Il rom Remi Nikolic è stato condannato a 15 anni di carcere per omicidio volontario (ha investito e ucciso il vigile milanese Nicolò Savorino) anziché 26, come richiesto dalla pubblica accusa, perché cresciuto in “un contesto di vita familiare caratterizzato dalla commessione di illeciti da parte degli adulti di riferimento” e cioè “nella sostanziale totale assenza di scolarizzazione”.
Per la prima volta in Italia ci troviamo di fronte a un caso di “attenuante razziale”.
Ha scritto Enrico Lattolla del Giornale: “se a delinquere è un rom è giusto comprenderlo e graziarlo”.
Insomma, sembra di leggere tra le righe, Nikolic va capito perché è un rom.
E come rom ha conosciuto fin da piccolo il mondo dell’illegalità e si è nutrito di modelli negativi, senza che la scuola – che sempre in quanto rom non ha mai frequentato – riuscisse a sradicare la mala pianta.
Considerazioni, quelle del giudice, che sembrano contraddire parte delle stesse motivazioni di condanna, nelle quali Nikolic viene descritto come un ragazzo tutt’altro che sprovveduto o in balìa delle circostanze.
Nelle settanta pagine di documento depositato il 10 maggio, infatti, c’è un breve ma significativo capitolo dedicato proprio alla «maturità» del 17enne.
«Il collegio – scrivono i giudici – rileva che le modalità di commessione dei reati e la natura dei reati, la cui antigiuridicità è percepibile anche da soggetti minimamente sviluppati (e l’imputato era quasi maggiorenne), non possono far dubitare che Nikolic fosse in grado di comprendere il disvalore sociale dei reati che andava commettendo e di adeguarvi le proprie azioni».
E allora qualcosa non torna.
Se Nikolic era maturo per capire che stava commettendo un crimine, allora non può essere un’attenuante – soprattutto a 17 anni e 8 mesi – il il modello negativo rappresentato dai genitori, dall’ambiente in cui è cresciuto, o l’assenza di istruzione.
Il giudice nei riguardi dei rom ha dimostrato un atteggiamento contrario alla prassi delle Serenissima Repubblica di Venezia che dal 1559 in poi concesse ai suoi sudditi di uccidere impunemente i cosiddetti “cingani” o zingari, i rom di allora.
Il tema è stato affrontato in uno studio pubblicato nella rivista “Acta Histriae” redatta dal vicentino Claudio Povolo, docente al dipartimento di storia dell’università Ca’ Foscari di Venezia.
Un libro che tratta del tema “Retoriche di devianza. criminali, fuorilegge e deviati nella storia (ideologie, storia, diritto, letteratura, iconografia)”.
Il tema dei rom è trattato da Benedetto Fassanelli, nell’intervento “Considerata la mala qualità delli cingani erranti.
I rom nella repubblica di Venezia: retoriche e stereotipi”.
Lo studio cerca di leggere il rapporto tra rom e giustizia a partire dalla legislazione veneziana cinquecentesca in materia di cingani.
Essa è caratterizzata dalla previsione di severe misure penali, cui però sembra corrispondere un’irrilevante attività giudiziaria.
Gran parte dell’attività repressiva, infatti, era “delegata” ai privati ed adeguatamente incentivata da misure premiali e impunità.
Il bando cui sono ex lege sottoposti i rom, denota, quanto alle retoriche criminali delle magistrature veneziane, il “luogo per gli zingari”. La vita al bando, per i rom banditi pressoché da tutti gli stati di antico regime, non può che svolgersi all’interno di confini preclusi o in transito su di essi.
La figura criminale del cingano si definisce in tre diverse deliberazioni del Senato delle Serenissima tra il 1549 e il 1588.
I cingani sono presenti in Europa dai primi decenni del XV secolo (la prima testimonianza in Italia è del 1422) e fin da subito si delineano i tratti d’immagine dello zingaro frutto di curiosità sospetto e timore.
Nascono in questo periodo gli elementi cruciali dello stereotipo – erranza, furto, inganno, chiromanzia – che sono inseriti in una normalità quotidiana.
Il 21 dicembre 1549 il Senato, considerando il “molto danno e non poco dispiacere” provocato ai sudditi dalla “pratica de i cingani erranti, che vanno alloggiando in campagna, et nelle ville del Stato Nostro”, concede ai rettori di Terraferma dieci giorni di tempo per “mandarli fuora dalli Territori a loro commessi”.
L’erranza e il vagabondaggio sono i soli elementi che descrivono la pratica dei cingani e il Senato si assume l’esclusiva facoltà di concedere licenze di transito ai rom, vietando a chiunque altro di rilasciare tali patenti sia scritte che a voce.
Nel 1559 questa immagine del cingano subisce una pesante variazione.
Il Senato stabilisce che “li detti zingari, così huomeni, come femine, che saranno ritrovati nell territorij nostri, possono essere impune amazati” e che gli esecutori di tali omicidi “non habbino ad incorrer in alcuna pena”.
Osserva Fasanelli: “L’esplicita previsione dell’impune occidi (uccidere impunemente) sancisce l’eccezionalità del crimine e, in quanto misura straordinaria, connota di per sé la figura criminale: la aggrava e, allo stesso tempo, pone l’espulsione in secondo piano nella strategia penale-repressiva dedicata agli zingari”.
