzo Trentin sui motivi dell'indipendenza ma su una cosa vogliamo essere precisi.
Noi Veneti non abbiamo bisogno di fare una "secessione" per tornare liberi e indipendenti… ci si ribella da uno stato cui si appartiene ma il Popolo Veneto non appartiene all'italia e la Repubblica di Venezia non ha mai cessato di esistere… ad oggi, infatti, se il Popolo Veneto non esercita la propria sovranità è solo perchè la Patria è occupata da uno stato straniero, repressivo e violento nonchè fortemente razzista e colonizzatore nei nostri confronti, ovvero l'italia.
Tornare indipendenti per noi Veneti, non significa, separarsi, scindersi o dividersi dall'italia… l'italia deve ritirarsi e uscire dai nostri confini con le proprie forze armate, con le sue istituzioni e con tutti i suoi debiti e malaffari.
Un motivo in più, inoltre, per non andare a votare… non credere ai partiti italiani, non credere ai partiti indipendentisti o autonomisti… perdiamo ancora tempo.
Possiamo essere liberi subito, basta volerlo.
Siamo un Popolo, siamo una Nazione… è un nostro diritto esserlo, non abbiamo biosgno di chiederlo a nessuno.
Pensate solo se ciascuno di noi smettesse improvvisamente di pagare le tasse a questo stato tiranno e illegittimo… pensateci!
Io le tasse le voglio pagare ma al mio Stato, alla mia Nazione che è la Repubblica di Venezia e non l'italia.
ed ecco la riflessione di Ento Trentin:
Noi Veneti non abbiamo bisogno di fare una "secessione" per tornare liberi e indipendenti… ci si ribella da uno stato cui si appartiene ma il Popolo Veneto non appartiene all'italia e la Repubblica di Venezia non ha mai cessato di esistere… ad oggi, infatti, se il Popolo Veneto non esercita la propria sovranità è solo perchè la Patria è occupata da uno stato straniero, repressivo e violento nonchè fortemente razzista e colonizzatore nei nostri confronti, ovvero l'italia.
Tornare indipendenti per noi Veneti, non significa, separarsi, scindersi o dividersi dall'italia… l'italia deve ritirarsi e uscire dai nostri confini con le proprie forze armate, con le sue istituzioni e con tutti i suoi debiti e malaffari.
Un motivo in più, inoltre, per non andare a votare… non credere ai partiti italiani, non credere ai partiti indipendentisti o autonomisti… perdiamo ancora tempo.
Possiamo essere liberi subito, basta volerlo.
Siamo un Popolo, siamo una Nazione… è un nostro diritto esserlo, non abbiamo biosgno di chiederlo a nessuno.
Pensate solo se ciascuno di noi smettesse improvvisamente di pagare le tasse a questo stato tiranno e illegittimo… pensateci!
Io le tasse le voglio pagare ma al mio Stato, alla mia Nazione che è la Repubblica di Venezia e non l'italia.
ed ecco la riflessione di Ento Trentin:
1 – Tutelare la libertà
Gianfranco Miglio nella presentazione del libro di Allen Buchanan: “SECESSIONE – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi “, scrive tra l'altro: «Se non si riconosce il diritto degli uomini liberi ad affrancarsi da un ordinamento tirannico non altrimenti modificabile («resistenza»), o a separarsi da una comunione politica che non è più conveniente («secessione» come «diritto di stare con chi si vuole»), tutte le costruzioni istituzionali esistenti sarebbero inefficaci per un vizio di legittimità insanabile.
[…] numerosi e recentissimi casi in cui un popolo è stato costretto a chiedere e ottenere la «secessione» da una più ampia comunità di cui faceva parte: mai l'appello al diritto di separarsi è stato frequente e convincente come ai nostri giorni.
L'argomentazione di Buchanan è particolarmente persuasiva là dove l'autore considera il caso delle etnie – quelle dei fiamminghi, sloveni, canadesi francofoni ecc. –
che lamentano di dover sopportare un carico contributivo proporzionalmente eccessivo verso il resto della comunità in cui si trovano inserite, e quindi chiedono (o hanno già ottenuto) di «secedere».
L'analogia con la circostanza in cui si trovano le regioni dell'Italia settentrionale (e i veneti in particolare.
Ndr) è evidente. […] si propone anche l'interpretazione «moderna» del «federalismo»: non più come (in passato) mezzo transitorio per raggiungere l'unità, bensì come assetto stabile per riconoscere, tutelare e gestire le diversità.
La presenza di un ben fondato «diritto di secessione», nel corpo aggiornato del diritto pubblico e della morale politica generale, diventa – in altre parole – garanzia di stabilità e di non reversibilità di tutte le Costituzioni legittime del nostro tempo.
Il diritto alla «diversità» e al «pluralismo» nelle istituzioni (anche se costa sacrifici) non può più essere negato, senza innescare il ricorso al rimedio ultimo, cioè alla «secessione».
Ciò premesso, per il momento ci possiamo limitare all'osservazione per cui la presunzione generale a favore della libertà implica una presunzione a favore del riconoscimento del diritto di secessione nel senso seguente:
l'onere della dimostrazione grava su coloro che si oppongono alla secessione;
sono loro a dover provare che l'indipendenza del Veneto recherebbe un danno non solo in seno lato, ma un danno moralmente rilevante o della gravità morale richiesta per giustificare l'uso della forza atta a impedire la secessione.
Sulla moralità dello stato italiano, invece, si possono avanzare numerosi dubbi.
Infatti, dopo l'unificazione dell'Italia fatta da casa Savoia saltano agli occhi degli studiosi tre cifre spaventose: Il bilancio pubblico è fissato in modo rigido: il 44% serve a pagare i debiti; il 37% è destinato all'Esercito e alla Marina.
Non rimane quasi nulla per scuole, ospedali, strade, ferrovie, dipendenti dello Stato, assistenza pubblica, pensioni…
C'è poi la grande follia militare: l'Italia è un Paese povero, oppresso da debiti, ancora fragile nelle strutture.
E tuttavia mantiene un esercito di 430.000 uomini, più numeroso di quello austriaco, superiore a quello dell'immenso impero britannico.
Per alimentarlo, lo Stato risparmia su tutto… e crea una miscela esplosiva: i "nodi" che spiegano l'emigrazione italiana (sono circa 5 milioni i veneti che nel tempo lasceranno la propria terra) sono tutti presenti.
Si capisce finalmente perché centinaia di migliaia di persone si allontanino ogni anno dalla Penisola.
Anzitutto le tasse.
Sono eccessive, le più alte d'Europa.
Non lasciano alcuna possibilità di risparmio.
Essendo legate ai consumi, colpiscono soprattutto i poveri, rendendo la loro vita insopportabile.
Lo Stato dispone di risorse limitate.
Ma invece di utilizzarle per cambiare il Paese, le mette a disposizione dell'Esercito e delle imprese coloniali.
Non rimane quasi nulla per i bisogni sociali.
L'agricoltura è ammalata.
Invece di essere aiutata viene condannata ad una difficile sopravvivenza.
Il salario dei "giornalieri" è aumentato, nei primi 30 anni dell'Italia unita, solo del 2%.
I contadini sono costretti a partire.
Tutto ciò è ben documentato nel libro di Delisio Villa, dal titolo: «Storia dimenticata».
In un altro libro: «Tra macerie e miserie di una regione dimenticata», Piazza editore silea TV (ISBN 8887838-00-3 – stampato nel 1999), Bruno Pederoda, con tanto di pezze d’appoggio inconfutabili.
Citando anche il giornale “Il risorgimento” del 22 e 23 febbraio 1922. Racconta della speculazione imbastita sul recupero delle salme sepolte o dei dispersi sui fronti di battaglia del Veneto nella prima guerra mondiale.
Ogni salma valeva 60 lire di allora, si pensava di raccoglierle nei vari Ossari che sorsero negli anni seguenti.
Tentati dall’affare, ufficiali della Sanità deposero le spalline per dedicarsi al recupero, certi dell’appalto grazie ad amicizie compiacenti (e probabilmente interessate), nei ranghi dell’esercito.
Ma non volevano sporcarsi le mani direttamente, quindi concedevano in subappalto il lavoro fino a che l’ultima ruota del carro era un disperato che guadagnava poche lire a salma.
Non si guardava per il sottile, più salme, più guadagno, per cui il misero mucchietto d’ossa si frazionava e da una salma si ricavava il guadagno di tre.
Questo sistema andava bene, sembra evidente, dall'ultimo “monatto” al capo della gerarchia che aveva imbastito la trafila.
Non solo: non bastasse tanto orrore si scoprì che molti resti andavano in un mucchio a parte, per essere venduti alle fabbriche di concime che li trasformavano in fosfati.
