LA BATTAGLIA NAVALE DI LEPANTO (7 OTTOBRE 1571)

Anniversario della battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571):
intitoliamo una via all’epica battaglia in tutti i comuni del Veneto!
Giovedì 7 ottobre è l'anniversario della grande battaglia navale di Lepanto (1571) nella quale la flotta cristiana (col fondamentale apporto degli uomini e delle navi della Repubblica Veneta) sconfisse la flotta ottomana.
Una battaglia violentissima, dove ci furono ben 30.000 morti da parte degli ottomani (che chiamarono “Capo insanguinato” il teatro della battaglia) e 7.500 i cristiani dei quali ben 4.700 veneti guidati da due straordinari eroi, Sebastiano Venier e Agostino Barbarigo.
Una battaglia determinante per le sorti dell'intera Europa, per le sorti della cultura e della civiltà europee.
E per celebrare degnamente la vittoria di Lepanto il grande Andrea Palladio progettò in piazza dei Signori a Vicenza la Loggia del Capitaniato (o Loggia Bernarda).
Ecco cosa si legge su “Vicenza città bellissima” (R. Schiavo, B. Chiozzi, foto di T. Cevese) a propositi dell’opera palladiana: “Negli intercolumni sono poste due statue allegoriche ricordanti l’ultima vittoria navale veneziana. … Sulla base, è scolpita una duplice iscrizione: – Palman genuere carinae – e – Belli secura quiesco -.
Il significato è da comprendersi interpretando le due figure: la prima rappresenta la dea della vittoria navale, mentre la seconda la pace ormai ottenuta.
Il piano superiore presenta altro quattro statue: la prima, verso la piazza è la Virtù secondo il significato classico; la seconda, di misura minore, la Fede; la terza, simile alla precedente, la Pietà; la quarta di grandezza uguale alla prima, l’Onore.
L’interpretazione di questi simboli è sufficientemente chiara: la Virtù e l’Onore seguendo la Fede e la Pietà ottengono la Vittoria e la Pace.
Venezia ha vinto i turchi unendo questi valori.”
La grandiosità della Loggia è un segno inequivocabile di quale importanza veniva attribuita, all’epoca, alla battaglia di Lepanto.
Ai giorni nostri, purtroppo, è ben diverso; e allora, perché non intitolare una via o una piazza dei nostri comuni alla battaglia di Lepanto?
È possibile che nella toponomastica veneta si trovi anche la più insignificante battaglia garibaldina e non ci sia un riferimento a una delle battaglie fondamentali per le sorti del Veneto e dell’intera Europa?
Ettore Beggiato

ed ecco come ce la raccontano:
tratto da Wikipedia: clicca qui
La battaglia di Lèpanto, detta anche delle Echinadi o delle Curzolari (chiamata Epaktos dagli abitanti, Lepanto dai veneziani e İnebahtı in turco), è uno storico scontro avvenuto il 7 ottobre 1571 tra le flotte musulmane dell'Impero ottomano e quelle cristiane della Lega Santa che riuniva le forze navali di Venezia, della Spagna (con Napoli e Sicilia), di Roma, di Genova, dei Cavalieri di Malta, del Ducato di Savoia, del Ducato d'Urbino e del Granducato di Toscana, federate sotto le insegne pontificie.
La battaglia, terza in ordine di tempo e la maggiore svoltasi a Lepanto, si concluse con una schiacciante vittoria delle forze alleate, guidate da Don Giovanni d'Austria, su quelle ottomane di Mehmet Alì Pascià, che perse la vita nello scontro.
La coalizione cristiana era stata promossa alacremente da Papa Pio V per soccorrere materialmente la veneziana città di Famagosta (o Famagusta; in greco Ammocosthos; in turco Gazimağusa), sull'isola di Cipro, assediata dai Turchi e strenuamente difesa dalla guarnigione locale.
In realtà il Pontefice voleva bloccare definitivamente l'invasione turca difendendo così l'intero Occidente cristiano.
Il vessillo, benedetto dal Papa, giunse a Napoli il 14 agosto 1571, dove venne consegnato solennemente a Don Giovanni d'Austria, nella basilica di Santa Chiara.