Tratto da (CLICCA QUI)
Per la prima volta in Italia ci troviamo di fronte a un caso di “attenuante razziale”.
Ha scritto Enrico Lattolla del Giornale: “se a delinquere è un rom è giusto comprenderlo e graziarlo”.
Insomma, sembra di leggere tra le righe, Nikolic va capito perché è un rom.
E come rom ha conosciuto fin da piccolo il mondo dell’illegalità e si è nutrito di modelli negativi, senza che la scuola – che sempre in quanto rom non ha mai frequentato – riuscisse a sradicare la mala pianta.
Considerazioni, quelle del giudice, che sembrano contraddire parte delle stesse motivazioni di condanna, nelle quali Nikolic viene descritto come un ragazzo tutt’altro che sprovveduto o in balìa delle circostanze.
Nelle settanta pagine di documento depositato il 10 maggio, infatti, c’è un breve ma significativo capitolo dedicato proprio alla «maturità» del 17enne.
«Il collegio – scrivono i giudici – rileva che le modalità di commessione dei reati e la natura dei reati, la cui antigiuridicità è percepibile anche da soggetti minimamente sviluppati (e l’imputato era quasi maggiorenne), non possono far dubitare che Nikolic fosse in grado di comprendere il disvalore sociale dei reati che andava commettendo e di adeguarvi le proprie azioni».
E allora qualcosa non torna.
Se Nikolic era maturo per capire che stava commettendo un crimine, allora non può essere un’attenuante – soprattutto a 17 anni e 8 mesi – il il modello negativo rappresentato dai genitori, dall’ambiente in cui è cresciuto, o l’assenza di istruzione.
Il giudice nei riguardi dei rom ha dimostrato un atteggiamento contrario alla prassi delle Serenissima Repubblica di Venezia che dal 1559 in poi concesse ai suoi sudditi di uccidere impunemente i cosiddetti “cingani” o zingari, i rom di allora.
Il tema è stato affrontato in uno studio pubblicato nella rivista “Acta Histriae” redatta dal vicentino Claudio Povolo, docente al dipartimento di storia dell’università Ca’ Foscari di Venezia.
Un libro che tratta del tema “Retoriche di devianza. criminali, fuorilegge e deviati nella storia (ideologie, storia, diritto, letteratura, iconografia)”.
Il tema dei rom è trattato da Benedetto Fassanelli, nell’intervento “Considerata la mala qualità delli cingani erranti.
I rom nella repubblica di Venezia: retoriche e stereotipi”.
Lo studio cerca di leggere il rapporto tra rom e giustizia a partire dalla legislazione veneziana cinquecentesca in materia di cingani.
Essa è caratterizzata dalla previsione di severe misure penali, cui però sembra corrispondere un’irrilevante attività giudiziaria.
Gran parte dell’attività repressiva, infatti, era “delegata” ai privati ed adeguatamente incentivata da misure premiali e impunità.
Il bando cui sono ex lege sottoposti i rom, denota, quanto alle retoriche criminali delle magistrature veneziane, il “luogo per gli zingari”. La vita al bando, per i rom banditi pressoché da tutti gli stati di antico regime, non può che svolgersi all’interno di confini preclusi o in transito su di essi.
La figura criminale del cingano si definisce in tre diverse deliberazioni del Senato delle Serenissima tra il 1549 e il 1588.
I cingani sono presenti in Europa dai primi decenni del XV secolo (la prima testimonianza in Italia è del 1422) e fin da subito si delineano i tratti d’immagine dello zingaro frutto di curiosità sospetto e timore.
Nascono in questo periodo gli elementi cruciali dello stereotipo – erranza, furto, inganno, chiromanzia – che sono inseriti in una normalità quotidiana.
Il 21 dicembre 1549 il Senato, considerando il “molto danno e non poco dispiacere” provocato ai sudditi dalla “pratica de i cingani erranti, che vanno alloggiando in campagna, et nelle ville del Stato Nostro”, concede ai rettori di Terraferma dieci giorni di tempo per “mandarli fuora dalli Territori a loro commessi”.
L’erranza e il vagabondaggio sono i soli elementi che descrivono la pratica dei cingani e il Senato si assume l’esclusiva facoltà di concedere licenze di transito ai rom, vietando a chiunque altro di rilasciare tali patenti sia scritte che a voce.
Nel 1559 questa immagine del cingano subisce una pesante variazione.
Il Senato stabilisce che “li detti zingari, così huomeni, come femine, che saranno ritrovati nell territorij nostri, possono essere impune amazati” e che gli esecutori di tali omicidi “non habbino ad incorrer in alcuna pena”.
Osserva Fasanelli: “L’esplicita previsione dell’impune occidi (uccidere impunemente) sancisce l’eccezionalità del crimine e, in quanto misura straordinaria, connota di per sé la figura criminale: la aggrava e, allo stesso tempo, pone l’espulsione in secondo piano nella strategia penale-repressiva dedicata agli zingari”.
Tratto da (CLICCA QUI)