Ne venne fuori uno scandalo, e il rappresentante del Governo davanti alla Camera, cercò di scaricare la responsabilità di tanto orrore sul personale addetto al recupero, pur ammettendo “pesanti responsabilità di persone appartenenti all’esercito”.
Scrive ancora Bruno Pederoda: “La spinta a delinquere era data, come al solito, da esempi che venivano dall’alto, da persone considerate al di sopra di ogni sospetto; la coscienza era poi presto tacitata che rubare allo Stato considerato ladro dalla voce comune, altro non era che un modo di risarcirsi.
Se poi l’autorità giudiziaria, come si assicurava facesse la procura di Bassano del Grappa, seppelliva le denunce negli scaffali più fuori mano, allora era confermato che si poteva continuare a delinquere tranquillamente.
Mentre ogni paese si mobilitava per innalzare un monumento ai propri caduti, “degli operai raccoglievano dagli Altipiani al Carso, le ossa dei caduti per lo sfruttamento industriale della fabbricazione dei fosfati” (dal giornale succitato)…”
Al contrario la Serenissima ha lasciato dietro di sé testimonianze cospicue.
Tra queste è piacevole qui ricordare una lastra di marmo inserita nelle mura della Torre Bissara a Vicenza (vedi foto più sotto) che ci parla – da secoli – del trattamento riservato dalla “dominante” ai suoi pubblici ufficiali che si sono dimostrati infedeli.
Siamo esattamente al 3 Ottobre 1698 ed un alto funzionario dello Stato (nella Repubblica di Venezia diversi magistrati sovrintendenti alle attività economiche portavano il titolo di Camerlenghi de Comùn http://it.wikipedia.org/wiki/Camerlengo_(Repubblica_di_Venezia) è bandito, perché si è impossessato di denari dell’erario, cioè di tutti, e ciò malgrado appartenga ad una delle famiglie patrizie che da sempre governano la repubblica.
Non ci sono dunque nepotismi o eccezioni che contano.
Chi sbaglia paga, ed il Camerlengo Andrea Boldù, vale a dire colui che amministra il tesoro e i beni dello Stato nella città di Vicenza che da lui retta prende anche il nome di "Camera” viene espulso.
Saltando a piè pari la seconda guerra mondiale e gli altri demeriti di casa Savoia, nella repubblica che nasce dalla resistenza (così vuole la propaganda di regime) le cose sul piano morale non migliorano.
Ai giorni nostri apprendiamo che importanti uomini di Stato italiano sembrano aver trattato, (nei primi anni 90 del secolo scorso) con la Mafia.
La magistratura è all'opera per accertarlo.
Ad ogni buon conto non si tratta d'una novità, considerando che nel libro: “La strana unità”, edito da “Il Cerchio”, Rimini 2010, Gilberto Oneto documenta come
questo sia una sorta di “peccato originale” che risale appunto dall'unità d'Italia.
E senza fare il lungo elenco delle innumerevoli altre doglianze pur esponibili a proposito di moralità dello stato italiano, citeremo l'ultimo episodio in ordine di tempo: quello libico.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome dell'Italia dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra.
Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci.
Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2);
l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3);
l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1);
la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2);
l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica. [vedasi:http://www.eurasiarivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia]
Praticamente tutti i servizi giornalistici sulla Libia rivelano molto poco di ciò che sta realmente accadendo, la maggior parte sono segnalazioni di eventi, ma manca ogni tipo di verifica.
In ogni caso questo è il caos nel quale scomparirà qualsiasi ombra di società civile, di strutture sanitarie, qualsiasi forma di istruzione libica che il regime del “pazzo di Tripoli” o Jamahiriya ha in ogni caso realizzato.
[vedasi: http://it.wikipedia.org/wiki/Jam%C4%81h%C4%ABriyya]
Insomma, laddove non si fosse capito, l'Italia è retta attraverso quella che i sudamericani (gente che ha molta esperienza in questo campo) chiamano una «Dicta blanda».
La Costituzione italiana è stata più volte disattesa.
Non c'è solo l'art. 11: “l'Italia ripudia la guerra… etc.”; ma soprattutto nell'art. 1, comma 2, che recita: "La sovranità appartiene al popolo…".
Infatti i politicanti di tutti i partiti fingono di non sapere che i "limiti" cui lo stesso articolo si riferisce, riguardano esclusivamente la "Forma democratica e repubblicana” dello stato italiano, indicata nel 1º comma dello stesso articolo.
Non spetta agli eletti dal popolo, che ne hanno solo l'esercizio, porre limiti alla sovranità popolare.
Che non deve trovare nelle procedure un ostacolo, bensì la propria piena realizzazione.
Il soggetto è la sovranità, non sono le forme e i limiti nei quali il popolo la esercita.
Che dire poi degli innumerevoli referendum (strumento d'eccellenza per l'esercizio della sovranità popolare) elusi o ignorati dai cosiddetti “rappresentanti” del popolo?
Nello sforzo di: assicurarsi il potere, i politici di professione (giunti oramai ad imporre il nome dei loro capi clan nei simboli elettorali) ed i loro partiti sono indotti ad alleanze con i «poteri forti».
E questi hanno interessi non sempre coincidenti con gli interessi della società.
Da ultimo, ma non ultimo, grazie ad alcune leggi elettorali ad hoc i parlamentari vengono nominati dai partiti in contrasto con la Costituzione (artt. 56 e segg.) in base alla quale dovrebbero essere “eletti” (cioè “scelti”) “direttamente” dai cittadini.
Considerato che, anche in base alla legge (art. 1362 Codice civile), bisogna guardare alla “sostanza” (nomina a cura dei partiti) e non alla “forma” (elezione da parte dei cittadini) è evidente, che l’Italia…. ha cessato di essere da molto tempo una democrazia parlamentare!
I partiti (che tengono a far credere di essere democratici) adottano le loro decisioni a maggioranza.
È per questo che una delle loro principali preoccupazioni è quella di eliminare gli avversari “interni”.
Partiti politici o uffici di collocamento?
Da un’intervista a Enrico Berlinguer del 28-7-1981, apprendiamo: «In mancanza di regole precise, vincoli forti e freni etici si instaura una spirale perversa che induce i partiti politici a “lottizzare” qualsiasi aspetto della società…
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo.
Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali…
Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire.»
È cambiato qualcosa da quel lontano 1981?
Il guaio è che la politica in Italia non ha l’obiettivo di amministrare nel modo migliore. L’unico obiettivo sembra sia quello di “combattere” contro l’avversario politico.
È assurdo.
Anche per questo ogni giorno che passa siamo tutti più poveri, ci sono più disoccupati e il paese è meno competitivo!
Malgrado le affermazioni dei governanti di turno relative alla riduzione delle tasse, esse sono in costante aumento, e sorprendentemente è in costante aumento anche il debito pubblico.
Il federalismo fiscale?
Vediamo di cosa si tratta attraverso un documento preparato da Giancarlo Pagliarini, visto, riletto, discusso, integrato e approvato da: Luigi Marco Bassani, Chiara Maria Battistoni, Alessandro Vitale, Francesco Tabladini, Carlo Stagnaro e Carlo Lottieri: «…i principi e i criteri generali inseriti nella legge delega. Sono 32, si trovano nell’articolo 2, e sono identificati con delle lettere: dalla lettera a) alla lettera mm).
Non è il caso di commentarli tutti, ma è utile ricordarne qualcuno.
La lettera a) invoca “maggiore responsabilità”.
Giusto.
Ve la immaginate una legge che impone di non essere responsabili?
La lettera b) ricorda l’importanza della “lealtà istituzionale”.
Giusto.
Vorremo forse scrivere che bisogna essere sleali?
La lettera c) impone il “rispetto dei princìpi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 Luglio 2000 n 212”.
Dunque questa legge impone di rispettare un’altra legge.
Giusto, anche se nei paesi normali queste raccomandazioni sono inutili.
Ma cosa c’entra tutto questo col federalismo?
La lettera d) prevede meccanismi di carattere premiale a favore degli enti che si impegnano nella lotta all’evasione fiscale.
Lo Stato è il padreterno e ti premia se fai il bravo e combatti l’evasione fiscale.
Giusto.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Stesso ragionamento nella lettera z) : lo Stato premia i virtuosi e gli efficienti, mentre punisce (sotto la voce “previsione di meccanismi sanzionatori”) chi non fa il bravo.
Giusto, ma questo è l’asilo Mariuccia, non è federalismo.
Lo Stato centrale si presenta come il Padreterno, premia i Comuni bravi e punisce quelli cattivi.
Bene.
Era ora, anche perché fin’adesso è successo esattamente il contrario.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Inoltre, tra i Comuni virtuosi identificati dal Governo alla fine del 2009 c’erano anche Catania e Palermo. «Noi virtuosi come le due città siciliane?