La flotta della lega raggiunse in seguito la Sicilia, lasciando Messina, dopo aver riunito 102 navi veneziane tra galee, navi da carico, imbarcazioni minori e 6 potenti galeazze, 79 galee della Spagna (con 29 provenienti dal Regno di Napoli e 7 dal Regno di Sicilia più le 3 di Malta, con le proprie corone appartenenti all'impero spagnolo), con l'aiuto di 3 galee del Ducato di Savoia, 12 galee del Granducato di Toscana noleggiate direttamente dal Papa ed equipaggiate dai Cavalieri di Santo Stefano, 28 galee genovesi e le flotta maltese degli Ospitalieri.
Giungendo in cerca di riparo dalla nebbia e dal forte vento nel porto di Viscando, non lontano dal luogo della battaglia di Azio, la flotta cristiana fu raggiunta dalla notizia della caduta di Famagosta e dell'orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza.
Il 1º agosto i veneziani si erano arresi, con l'assicurazione di poter lasciare indenni l'isola di Cipro.
Ma Lala Kara Mustafa Pascià, il comandante turco che aveva perso più di 52.000 uomini nell'assedio, tra questi suo figlio, non aveva mantenuto la parola promessa e i veneziani furono imprigionati e incatenati ai banchi delle galee turche.
I soldati dell'armata ottomana avevano dichiarato a Mustafa Pascià che alcune decine di loro, presi prigionieri dai veneziani, erano stati trucidati; la notizia, pur non essendo mai stata confermata, è plausibile, poiché nella fortezza vi erano numerosi mercenari molto poco disciplinati.
Mustafà Pascia prese questo fatto come pretesto per giustiziare i prigionieri.
Venerdì 17 agosto Bragadin era stato scorticato vivo di fronte ad una folla di musulmani esultanti e la sua pelle, conciata e riempita di paglia, era stata innalzata come un manichino sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Astorre Baglioni, Alvise Martinengo e Gianantonio Querini.
I macabri trofei erano poi stati inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade nell'ormai capitale ottomana ed infine portati nella prigione degli schiavi.
Nonostante il maltempo le navi della Lega presero il mare verso Cefalonia, sostandovi brevemente, e giungendo, il 6 ottobre davanti al golfo di Patrasso, nella speranza di intercettare la potente flotta che i cristiani sapevano essergli stata opposta dagli Ottomani.
Si noti che tutte le principali nazioni della penisola italica e le più grandi potenze europee dell'epoca, come, ad esempio la Spagna, dovevano coalizzarsi per poter sperare di battere l'Impero ottomano, sintomo questo della potenza della Sublime Porta.
Il 7 ottobre 1571, domenica, Don Giovanni d'Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata, deciso a dar battaglia: non più di 150 metri separavano le galee.
Il centro dello schieramento cristiano cattolico si componeva di 28 galee e 2 galeazze veneziane, 15 galee spagnole e napoletane, 8 galee genovesi, 7 galee toscane sotto le insegne pontificie, 3 maltesi, 1 sabauda, per un totale di 62 galee e 2 galeazze.
Lo comandava Don Giovanni d'Austria Comandante Generale dell'imponente flotta cristiana: ventiquattrenne figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V e fratellastro del regnante Filippo II aveva già dato ottima prova di sé nel 1568 contro i pirati barbareschi.
Con lui a bordo Francesco Maria II della Rovere – figlio ed erede del Duca Guidobaldo II della Rovere – Capitano Generale degli oltre 2.000 soldati volontari provenienti dal Ducato d'Urbino.
Affiancavano per ragioni di prestigio la galea Real spagnola: la Capitana di Sebastiano Venier, settantacinquenne Capitano Generale veneziano, la Capitana di Sua Santità di Marcantonio Colonna, trentaseienne ammiraglio pontificio, la Capitana di Ettore Spinola, Capitano Generale genovese, la Capitana di Andrea Provana di Leinì, Capitano Generale piemontese, l'ammiraglia Vittoria del priore Piero Giustiniani, Capitano Generale dei Cavalieri di Malta.
Il corno sinistro si componeva di 40 galee e 2 galeazze veneziane, 10 galee spagnole e napoletane, 2 galee toscane sotto le insegne pontificie, e 1 genovese, per un totale di 53 galee e 2 galeazze al comando del provveditore generale Agostino Barbarigo, ammiraglio veneziano (da non confondere con l'omonimo doge veneziano morto nel 1501).
Il corno destro era invece composto di 25 galee e 2 galeazze veneziane, 16 galee genovesi, 8 galee spagnole e siciliane, 2 sabaude e 2 toscane sotto le insegne pontificie, per un totale di 53 galee e 2 galeazze, tenute dal genovese Gianandrea Doria.
Le spalle dello schieramento erano coperte dalle 30 galee di Alvaro de Bazan di Santa Cruz: 13 spagnole e napoletane, 12 veneziane, 3 toscane sotto le insegne pontificie, 2 genovesi.
L'avanguardia, guidata da Juan de Cardona si componeva di 8 galee: 4 siciliane e 4 veneziane.
In totale la flotta cristiana si componeva di 6 galeazze, 206 galee, 30 navi da carico, circa 13000 marinai, circa 44000 rematori, circa 28000 soldati con 1815 cannoni.
I Turchi schieravano l'ammiraglio Mehmet Shoraq, detto Scirocco, all'ala destra con 55 galee, il comandante supremo Mehmet Alì Pascià (detto il Sultano) al centro con 90 galee conduceva la flotta a bordo della sua ammiraglia Sultana, su cui sventolava il vessillo verde sul quale era stato scritto 28.900 volte a caratteri d'oro il nome di Allah.
Infine l'ammiraglio, considerato il migliore comandante ottomano, Uluč Alì (Giovanni Dionigi Galeni), un apostata di origini calabresi convertito all'Islam (detto Ucciallì), presiedeva all'ala sinistra con 90 galee; nelle retrovie schieravano 10 galee e 60 navi minori comandate da Amurat (Murad) Dragut (figlio dell'omonimo Dragut Viceré di Algeri e Signore di Tripoli che era stato uno dei più tristemente noti pirati barbareschi).
Don Giovanni decide di lasciare isolate in avanti, come esca, le 6 potentissime galeazze veneziane, due davanti ad ogni "corno".
Le galeazze davanti allo schieramento veneziano erano al comando degli ammiragli Antonio e Ambrogio Bragadin, che verosimilmente bramavano di vendicarsi per la brutalissima uccisione del loro fratello Marcantonio a Famagosta (il senatore veneziano torturato, scorticato e poi ucciso decapitato e squartato dai Turchi dopo l'assedio dell'isola), camuffate da navi da carico.
All'avvicinarsi degli ignari Turchi, queste scaricano cannonate con una potenza di fuoco mai vista prima sul mare fino a quel giorno.
Le linee ottomane subiscono molte perdite ma Alì Pascià in preda a furore bellico decide di superare di slancio le galeazze.
Ma queste navi erano inabbordabili, vista la loro notevole altezza: di conseguenza Don Giovanni aveva deciso, dietro consiglio del Doria, di togliere un gran numero di spadaccini dalle galeazze e sostituirli con archibugieri, i quali crearono gravi danni alla flotta turca.
Pertanto Alì, senza impegnarsi in battaglia con queste grosse navi, dopo averle superate, decide di scagliare tutta la sua flotta in uno scontro frontale, mirando unicamente all'abbordaggio della nave di Don Giovanni per provare ad ucciderlo subito demoralizzando così la flotta della Lega Cristiana, ed essendo in superiorità numerica (167-235) tenta di circondarla, utilizzando la tattica navale classica.
Nell'ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario, ma il temperamento e il carisma del Sultano Alì Pascià spinge i Turchi, in favore di vento, a scatenare la battaglia.
Per i cristiani gli scontri all'inizio coinvolgono pesantemente il veneziano Barbarigo, che è alla guida dell'ala sinistra e posizionato sotto costa; deve parare il colpo del comandante Scirocco, impedire che il nemico possa insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana.
La manovra ha solo un parziale successo e lo scontro si accende subito violento.
La stessa galea di Barbarigo diventa teatro di un'epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte.
Ferito gravemente alla testa, Barbarigo muore e le retrovie devono correre in soccorso dei veneziani per scongiurare la disfatta: ma grazie all'arrivo della riserva guidata dal Marchese di Santa Cruz le sorti si riequilibrano e così Scirocco viene catturato, ucciso e immediatamente decapitato.
Al centro degli schieramenti Alì Pascià cerca e trova la galea di Don Giovanni d'Austria, la cui cattura risolverebbe definitivamente lo scontro.
Contemporaneamente altre galee impegnano Venier e Marcantonio Colonna.
Molti sono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galea toscana Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano viene quasi interamente ucciso, eccetto il suo comandante Tommaso de' Medici con quindici uomini.