Mi creda, è una situazione kafkiana» ha ironizzato il sindaco di Treviso, Gian Paolo Gobbo (fonte: Corriere del Veneto).
Lettera h) individuazione di princìpi fondamentali per armonizzare i bilanci pubblici in modo da assicurare la redazione dei bilanci dei Comuni in base a criteri uniformi. Giustissimo.
Era ora.
Questo è solo buon senso.
Questa è una cosa logica.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Lettera ee) dal bilancio dello Stato vengono eliminati i trasferimenti a Regioni e enti locali per finanziare le loro funzioni.
Ma al posto dei trasferimenti dallo Stato centrale per le funzioni ci saranno i trasferimenti dallo Stato centrale per la perequazione e i trasferimenti dallo Stato centrale per gli interventi straordinari.
Dunque, qualcuno incasserà direttamente un paio di euro in più e riceverà un paio di euro di trasferimenti in meno dallo Stato centrale, ma alla fine, nella sostanza non cambierà niente.
4.2 Il risparmio di 2 euro e 3 centesimi
La lettera m) prevede il superamento graduale del criterio della spesa storica, da sostituire con i costi standard.
Ottimo, anche se anche questo non c’entra niente col federalismo.
In una interessante intervista a La Padania (“Questi numeri disarmano i centralisti”), Stefano Galli, capogruppo della lega Nord nel consiglio regionale lombardo, ha dichiarato che “Il federalismo fiscale comporterà un risparmio di 2,3 miliardi di Euro in ambito sanitario.
Non lo dice la Lega, ma la Corte dei Conti, cui va il mio plauso”.
Bene, cerchiamo di capire il “peso” di questi 2,3 miliardi di Euro.
Nel 2008 tutte le Pubbliche Amministrazioni della repubblica italiana
hanno speso 775 miliardi di euro.
Fonte: il bilancio aggregato pubblicato dall’ISTAT il 3 Luglio 09.
Il dettaglio è questo:
1) tutte le tasse, dirette, indirette, centrali e locali, sono state 457 miliardi,
2) più tutte le altre entrate (dividendi, vendite, cartolarizzazioni ecc) , che sono state di 60 miliardi,
3) più i 215 miliardi di contributi sociali incassati dall’INPS e dagli altri enti previdenziali,
4) e così arriviamo a 732 miliardi, che non sono stati sufficienti, perché nel 2008 abbiamo speso 43 miliardi in più di tutto quello che abbiamo incassato.
Il deficit del bilancio aggregato di tutte le Pubbliche Amministrazioni è stato di 43 miliardi.
Sommando anche questi si arriva a 775 miliardi.
Ora, se grazie ai costi standard, che forse cominceranno ad essere utilizzati tra cinque anni se tutto va bene, riusciremo a risparmiare 2,3 miliardi su una spesa totale di 775, saremo tutti felici e contenti, ma le nostre vite e lo “scenario” finanziario della Repubblica italiana non cambieranno.
Per fare un esempio banale è come se una coppia parte per un fine settimana in montagna con un budget di spesa di 775 euro.
Se invece del solito albergo trova una pensione che costa 2 euro 3 centesimi meno dell’albergo dove erano andati il mese prima la coppia risparmia qualcosa ed è contenta, ma la sostanza della sua situazione finanziaria non cambia per niente.
4.3 Non poteva mancare la fiscalità di sviluppo
L’elenco finisce con l’ultimo princìpio, il trentaduesimo, quello della lettera mm), che prevede forme di fiscalità di sviluppo nelle aree sottoutilizzate.
In sostanza il parlamento con questa trentaduesimo princìpio del “federalismo fiscale” dice al Governo di far pagare meno tasse al Sud.
Qualcuno sarà d’accordo e felice mentre a qualcun altro la cosa non andrà per nulla a genio, ma una cosa è sicura: anche questo non c’entra niente col federalismo.»
Il federalismo fiscale porterà all'aumento delle tasse locali.
Però, furbizia delle furbizie, il tutto andrà in onda nel 2013, cioè dopo le elezioni.
Problema rimasto aperto è la perequazione, cioè la spartizione dei soldi tra regioni ricche e regioni povere.
Ovviamente, tale problema non ha trovato soluzione.
Riforma monca, quindi, foriera di ulteriori tensioni.
A questo punto tralasciamo le leggi ad personam e tutte quelle realizzate per rendere difficoltosa o impossibile l'entrata nell'arena politica italiana di nuovi soggetti politici.
«Bisogna creare un'atmosfera culturale tale» – scrive Simone Weil nel suo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” – che «un rappresentante del popolo non concepisca di abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro disciplinato di un partito».
Simone Weil respinge l’obiezione che l’abolizione dei partiti avrebbe colpito la libertà d’associazione e d’opinione.
«La libertà d’associazione è, in genere, la libertà delle associazioni», contro quella degli esseri umani. Infatti, «la libertà d’espressione è un bisogno dell’intelligenza, e l’intelligenza risiede solo nell’essere umano individualmente considerato.
L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente, quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione.»
Insomma i veneti aspirano all'indipendenza per poter vivere in quel tipo di libertà democratiche che lo stato italiano non è mai stato in grado di dare.
Gianfranco Miglio nella presentazione del libro di Allen Buchanan: “SECESSIONE – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi “, scrive tra l'altro: «Se non si riconosce il diritto degli uomini liberi ad affrancarsi da un ordinamento tirannico non altrimenti modificabile («resistenza»), o a separarsi da una comunione politica che non è più conveniente («secessione» come «diritto di stare con chi si vuole»), tutte le costruzioni istituzionali esistenti sarebbero inefficaci per un vizio di legittimità insanabile.
[…] numerosi e recentissimi casi in cui un popolo è stato costretto a chiedere e ottenere la «secessione» da una più ampia comunità di cui faceva parte: mai l'appello al diritto di separarsi è stato frequente e convincente come ai nostri giorni.
L'argomentazione di Buchanan è particolarmente persuasiva là dove l'autore considera il caso delle etnie – quelle dei fiamminghi, sloveni, canadesi francofoni ecc. –
che lamentano di dover sopportare un carico contributivo proporzionalmente eccessivo verso il resto della comunità in cui si trovano inserite, e quindi chiedono (o hanno già ottenuto) di «secedere».
L'analogia con la circostanza in cui si trovano le regioni dell'Italia settentrionale (e i veneti in particolare.
Ndr) è evidente. […] si propone anche l'interpretazione «moderna» del «federalismo»: non più come (in passato) mezzo transitorio per raggiungere l'unità, bensì come assetto stabile per riconoscere, tutelare e gestire le diversità.
La presenza di un ben fondato «diritto di secessione», nel corpo aggiornato del diritto pubblico e della morale politica generale, diventa – in altre parole – garanzia di stabilità e di non reversibilità di tutte le Costituzioni legittime del nostro tempo.
Il diritto alla «diversità» e al «pluralismo» nelle istituzioni (anche se costa sacrifici) non può più essere negato, senza innescare il ricorso al rimedio ultimo, cioè alla «secessione».
Ciò premesso, per il momento ci possiamo limitare all'osservazione per cui la presunzione generale a favore della libertà implica una presunzione a favore del riconoscimento del diritto di secessione nel senso seguente:
l'onere della dimostrazione grava su coloro che si oppongono alla secessione;
sono loro a dover provare che l'indipendenza del Veneto recherebbe un danno non solo in seno lato, ma un danno moralmente rilevante o della gravità morale richiesta per giustificare l'uso della forza atta a impedire la secessione.
Sulla moralità dello stato italiano, invece, si possono avanzare numerosi dubbi.
Infatti, dopo l'unificazione dell'Italia fatta da casa Savoia saltano agli occhi degli studiosi tre cifre spaventose: Il bilancio pubblico è fissato in modo rigido: il 44% serve a pagare i debiti; il 37% è destinato all'Esercito e alla Marina.
Non rimane quasi nulla per scuole, ospedali, strade, ferrovie, dipendenti dello Stato, assistenza pubblica, pensioni…
C'è poi la grande follia militare: l'Italia è un Paese povero, oppresso da debiti, ancora fragile nelle strutture.
E tuttavia mantiene un esercito di 430.000 uomini, più numeroso di quello austriaco, superiore a quello dell'immenso impero britannico.
Per alimentarlo, lo Stato risparmia su tutto… e crea una miscela esplosiva: i "nodi" che spiegano l'emigrazione italiana (sono circa 5 milioni i veneti che nel tempo lasceranno la propria terra) sono tutti presenti.
Si capisce finalmente perché centinaia di migliaia di persone si allontanino ogni anno dalla Penisola.
Anzitutto le tasse.