Sulla galea di Don Giovanni invece si ripete lo scontro a cui ha partecipato Barbarigo, e la battaglia frontale si fa cruenta.
Con un rumore assordante i Turchi iniziano l'assalto alle navi di Don Giovanni suonando timpani, tamburi, flauti.
Il vento è a loro favore.
La flotta di Don Giovanni è nel più assoluto silenzio.
Quando i legni giungono a tiro di cannone i cristiani ammainano tutte le loro bandiere e Don Giovanni innalza lo Stendardo di Lepanto con l'immagine del Redentore Crocifisso.
Una croce viene levata su ogni galea e i combattenti ricevono l'assoluzione secondo l'indulgenza concessa da Pio V per la crociata.
Improvvisamente il vento cambia direzione: le vele dei Turchi si afflosciano e quelle dei cristiani si gonfiano.
Don Giovanni d'Austria perciò punta fulmineamente diritto contro la Sultana.
Il reggimento di Sardegna dà per primo l'arrembaggio alla nave turca, che diviene il campo di battaglia: i musulmani a poppa e i cristiani a prua.
Al terzo assalto i sardi arrivano a poppa.
Don Giovanni viene ferito ad una gamba.
Più volte le navi avanzano e si ritirano, Venier e Colonna devono disimpegnarsi per accorrere in aiuto a Don Giovanni che sembra avere la peggio assieme all'onnipresente Marchese di Santa Cruz.
Alla sinistra turca, al largo, la situazione è meno cruenta ma un po' più complicata.
Giovanni Andrea Doria dispone di poco più di 50 galee, quasi quante quelle del veneziano Barbarigo (circa 60) sul corno opposto ma davanti a sé trova 90 galee, cioè circa il doppio dei nemici fronteggiati dai veneziani ed oltretutto in un'area molto più ampia di mare aperto; per questo pensa ad una soluzione diversa dallo, scontato negli esiti, scontro diretto.
Giovanni Andrea Doria infatti, a un certo momento della battaglia, si sgancia con le sue navi genovesi facendo vela verso il mare aperto.
Il ruolo cruciale di Gianandrea Doria è sempre stato oggetto di disputa da parte dei veneziani: gli antagonisti dei genovesi insinuarono che egli si fosse defilato o per preservare il proprio naviglio o perché obbediva ancora agli ordini di Filippo II o che si era messo d'accordo con Uluc Alì per la reciproca considerazione (anche il comandante barbaresco come il genovese affittava le galee al suo Signore), mentre gli storici genovesi e spagnoli lo difendono definendole di una grande rarità strategica: in realtà nonostante avesse avuto l'ordine, ugualmente al Barbarigo, di difendere e proteggere il fianco della flotta di Don Giovanni per impedire l'accerchiamento delle sue navi che si trovavano sotto un violento attacco frontale, inaspettatamente spaccò il lato destro dello schieramento cristiano, puntando verso il mare aperto e lasciando aperto un buco che una flottiglia di 16 galee cristiane non genovesi (staccatesi dalla flotta principale) vedendo e pensando che il Doria si accingesse ad un vero e proprio sganciamento, si diressero verso il fianco di Uluc Alì per tentare di coprire il fianco destro. A quel punto Uluc Ali si insinuò all'interno della flottiglia genovese, pensando fosse in fuga e attaccando il fianco destro dello schieramento di Don Giovanni, procurandogli forti perdite.
Uluc Alì, con il vento in poppa, aggredì da dietro la Capitana, la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell'Ordine.
La Capitana viene circondata da sette galee.
Uluc Alì cattura il vessillo dei Cavalieri di Malta, fa prigioniero Giustiniani, che era stato eroicamente ferito sette volte, e prende a rimorchio la Capitana.
Oltre la Capitana di Malta, pagarono cara la "strana" manovra di Gianandrea Doria, anche la Fiorenza e la San Giovanni galee toscane della flotta papale, e la Piemontesa della flotta sabauda, che circondate da un nugolo di galee di Uluc Alì, si votarono lottando, all'estremo sacrificio.
Non è stato ancora chiarito il motivo di questa manovra del Doria: fatto sta che non appena visto che Uluc Alì si era impegnato in quella facile battaglia, si diresse immediatamente contro il comandante barbaresco, il quale, vedendolo arrivare, diede l'ordine di sganciare le navi catturate e di ritirarsi, il Doria ritornò nei pressi della battaglia dopo mezz'ora.