Sono eccessive, le più alte d'Europa.
Non lasciano alcuna possibilità di risparmio.
Essendo legate ai consumi, colpiscono soprattutto i poveri, rendendo la loro vita insopportabile.
Lo Stato dispone di risorse limitate.
Ma invece di utilizzarle per cambiare il Paese, le mette a disposizione dell'Esercito e delle imprese coloniali.
Non rimane quasi nulla per i bisogni sociali.
L'agricoltura è ammalata.
Invece di essere aiutata viene condannata ad una difficile sopravvivenza.
Il salario dei "giornalieri" è aumentato, nei primi 30 anni dell'Italia unita, solo del 2%.
I contadini sono costretti a partire.
Tutto ciò è ben documentato nel libro di Delisio Villa, dal titolo: «Storia dimenticata».
In un altro libro: «Tra macerie e miserie di una regione dimenticata», Piazza editore silea TV (ISBN 8887838-00-3 – stampato nel 1999), Bruno Pederoda, con tanto di pezze d’appoggio inconfutabili.
Citando anche il giornale “Il risorgimento” del 22 e 23 febbraio 1922. Racconta della speculazione imbastita sul recupero delle salme sepolte o dei dispersi sui fronti di battaglia del Veneto nella prima guerra mondiale.
Ogni salma valeva 60 lire di allora, si pensava di raccoglierle nei vari Ossari che sorsero negli anni seguenti.
Tentati dall’affare, ufficiali della Sanità deposero le spalline per dedicarsi al recupero, certi dell’appalto grazie ad amicizie compiacenti (e probabilmente interessate), nei ranghi dell’esercito.
Ma non volevano sporcarsi le mani direttamente, quindi concedevano in subappalto il lavoro fino a che l’ultima ruota del carro era un disperato che guadagnava poche lire a salma.
Non si guardava per il sottile, più salme, più guadagno, per cui il misero mucchietto d’ossa si frazionava e da una salma si ricavava il guadagno di tre.
Questo sistema andava bene, sembra evidente, dall'ultimo “monatto” al capo della gerarchia che aveva imbastito la trafila.
Non solo: non bastasse tanto orrore si scoprì che molti resti andavano in un mucchio a parte, per essere venduti alle fabbriche di concime che li trasformavano in fosfati.
Ne venne fuori uno scandalo, e il rappresentante del Governo davanti alla Camera, cercò di scaricare la responsabilità di tanto orrore sul personale addetto al recupero, pur ammettendo “pesanti responsabilità di persone appartenenti all’esercito”.
Scrive ancora Bruno Pederoda: “La spinta a delinquere era data, come al solito, da esempi che venivano dall’alto, da persone considerate al di sopra di ogni sospetto; la coscienza era poi presto tacitata che rubare allo Stato considerato ladro dalla voce comune, altro non era che un modo di risarcirsi.
Se poi l’autorità giudiziaria, come si assicurava facesse la procura di Bassano del Grappa, seppelliva le denunce negli scaffali più fuori mano, allora era confermato che si poteva continuare a delinquere tranquillamente.
Mentre ogni paese si mobilitava per innalzare un monumento ai propri caduti, “degli operai raccoglievano dagli Altipiani al Carso, le ossa dei caduti per lo sfruttamento industriale della fabbricazione dei fosfati” (dal giornale succitato)…”
Al contrario la Serenissima ha lasciato dietro di sé testimonianze cospicue.
Tra queste è piacevole qui ricordare una lastra di marmo inserita nelle mura della Torre Bissara a Vicenza (vedi foto più sotto) che ci parla – da secoli – del trattamento riservato dalla “dominante” ai suoi pubblici ufficiali che si sono dimostrati infedeli.
Siamo esattamente al 3 Ottobre 1698 ed un alto funzionario dello Stato (nella Repubblica di Venezia diversi magistrati sovrintendenti alle attività economiche portavano il titolo di Camerlenghi de Comùn http://it.wikipedia.org/wiki/Camerlengo_(Repubblica_di_Venezia) è bandito, perché si è impossessato di denari dell’erario, cioè di tutti, e ciò malgrado appartenga ad una delle famiglie patrizie che da sempre governano la repubblica.
Non ci sono dunque nepotismi o eccezioni che contano.
Chi sbaglia paga, ed il Camerlengo Andrea Boldù, vale a dire colui che amministra il tesoro e i beni dello Stato nella città di Vicenza che da lui retta prende anche il nome di "Camera” viene espulso.
Saltando a piè pari la seconda guerra mondiale e gli altri demeriti di casa Savoia, nella repubblica che nasce dalla resistenza (così vuole la propaganda di regime) le cose sul piano morale non migliorano.
Ai giorni nostri apprendiamo che importanti uomini di Stato italiano sembrano aver trattato, (nei primi anni 90 del secolo scorso) con la Mafia.
La magistratura è all'opera per accertarlo.
Ad ogni buon conto non si tratta d'una novità, considerando che nel libro: “La strana unità”, edito da “Il Cerchio”, Rimini 2010, Gilberto Oneto documenta come
questo sia una sorta di “peccato originale” che risale appunto dall'unità d'Italia.
E senza fare il lungo elenco delle innumerevoli altre doglianze pur esponibili a proposito di moralità dello stato italiano, citeremo l'ultimo episodio in ordine di tempo: quello libico.
La relazione italo-libica è stata suggellata nel 2009 dal Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, siglato a nome dell'Italia dal presidente Silvio Berlusconi ma derivante da trattative condotte già sotto i governi precedenti, anche di Centro-Sinistra.
Tale trattato, oltre a rafforzare la cooperazione in una lunga serie di ambiti, impegnava le parti ad alcuni obblighi reciproci.
Tra essi possiamo citare: il rispetto reciproco della «uguaglianza sovrana, nonché tutti i diritti ad essa inerenti compreso, in particolare, il diritto alla libertà ed all’indipendenza politica» ed il diritto di ciascuna parte a «scegliere e sviluppare liberamente il proprio sistema politico, sociale, economico e culturale» (art. 2);
l’impegno a «non ricorrere alla minaccia o all’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’altra Parte» (art. 3);
l’astensione da «qualsiasi forma di ingerenza diretta o indiretta negli affari interni o esterni che rientrino nella giurisdizione dell’altra Parte» (art. 4.1);
la rassicurazione dell’Italia che «non userà, né permetterà l’uso dei propri territori in qualsiasi atto ostile contro la Libia» e viceversa (art. 4.2);
l’impegno a dirimere pacificamente le controversie che dovessero sorgere tra i due paesi (art. 5).
L’Italia è dunque arrivata all’esplodere della crisi libica come alleata di Tripoli, legata alla Libia dalle clausole – poste nero su bianco – di un trattato, stipulato non cent’anni fa ma nel 2009, e non da un governo passato ma da quello ancora in carica. [vedasi:http://www.eurasiarivista.org/8778/litalia-ha-gia-perso-la-sua-guerra-di-libia]
Praticamente tutti i servizi giornalistici sulla Libia rivelano molto poco di ciò che sta realmente accadendo, la maggior parte sono segnalazioni di eventi, ma manca ogni tipo di verifica.
In ogni caso questo è il caos nel quale scomparirà qualsiasi ombra di società civile, di strutture sanitarie, qualsiasi forma di istruzione libica che il regime del “pazzo di Tripoli” o Jamahiriya ha in ogni caso realizzato.
[vedasi: http://it.wikipedia.org/wiki/Jam%C4%81h%C4%ABriyya]
Insomma, laddove non si fosse capito, l'Italia è retta attraverso quella che i sudamericani (gente che ha molta esperienza in questo campo) chiamano una «Dicta blanda».
La Costituzione italiana è stata più volte disattesa.
Non c'è solo l'art. 11: “l'Italia ripudia la guerra… etc.”; ma soprattutto nell'art. 1, comma 2, che recita: "La sovranità appartiene al popolo…".
Infatti i politicanti di tutti i partiti fingono di non sapere che i "limiti" cui lo stesso articolo si riferisce, riguardano esclusivamente la "Forma democratica e repubblicana” dello stato italiano, indicata nel 1º comma dello stesso articolo.
Non spetta agli eletti dal popolo, che ne hanno solo l'esercizio, porre limiti alla sovranità popolare.
Che non deve trovare nelle procedure un ostacolo, bensì la propria piena realizzazione.
Il soggetto è la sovranità, non sono le forme e i limiti nei quali il popolo la esercita.
Che dire poi degli innumerevoli referendum (strumento d'eccellenza per l'esercizio della sovranità popolare) elusi o ignorati dai cosiddetti “rappresentanti” del popolo?
Nello sforzo di: assicurarsi il potere, i politici di professione (giunti oramai ad imporre il nome dei loro capi clan nei simboli elettorali) ed i loro partiti sono indotti ad alleanze con i «poteri forti».