Il Papa in seguito minacciò di morte Doria se si fosse presentato a Roma, dicendo che per il momento faceva meglio a starsene lontano: le sue azioni erano, secondo il pontefice, più da corsaro musulmano che da comandante della cristianità; la sua galea e le navi genovesi avevano subito meno perdite di tutto lo schieramento cristiano, cosa che colpì negativamente quasi tutti i comandanti nel raduno generale che fu fatto, non a caso, proprio nella galea di Doria.
Al centro, il comandante in capo ottomano Alì Pascià, già ferito, cade (forse ucciso da una rivolta di rematori cristiani o abbattuto da un'archibugiata) o forse si suicida per evitare l'umiliante cattura.
La nave ammiraglia ottomana è abbordata dalle galee toscane Capitana e Grifona e, contro il volere di Don Giovanni, il cadavere dell'ammiraglio ottomano Alì Pascià viene decapitato e la sua testa esposta sull'albero maestro dell'ammiraglia spagnola.
La visione del condottiero ottomano decapitato contribuì enormemente a demolire il morale dei Turchi.
Di lì a poco, infatti, alle quattro del pomeriggio, le navi ottomane rimaste abbandonavano il campo, ritirandosi definitivamente.
Il teatro della battaglia si presentava come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti.
Erano trascorse quasi cinque ore quando infine la battaglia ebbe termine con la vittoria cristiana.
Don Giovanni d'Austria riorganizzò la flotta per proteggerla dalla tempesta che minacciava la zona e inviò galee in tutte le capitali della lega per annunciare la clamorosa vittoria: i Turchi avevano perso 80 galee che erano state affondate, ben 117 vennero catturate, 27 galeotte furono affondate e 13 catturate, inoltre 30.000 uomini persi tra morti e feriti, altri 8.000 prigionieri.
Inoltre vennero liberati 15.000 cristiani dalla schiavitù ai banchi dei remi.
Gli Ottomani avevano a stento salvato un terzo (circa 80) delle loro navi e se tatticamente si trattò di una decisiva vittoria cristiana, la dimensione della vittoria strategica è dibattuta: secondo alcuni segnò l'inizio del declino della potenza navale ottomana nel Mediterraneo, altri fanno notare che la flotta turca si riprese rapidamente, riuscendo già l'anno successivo a mettere in mare un grosso contingente di navi, grossomodo equivalente a quelle messe in campo dalla lega.
Queste flotte erano però meno ben armate ed addestrate di quelle precedenti, e dopo Lepanto la flotta turca evitò a lungo di ingaggiare grosse battaglie, dedicandosi invece con successo alla guerra di corsa e alla distruzione dei traffici nemici.
La guerra di Candia, entro cui si può inserire la battaglia di Lepanto, fu inoltre una vittoria ottomana.
Solo con l'inizio di una lunga serie di guerre con la Persia, che proseguirono nel Caucaso e in Mesopotamia per tutti gli anni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, la flotta della sublime porta fu messa in parziale disarmo e ridotta.
Inoltre la flotta da guerra turca rimase numericamente paragonabile a quella veneziana fino alla fine del XVIII secolo.
I morti di nobiltà cattolica vennero sepolti nella chiesa dell'Annunziata a Corfù (spostati dopo il bombardamento dei tedeschi del 13/09/1943 al cimitero cattolico di Corfù) mentre i morti nobili di religione ortodossa (piuttosto Corfioti) furono sepolti nella chiesa di S. Nicola nominata "Dei Vechi" e quelli non nobili in una chiesetta fuori le mura di Corfù denominata fin da allora "Dei martiri".
Molti prigionieri ottomani, in particolare gli abilissimi e addestratissimi arcieri e i carpentieri, furono uccisi dai veneziani, sia per vendicare i prigionieri uccisi dai turchi in precedenti occasioni, sia per impedire alla marineria turca di riprendersi rapidamente.
Quindi le navi fecero rientro a Napoli.
Nelle città d'occidente la notizia venne accolta in un tripudio di feste e gioia popolare che durarono giorni; a Roma, Venezia e Torino vennero celebrati solenni Te Deum di ringraziamento.
A Napoli fu elevata la colonna della vittoria nel posto esatto dove le navi cristiane approdarono. Papa Pio V nel 1572 istituirà la "Festa di Santa Maria della Vittoria", successivamente trasformata nella "Festa del SS. Rosario", per celebrare l'anniversario della storica vittoria ottenuta "per intercessione della augusta Madre del Salvatore, Maria".