E questi hanno interessi non sempre coincidenti con gli interessi della società.
Da ultimo, ma non ultimo, grazie ad alcune leggi elettorali ad hoc i parlamentari vengono nominati dai partiti in contrasto con la Costituzione (artt. 56 e segg.) in base alla quale dovrebbero essere “eletti” (cioè “scelti”) “direttamente” dai cittadini.
Considerato che, anche in base alla legge (art. 1362 Codice civile), bisogna guardare alla “sostanza” (nomina a cura dei partiti) e non alla “forma” (elezione da parte dei cittadini) è evidente, che l’Italia…. ha cessato di essere da molto tempo una democrazia parlamentare!
I partiti (che tengono a far credere di essere democratici) adottano le loro decisioni a maggioranza.
È per questo che una delle loro principali preoccupazioni è quella di eliminare gli avversari “interni”.
Partiti politici o uffici di collocamento?
Da un’intervista a Enrico Berlinguer del 28-7-1981, apprendiamo: «In mancanza di regole precise, vincoli forti e freni etici si instaura una spirale perversa che induce i partiti politici a “lottizzare” qualsiasi aspetto della società…
I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo.
Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali…
Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire.»
È cambiato qualcosa da quel lontano 1981?
Il guaio è che la politica in Italia non ha l’obiettivo di amministrare nel modo migliore. L’unico obiettivo sembra sia quello di “combattere” contro l’avversario politico.
È assurdo.
Anche per questo ogni giorno che passa siamo tutti più poveri, ci sono più disoccupati e il paese è meno competitivo!
Malgrado le affermazioni dei governanti di turno relative alla riduzione delle tasse, esse sono in costante aumento, e sorprendentemente è in costante aumento anche il debito pubblico.
Il federalismo fiscale?
Vediamo di cosa si tratta attraverso un documento preparato da Giancarlo Pagliarini, visto, riletto, discusso, integrato e approvato da: Luigi Marco Bassani, Chiara Maria Battistoni, Alessandro Vitale, Francesco Tabladini, Carlo Stagnaro e Carlo Lottieri: «…i principi e i criteri generali inseriti nella legge delega. Sono 32, si trovano nell’articolo 2, e sono identificati con delle lettere: dalla lettera a) alla lettera mm).
Non è il caso di commentarli tutti, ma è utile ricordarne qualcuno.
La lettera a) invoca “maggiore responsabilità”.
Giusto.
Ve la immaginate una legge che impone di non essere responsabili?
La lettera b) ricorda l’importanza della “lealtà istituzionale”.
Giusto.
Vorremo forse scrivere che bisogna essere sleali?
La lettera c) impone il “rispetto dei princìpi sanciti dallo statuto dei diritti del contribuente di cui alla legge 27 Luglio 2000 n 212”.
Dunque questa legge impone di rispettare un’altra legge.
Giusto, anche se nei paesi normali queste raccomandazioni sono inutili.
Ma cosa c’entra tutto questo col federalismo?
La lettera d) prevede meccanismi di carattere premiale a favore degli enti che si impegnano nella lotta all’evasione fiscale.
Lo Stato è il padreterno e ti premia se fai il bravo e combatti l’evasione fiscale.
Giusto.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Stesso ragionamento nella lettera z) : lo Stato premia i virtuosi e gli efficienti, mentre punisce (sotto la voce “previsione di meccanismi sanzionatori”) chi non fa il bravo.
Giusto, ma questo è l’asilo Mariuccia, non è federalismo.
Lo Stato centrale si presenta come il Padreterno, premia i Comuni bravi e punisce quelli cattivi.
Bene.
Era ora, anche perché fin’adesso è successo esattamente il contrario.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Inoltre, tra i Comuni virtuosi identificati dal Governo alla fine del 2009 c’erano anche Catania e Palermo. «Noi virtuosi come le due città siciliane?
Mi creda, è una situazione kafkiana» ha ironizzato il sindaco di Treviso, Gian Paolo Gobbo (fonte: Corriere del Veneto).
Lettera h) individuazione di princìpi fondamentali per armonizzare i bilanci pubblici in modo da assicurare la redazione dei bilanci dei Comuni in base a criteri uniformi. Giustissimo.
Era ora.
Questo è solo buon senso.
Questa è una cosa logica.
Ma cosa c’entra col federalismo?
Lettera ee) dal bilancio dello Stato vengono eliminati i trasferimenti a Regioni e enti locali per finanziare le loro funzioni.
Ma al posto dei trasferimenti dallo Stato centrale per le funzioni ci saranno i trasferimenti dallo Stato centrale per la perequazione e i trasferimenti dallo Stato centrale per gli interventi straordinari.
Dunque, qualcuno incasserà direttamente un paio di euro in più e riceverà un paio di euro di trasferimenti in meno dallo Stato centrale, ma alla fine, nella sostanza non cambierà niente.
4.2 Il risparmio di 2 euro e 3 centesimi
La lettera m) prevede il superamento graduale del criterio della spesa storica, da sostituire con i costi standard.
Ottimo, anche se anche questo non c’entra niente col federalismo.
In una interessante intervista a La Padania (“Questi numeri disarmano i centralisti”), Stefano Galli, capogruppo della lega Nord nel consiglio regionale lombardo, ha dichiarato che “Il federalismo fiscale comporterà un risparmio di 2,3 miliardi di Euro in ambito sanitario.
Non lo dice la Lega, ma la Corte dei Conti, cui va il mio plauso”.
Bene, cerchiamo di capire il “peso” di questi 2,3 miliardi di Euro.
Nel 2008 tutte le Pubbliche Amministrazioni della repubblica italiana
hanno speso 775 miliardi di euro.
Fonte: il bilancio aggregato pubblicato dall’ISTAT il 3 Luglio 09.
Il dettaglio è questo:
1) tutte le tasse, dirette, indirette, centrali e locali, sono state 457 miliardi,
2) più tutte le altre entrate (dividendi, vendite, cartolarizzazioni ecc) , che sono state di 60 miliardi,
3) più i 215 miliardi di contributi sociali incassati dall’INPS e dagli altri enti previdenziali,
4) e così arriviamo a 732 miliardi, che non sono stati sufficienti, perché nel 2008 abbiamo speso 43 miliardi in più di tutto quello che abbiamo incassato.
Il deficit del bilancio aggregato di tutte le Pubbliche Amministrazioni è stato di 43 miliardi.
Sommando anche questi si arriva a 775 miliardi.
Ora, se grazie ai costi standard, che forse cominceranno ad essere utilizzati tra cinque anni se tutto va bene, riusciremo a risparmiare 2,3 miliardi su una spesa totale di 775, saremo tutti felici e contenti, ma le nostre vite e lo “scenario” finanziario della Repubblica italiana non cambieranno.
Per fare un esempio banale è come se una coppia parte per un fine settimana in montagna con un budget di spesa di 775 euro.
Se invece del solito albergo trova una pensione che costa 2 euro 3 centesimi meno dell’albergo dove erano andati il mese prima la coppia risparmia qualcosa ed è contenta, ma la sostanza della sua situazione finanziaria non cambia per niente.
4.3 Non poteva mancare la fiscalità di sviluppo
L’elenco finisce con l’ultimo princìpio, il trentaduesimo, quello della lettera mm), che prevede forme di fiscalità di sviluppo nelle aree sottoutilizzate.
In sostanza il parlamento con questa trentaduesimo princìpio del “federalismo fiscale” dice al Governo di far pagare meno tasse al Sud.
Qualcuno sarà d’accordo e felice mentre a qualcun altro la cosa non andrà per nulla a genio, ma una cosa è sicura: anche questo non c’entra niente col federalismo.»
Il federalismo fiscale porterà all'aumento delle tasse locali.
Però, furbizia delle furbizie, il tutto andrà in onda nel 2013, cioè dopo le elezioni.
Problema rimasto aperto è la perequazione, cioè la spartizione dei soldi tra regioni ricche e regioni povere.
Ovviamente, tale problema non ha trovato soluzione.
Riforma monca, quindi, foriera di ulteriori tensioni.
A questo punto tralasciamo le leggi ad personam e tutte quelle realizzate per rendere difficoltosa o impossibile l'entrata nell'arena politica italiana di nuovi soggetti politici.
«Bisogna creare un'atmosfera culturale tale» – scrive Simone Weil nel suo “Manifesto per la soppressione dei partiti politici” – che «un rappresentante del popolo non concepisca di abdicare alla propria dignità al punto da diventare membro disciplinato di un partito».
Simone Weil respinge l’obiezione che l’abolizione dei partiti avrebbe colpito la libertà d’associazione e d’opinione.
«La libertà d’associazione è, in genere, la libertà delle associazioni», contro quella degli esseri umani. Infatti, «la libertà d’espressione è un bisogno dell’intelligenza, e l’intelligenza risiede solo nell’essere umano individualmente considerato.
L’intelligenza non può essere esercitata collettivamente, quindi nessun gruppo può legittimamente aspirare alla libertà d’espressione.»
Insomma i veneti aspirano all'indipendenza per poter vivere in quel tipo di libertà democratiche che lo stato italiano non è mai stato in grado di dare.
2 – Sottrarsi a una ridistribuzione discriminatoria
Un gruppo può lecitamente opporsi allo stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento.
Alcuni italiani del Nord, che sono a favore della secessione, sono forse preoccupati non tanto del fatto che c'è un maggior contributo alle entrate fiscali del Nord rispetto a quello delle altre parti del paese, quanto della (secondo loro) inefficienza del governo italiano, specialmente della burocrazia, e dello sperpero dei contributi del Nord al fisco dovuto a cattiva amministrazione e a corruzione.
Perciò i secessionisti, che sono i più ricchi, potrebbero semplicemente desiderare di diventare politicamente indipendenti per sfuggire a un cattivo modo di governare e per avere più controllo politico sulle proprie contribuzioni all'altrui benessere.
Non è affatto detto che intendano secedere soltanto per evitare di pagare tali contributi.
Scrive ILVO DIAMANTI, in “la Repubblica” del 9/11/2010: «…Al di là dei danni – enormi – alle case e alle cose, l'inondazione ha inferto ferite profonde alle persone. Più che fuori: dentro.
I vicentini: hanno perduto tranquillità e sicurezza.
Oggi hanno paura dell'acqua.
Cioè: di se stessi, del proprio mondo di vita.
Perché anche Vicenza, Verona, Padova, Treviso – non solo Venezia – sono città d'acqua.
Attraversate da fiumi, rogge, canali…»
Insomma, i veneti pagano più tasse di altri italiani.
Questo viene giustificato come “giustizia redistributiva”, ovvero i ricchi e più fortunati ridistruiscono per mezzo dello stato ai poveri, ma quando tale solidarietà la debbono ricevere i veneti, lo stato è latitante.
I veneti dovranno fare, come sempre, da soli.
I veneti vogliono l'indipendenza, perché i loro diritti civili e politici sono stati violati; perché hanno sofferto ingiustizie nella ridistribuzione; perché reclamano un territorio che gli è stato ingiustamente sottratto (come vedremo più avanti); perché il loro stile di vita non può prosperare in una società che non rispetta quei diritti civili e politici individuali che sono alla base di una società liberale.
I veneti vogliono essere in grado di preservare e trasmettere alle generazioni successive i propri peculiari valori in condizioni di libertà di espressione.
La mancanza di efficienza della scuola pubblica e nell'industria del tempo libero annulla gli sforzi da essi profusi per inculcare ai loro figli quelli che essi ritengono i loro valori cristiani.
Moltissimi veneti sono convinti che senza la difesa dei valori del buongoverno, del libero intraprendere nelle arti e nelle professioni, della moralità civico-statale espressa dalla millenaria Repubblica di Venezia, essi priveranno anche i propri figli e le generazioni future di questi diritti.
Resistere al loro desiderio d'indipendenza non è giustificato per il bene di altri le cui libertà e opportunità sarebbero gravemente danneggiate dall'attuale stato italiano, che – stante la sua 150ennale esistenza – non consentirà la possibilità di esprimersi liberamente.
I veneti non desiderano più soggiacere al paternalismo morbido dello stato italiano che li tratta come bambini o individui deboli di mente, che non sono in grado di formulare scelte indipendenti.
Né intendono subire passivamente un paternalismo forte è l'interferenza sulle loro scelte volontarie e consapevoli, con il pretesto che lo stato italiano si oppone alla loro indipendenza per il loro bene.
I veneti vogliono l'indipendenza per costituire un regime da cui sia possibile la libera uscita.
Essi instaureranno un sistema democratico che non violerà i diritti individuali, inclusi quelli delle future generazioni.
Queste ultime, infatti, non hanno scientemente deciso di abdicare ai propri diritti.
Resistere agli indipendentisti veneti, in questo caso, risulterebbe moralmente inaccettabile ed oltremodo riprovevole.
Un gruppo può lecitamente opporsi allo stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento.
Alcuni italiani del Nord, che sono a favore della secessione, sono forse preoccupati non tanto del fatto che c'è un maggior contributo alle entrate fiscali del Nord rispetto a quello delle altre parti del paese, quanto della (secondo loro) inefficienza del governo italiano, specialmente della burocrazia, e dello sperpero dei contributi del Nord al fisco dovuto a cattiva amministrazione e a corruzione.
Perciò i secessionisti, che sono i più ricchi, potrebbero semplicemente desiderare di diventare politicamente indipendenti per sfuggire a un cattivo modo di governare e per avere più controllo politico sulle proprie contribuzioni all'altrui benessere.
Non è affatto detto che intendano secedere soltanto per evitare di pagare tali contributi.
Scrive ILVO DIAMANTI, in “la Repubblica” del 9/11/2010: «…Al di là dei danni – enormi – alle case e alle cose, l'inondazione ha inferto ferite profonde alle persone. Più che fuori: dentro.
I vicentini: hanno perduto tranquillità e sicurezza.
Oggi hanno paura dell'acqua.
Cioè: di se stessi, del proprio mondo di vita.
Perché anche Vicenza, Verona, Padova, Treviso – non solo Venezia – sono città d'acqua.
Attraversate da fiumi, rogge, canali…»
Insomma, i veneti pagano più tasse di altri italiani.
Questo viene giustificato come “giustizia redistributiva”, ovvero i ricchi e più fortunati ridistruiscono per mezzo dello stato ai poveri, ma quando tale solidarietà la debbono ricevere i veneti, lo stato è latitante.
I veneti dovranno fare, come sempre, da soli.
I veneti vogliono l'indipendenza, perché i loro diritti civili e politici sono stati violati; perché hanno sofferto ingiustizie nella ridistribuzione; perché reclamano un territorio che gli è stato ingiustamente sottratto (come vedremo più avanti); perché il loro stile di vita non può prosperare in una società che non rispetta quei diritti civili e politici individuali che sono alla base di una società liberale.
I veneti vogliono essere in grado di preservare e trasmettere alle generazioni successive i propri peculiari valori in condizioni di libertà di espressione.
La mancanza di efficienza della scuola pubblica e nell'industria del tempo libero annulla gli sforzi da essi profusi per inculcare ai loro figli quelli che essi ritengono i loro valori cristiani.
Moltissimi veneti sono convinti che senza la difesa dei valori del buongoverno, del libero intraprendere nelle arti e nelle professioni, della moralità civico-statale espressa dalla millenaria Repubblica di Venezia, essi priveranno anche i propri figli e le generazioni future di questi diritti.
Resistere al loro desiderio d'indipendenza non è giustificato per il bene di altri le cui libertà e opportunità sarebbero gravemente danneggiate dall'attuale stato italiano, che – stante la sua 150ennale esistenza – non consentirà la possibilità di esprimersi liberamente.
I veneti non desiderano più soggiacere al paternalismo morbido dello stato italiano che li tratta come bambini o individui deboli di mente, che non sono in grado di formulare scelte indipendenti.
Né intendono subire passivamente un paternalismo forte è l'interferenza sulle loro scelte volontarie e consapevoli, con il pretesto che lo stato italiano si oppone alla loro indipendenza per il loro bene.
I veneti vogliono l'indipendenza per costituire un regime da cui sia possibile la libera uscita.
Essi instaureranno un sistema democratico che non violerà i diritti individuali, inclusi quelli delle future generazioni.
Queste ultime, infatti, non hanno scientemente deciso di abdicare ai propri diritti.
Resistere agli indipendentisti veneti, in questo caso, risulterebbe moralmente inaccettabile ed oltremodo riprovevole.
3 – Aumentare l'efficienza
Notizia in FISCO, ITALIA del 27 marzo 2011: «Usati fondi INPS per coprire le spese correnti» http://riechoblog.wordpress.com/2011/03/27/usati-fondi-inps-per-coprire-le-spese-correnti/ – Il governo ha usato 15 miliardi e 860 milioni delle liquidazioni accantonate all’Inps per le spese correnti.
Denaro che – per la Corte dei conti – rappresenta una “tassazione indiretta”.
L'“invadenza della politica” è sicuramente uno dei motivi della decadenza economica dell'Italia, della sua continua perdita di competitività e del pessimo funzionamento della sua burocrazia e di alcune pubbliche amministrazioni.”
I bilanci dello Stato, delle Regioni, dei Comuni e degli altri enti pubblici sono caratterizzati da tantissimi dettagli ma ai cittadini non vengono offerti dati di sintesi significativi.
I veneti ritengono sia loro dovere informare in modo chiaro, sintetico e comprensibile i cittadini, indipendentemente dagli schemi non razionali e non trasparenti imposti dalle leggi italiane.
Avere, poi, una magistratura contabile, nelle vesti della Corte dei Conti che registra un reato, ma non emette o non può emettere una sanzione, induce i veneti a credere all'ippossibilità di serie riforme, tese all'interesse del “sovrano” cittadino-elettore-contribuente, all'interno dello stato italiano.
Potremmo continuare all'infinito sulle inefficienze dello stato italiano, che non a caso e sin dai libri di scuola ha avuto l'attenzione di non informare sul buongoverno dei veneti mediante la ultra millenaria Repubblica di Venezia.
Notizia in FISCO, ITALIA del 27 marzo 2011: «Usati fondi INPS per coprire le spese correnti» http://riechoblog.wordpress.com/2011/03/27/usati-fondi-inps-per-coprire-le-spese-correnti/ – Il governo ha usato 15 miliardi e 860 milioni delle liquidazioni accantonate all’Inps per le spese correnti.
Denaro che – per la Corte dei conti – rappresenta una “tassazione indiretta”.
L'“invadenza della politica” è sicuramente uno dei motivi della decadenza economica dell'Italia, della sua continua perdita di competitività e del pessimo funzionamento della sua burocrazia e di alcune pubbliche amministrazioni.”
I bilanci dello Stato, delle Regioni, dei Comuni e degli altri enti pubblici sono caratterizzati da tantissimi dettagli ma ai cittadini non vengono offerti dati di sintesi significativi.
I veneti ritengono sia loro dovere informare in modo chiaro, sintetico e comprensibile i cittadini, indipendentemente dagli schemi non razionali e non trasparenti imposti dalle leggi italiane.
Avere, poi, una magistratura contabile, nelle vesti della Corte dei Conti che registra un reato, ma non emette o non può emettere una sanzione, induce i veneti a credere all'ippossibilità di serie riforme, tese all'interesse del “sovrano” cittadino-elettore-contribuente, all'interno dello stato italiano.
Potremmo continuare all'infinito sulle inefficienze dello stato italiano, che non a caso e sin dai libri di scuola ha avuto l'attenzione di non informare sul buongoverno dei veneti mediante la ultra millenaria Repubblica di Venezia.
4 – Rettificare le ingiustizie del passato.
Questo è forse l'argomento pro indipendenza del Veneto più semplice e più allettante dal punto di vista intuitivo, trovando svariate applicazioni nei moti secessionisti del mondo contemporaneo e in particolare nei paesi ex comunisti.
Esso afferma che una regione ha diritto a secedere se è stata ingiustamente incorporata nella più ampia unità da cui intende separarsi.
Le Repubbliche baltiche, rappresentano un caso esemplare.
La forza dell'argomento deriva dalla tesi per cui in questi casi la secessione è la semplice riappropriazione, da parte del legittimo proprietario, del territorio sottratto.
Il diritto a secedere, in queste circostanze, è il semplice diritto di reclamare ciò che è proprio.
Sul savoiardo prebiscito truffa del 21/22 ottobre 1866 in Veneto sono stati scritti numerosi volumi.
Non è necessario ritornarvi in questa sede.
È più semplice esporre la seguente testimonianza: «L’Italia è finita.
O forse, nata su dei plebisciti burletta come quelli del 1860-’61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere.
Per me non è più la Patria.
È solo il rimpianto di una Patria».
Queste le ultime righe del desolato poscritto che Indro Montanelli ha posto all’ultimo volume della sua-nostra-storia; l’Italia dell’Ulivo.
Non più desolate, queste ultime righe, delle prime: «Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell’Italia contemporanea.
Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo.
Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti.
Ma perché il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più ppartenere».
http://www.ilcorriereblog.it/cultura-e-spettacoli/38/3181.html
L'argomento basato sulla giustizia rettificatoria costituisce una prova convincente dell'esistenza di un diritto morale all'indipendenza.
Infatti, prim'ancora della millenaria Repubblica di Venezia, in questi territorio vivevano i veneti o heneti da millenni.
Essi non furono soggiogati nemmeno dai romani, con i quali vennero a patti e mantennero la loro peculiarità.
Anche in questo caso le pubblicazioni sono innumerevoli, e per semplicità, in questa sede, citeremo solamente questo sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Veneti
Questo è forse l'argomento pro indipendenza del Veneto più semplice e più allettante dal punto di vista intuitivo, trovando svariate applicazioni nei moti secessionisti del mondo contemporaneo e in particolare nei paesi ex comunisti.
Esso afferma che una regione ha diritto a secedere se è stata ingiustamente incorporata nella più ampia unità da cui intende separarsi.
Le Repubbliche baltiche, rappresentano un caso esemplare.
La forza dell'argomento deriva dalla tesi per cui in questi casi la secessione è la semplice riappropriazione, da parte del legittimo proprietario, del territorio sottratto.
Il diritto a secedere, in queste circostanze, è il semplice diritto di reclamare ciò che è proprio.
Sul savoiardo prebiscito truffa del 21/22 ottobre 1866 in Veneto sono stati scritti numerosi volumi.
Non è necessario ritornarvi in questa sede.
È più semplice esporre la seguente testimonianza: «L’Italia è finita.
O forse, nata su dei plebisciti burletta come quelli del 1860-’61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere.
Per me non è più la Patria.
È solo il rimpianto di una Patria».
Queste le ultime righe del desolato poscritto che Indro Montanelli ha posto all’ultimo volume della sua-nostra-storia; l’Italia dell’Ulivo.
Non più desolate, queste ultime righe, delle prime: «Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell’Italia contemporanea.
Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà se vorrà (e io spero che lo voglia) continuarla da solo.
Io debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti.
Ma perché il congedo l’ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più ppartenere».
http://www.ilcorriereblog.it/cultura-e-spettacoli/38/3181.html
L'argomento basato sulla giustizia rettificatoria costituisce una prova convincente dell'esistenza di un diritto morale all'indipendenza.
Infatti, prim'ancora della millenaria Repubblica di Venezia, in questi territorio vivevano i veneti o heneti da millenni.
Essi non furono soggiogati nemmeno dai romani, con i quali vennero a patti e mantennero la loro peculiarità.
Anche in questo caso le pubblicazioni sono innumerevoli, e per semplicità, in questa sede, citeremo solamente questo sito: http://it.wikipedia.org/wiki/Veneti
5 – il diritto a secedere
Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce il diritto di un popolo sottoposto a dominazione straniera ad ottenere l'indipendenza, associarsi a un altro stato o comunque a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico.
Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale generale cioè una norma che produce effetti giuridici (diritti ed obblighi) per tutta la Comunità degli Stati.
Inoltre questo princìpio rappresenta anche una norma di jus cogens, cioè diritto inderogabile (Significa che esso è un princìpio supremo ed irrinunciabile del diritto internazionale, per cui non può essere derogato mediante convenzione internazionale).
Come tutto il diritto internazionale, il diritto di autodeterminazione è ratificato da leggi interne, per esempio l'italiana Legge n. 881/1977, esso vale come legge dello Stato che prevale sul diritto interno (Cass. Pen. 21-3 1975).
Analizzando il controverso dibattito tra le posizioni pro e contro la secessione abbiamo concluso che un diritto morale a secedere esiste; affermarne l'esistenza equivale a dire che a coloro a cui questo diritto è concesso devono (in determinate circostanze) avere la facoltà di secedere senza interferenze da parte di altri, e che di conseguenza gli altri hanno un pressante obbligo a non interferire.
Significa anche ammettere che ci sono considerazioni in favore dell'indipendenza del Veneto che hanno un così grande valore morale da giustificare tale divieto di interferenza.
Pertanto, asserire l'esistenza di un diritto, morale o di altra natura, non equivale ad affermare che esso esiste alla stregua di un'entità ectoplasmatica (uno spettro pronto a «uscire» nella notte, come lo definisce Allen Buchanan nella sua opera sopra citata).
Piuttosto, il diritto morale alla secessione deve essere inteso come una specie di scorciatoia, rispetto alla via più lunga e tortuosa: quella ben nota, e di facile comprensione, di affermare l'esistenza di valide e sufficienti ragioni morali per non interferire con la secessione, anche qualora tale interferenza favorisse altri interessi.
Un'ulteriore implicazione è che il divieto di interferenza è così forte da rendere in questo caso insufficienti alcuni tipi di argomenti contrari (come il fatto che interferire produrrebbe una maggiore utilità generale) i quali normalmente, in altri contesti, potrebbero giustificare l'ingerenza.
Secondo questo modo di intendere il significato d'esistenza di un diritto, le affermazioni di diritto hanno carattere essenzialmente conclusivo e sono di conseguenza argomentative.
L'affermazione di un diritto è una decisione su quali siano le priorità morali.
Allo stesso tempo, siccome è una conclusione, bisogna ammettere la necessità di far luce sulle sue premesse, ossia sulle ragioni in virtù delle quali queste priorità devono essere riconosciute.
Il princìpio di autodeterminazione dei popoli si è sviluppato compiutamente a partire dalla seconda metà del secolo scorso, nel 1945 alla fine della Seconda guerra mondiale.
In particolare è stata l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a promuoverne lo sviluppo all'interno della Comunità degli Stati.
Il contenuto del princìpio di autodeterminazione dei popoli consiste in obblighi per gli Stati della Comunità internazionale di non impedire o anche intralciare l'autodeterminazione dei popoli, intesa come libertà degli stessi di autodeterminare il proprio assetto costituzionale.
In particolare il principio è servito a favorire la decolonizzazione, in quanto ha permesso agli Stati in via di sviluppo di indire libere elezioni, darsi una Costituzione propria, scegliere la forma di governo, senza subire pressioni dagli Stati più sviluppati.
A questo punto gli indipendentisti veneti hanno tutto l'interesse e l'urgenza ad indire un'Assemblea costituente, soprattutto alla luce dei princìpi a suo tempo espressi Thomas Paine nel 1791 (vedasi: Rights of Man):
«Una costituzione non è l’atto di un governo, ma l’atto di un popolo che
crea un governo: un governo senza costituzione è un potere senza diritto
…Una costituzione è antecedente a un governo: e il governo è solo la creatura della costituzione».
I costituenti veneti avranno così modo di redigere una “Carta” che spetterà in ogni caso agli elettori veneti approvare mediante apposito referendum confermativo.
Con ciò ottenendo più risultati:
• dimostreranno nei fatti e negli intenti la superiorità morale del loro procedere;
• rispetteranno il princìpio di sovranità popolare;
• potranno darsi regole più autenticamente democratiche;
• proveranno (laddove ce ne fosse ancora bisogno) che la Costituzione italiana è legale, ma è illegittima, visto che il popolo non l'ha mai esplicitamente approvata.
• Recupereranno la civiltà umanistica e comunale che, intorno al 1.200, dal nord e centro della penisola italica si espanse in buona parte d’Europa, sancì l’arte di gestire una società di uomini liberi sottomessi solo alle leggi che essi stessi si erano dati.
Di qui la “sovranità popolare”, perfetto ossimoro in quanto la sovranità attiene al sovrano, e il “populus sibi princeps” (ovvero il popolo è principe di se stesso) furono alla base della più importante rivoluzione della storia post-classica, che produsse non solo il nome di “libertas” ma anche il superamento da parte dell’Europa della civiltà araba.
Si tratta, in sintesi, del governo dal basso contro il governo dall’alto, governo debole (col popolo) contro il governo forte, governo dei molti contro il (o di uno solo), governo decentrato contro il governo accentrato.
Insomma, con la “res publica” è il popolo che protegge la patria, poiché non può essere il territorio (la patria) a proteggere i cittadini.
01/04/2011
Enzo Trentin
Il principio di autodeterminazione dei popoli sancisce il diritto di un popolo sottoposto a dominazione straniera ad ottenere l'indipendenza, associarsi a un altro stato o comunque a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico.
Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale generale cioè una norma che produce effetti giuridici (diritti ed obblighi) per tutta la Comunità degli Stati.
Inoltre questo princìpio rappresenta anche una norma di jus cogens, cioè diritto inderogabile (Significa che esso è un princìpio supremo ed irrinunciabile del diritto internazionale, per cui non può essere derogato mediante convenzione internazionale).
Come tutto il diritto internazionale, il diritto di autodeterminazione è ratificato da leggi interne, per esempio l'italiana Legge n. 881/1977, esso vale come legge dello Stato che prevale sul diritto interno (Cass. Pen. 21-3 1975).
Analizzando il controverso dibattito tra le posizioni pro e contro la secessione abbiamo concluso che un diritto morale a secedere esiste; affermarne l'esistenza equivale a dire che a coloro a cui questo diritto è concesso devono (in determinate circostanze) avere la facoltà di secedere senza interferenze da parte di altri, e che di conseguenza gli altri hanno un pressante obbligo a non interferire.
Significa anche ammettere che ci sono considerazioni in favore dell'indipendenza del Veneto che hanno un così grande valore morale da giustificare tale divieto di interferenza.
Pertanto, asserire l'esistenza di un diritto, morale o di altra natura, non equivale ad affermare che esso esiste alla stregua di un'entità ectoplasmatica (uno spettro pronto a «uscire» nella notte, come lo definisce Allen Buchanan nella sua opera sopra citata).
Piuttosto, il diritto morale alla secessione deve essere inteso come una specie di scorciatoia, rispetto alla via più lunga e tortuosa: quella ben nota, e di facile comprensione, di affermare l'esistenza di valide e sufficienti ragioni morali per non interferire con la secessione, anche qualora tale interferenza favorisse altri interessi.
Un'ulteriore implicazione è che il divieto di interferenza è così forte da rendere in questo caso insufficienti alcuni tipi di argomenti contrari (come il fatto che interferire produrrebbe una maggiore utilità generale) i quali normalmente, in altri contesti, potrebbero giustificare l'ingerenza.
Secondo questo modo di intendere il significato d'esistenza di un diritto, le affermazioni di diritto hanno carattere essenzialmente conclusivo e sono di conseguenza argomentative.
L'affermazione di un diritto è una decisione su quali siano le priorità morali.
Allo stesso tempo, siccome è una conclusione, bisogna ammettere la necessità di far luce sulle sue premesse, ossia sulle ragioni in virtù delle quali queste priorità devono essere riconosciute.
Il princìpio di autodeterminazione dei popoli si è sviluppato compiutamente a partire dalla seconda metà del secolo scorso, nel 1945 alla fine della Seconda guerra mondiale.
In particolare è stata l'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a promuoverne lo sviluppo all'interno della Comunità degli Stati.
Il contenuto del princìpio di autodeterminazione dei popoli consiste in obblighi per gli Stati della Comunità internazionale di non impedire o anche intralciare l'autodeterminazione dei popoli, intesa come libertà degli stessi di autodeterminare il proprio assetto costituzionale.
In particolare il principio è servito a favorire la decolonizzazione, in quanto ha permesso agli Stati in via di sviluppo di indire libere elezioni, darsi una Costituzione propria, scegliere la forma di governo, senza subire pressioni dagli Stati più sviluppati.
A questo punto gli indipendentisti veneti hanno tutto l'interesse e l'urgenza ad indire un'Assemblea costituente, soprattutto alla luce dei princìpi a suo tempo espressi Thomas Paine nel 1791 (vedasi: Rights of Man):
«Una costituzione non è l’atto di un governo, ma l’atto di un popolo che
crea un governo: un governo senza costituzione è un potere senza diritto
…Una costituzione è antecedente a un governo: e il governo è solo la creatura della costituzione».
I costituenti veneti avranno così modo di redigere una “Carta” che spetterà in ogni caso agli elettori veneti approvare mediante apposito referendum confermativo.
Con ciò ottenendo più risultati:
• dimostreranno nei fatti e negli intenti la superiorità morale del loro procedere;
• rispetteranno il princìpio di sovranità popolare;
• potranno darsi regole più autenticamente democratiche;
• proveranno (laddove ce ne fosse ancora bisogno) che la Costituzione italiana è legale, ma è illegittima, visto che il popolo non l'ha mai esplicitamente approvata.
• Recupereranno la civiltà umanistica e comunale che, intorno al 1.200, dal nord e centro della penisola italica si espanse in buona parte d’Europa, sancì l’arte di gestire una società di uomini liberi sottomessi solo alle leggi che essi stessi si erano dati.
Di qui la “sovranità popolare”, perfetto ossimoro in quanto la sovranità attiene al sovrano, e il “populus sibi princeps” (ovvero il popolo è principe di se stesso) furono alla base della più importante rivoluzione della storia post-classica, che produsse non solo il nome di “libertas” ma anche il superamento da parte dell’Europa della civiltà araba.
Si tratta, in sintesi, del governo dal basso contro il governo dall’alto, governo debole (col popolo) contro il governo forte, governo dei molti contro il (o di uno solo), governo decentrato contro il governo accentrato.
Insomma, con la “res publica” è il popolo che protegge la patria, poiché non può essere il territorio (la patria) a proteggere i cittadini.
01/04/2011
Enzo Trentin