Ancora oggi non sono chiari, e probabilmente mai lo saranno, i meccanismi che hanno condotto alla vittoria della flotta cristiana, e i meriti, o le colpe, o le casualità, o le provvidenze.
Ma la bandiera della nave ammiraglia turca di Mehmet Alì Pascià, presa da due navi dei Cavalieri di Santo Stefano, la "Capitana" e la "Grifona", si trova (e ognuno può vederla) a Pisa, nella chiesa dei Cavalieri dell'Ordine Cavalleresco Sacro Militare Marittimo di Santo Stefano Papa e Martire, fondato da Cosimo I de' Medici granduca di Toscana.
 
Probabilmente lo schieramento cristiano vinse grazie alla superiorità schiacciante delle inabbordabili e potentemente armate galeazze, alle manovre tattiche esercitate dai comandanti in capo e forse al superiore armamento individuale: infatti i suoi soldati potevano contare sugli archibugi, come la compagnia di tiratori scelti degli oltre 400 archibugieri di Sardegna, mentre quelli turchi erano ancora armati con archi e dardi, mazze, scuri, spade e giavellotti.
La maggior parte dei soldati cristiani indossava corazze, sia del tipo normalmente utilizzato dalla fanteria, sia di modelli (molto diffusi tra i Genovesi) che potevano essere tolte rapidamente se si doveva poi nuotare, i soldati ottomani, e ancor di più quelli barbareschi, preferivano invece indossare armature leggerissime, spesso in cuoio, oppure non indossarle affatto, in modo che se fossero caduti in mare erano sicuri di non affogare.
Il vascello più importante dello schieramento cristiano era la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei rematori, parzialmente corazzata e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate.
Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce, facendole confondere con vascelli da carico: cosa che tra l'altro capitò ai turchi.
Solo sei di queste unità rinforzano lo schieramento cristiano ma saranno tanto devastanti sulle galee nemiche quanto sul morale dei loro equipaggi.
Per assurdo, con la galeazza si raggiunge l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo essa ne rappresenta il canto del cigno.
Le galee con la loro propulsione a remi verranno progressivamente sostituite da velieri a vela quadra e quindi progressivamente abbandonate.
Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli possedevano un buon rapporto gittata-efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti.
Naturalmente quel rapporto peggiorava notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.
Ogni galea del Cinquecento portava comunque un discreto armamento "in caccia", si trattava di almeno un grosso cannone, posto a prua e generalmente più potente e pesante di quelli utilizzati dai vascelli coevi, questo pezzo era accompagnato da 2-4 pezzi più leggeri, tra cui falconetti a retrocarica utilizzati solo come armi antiuomo.
Le galere grosse e le capitane talvolta avevano dei pezzi girevoli sul "castello" di poppa, detto "carrozza".
L'armamento d'artiglieria delle galere ottomane, e ancor di più di quelle barbaresche, era complessivamente più leggero, poiché i loro capitani facevano grande affidamento sulla velocità, sull'agilità e sulla possibilità di muoversi in acque basse, e quindi non intendevano appesantire i loro scafi.
Quindi spesso le loro galere avevano un singolo grosso cannone in caccia (di calibro e potenza superiore a quello delle galere della lega), e pochissimi pezzi d'accompagnamento.
Sia la flotta cristiana che quella musulmana prediligevano le costose, ma leggere e sicure, artiglierie in bronzo, rari i pezzi in economica (ma pesante e pericolosa) ghisa, per lo più fabbricati a Brescia e in Fiandra.
I cannoni in ghisa turchi esplodevano ancora più frequentemente di quelli cristiani, e quindi i cannonieri stavano attenti a non riscaldarli troppo, raffreddandoli con pelli di pecora bagnate d'acqua tra un colpo e l'altro.
Per quel che riguarda le armi di piccolo calibro, all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato.
Non bisogna sottovalutare l'arco composito (o arco turchesco appunto) che era l'arma più diffusa tra la fanteria di marina ottomana, esso aveva una gittata ed una precisione superiore a quella dell'archibugio, oltre che una velocità di ricarica superiore; si trattava però di un'arma meno letale (moltissimi furono i soldati cristiani feriti, ma non uccisi, e che continuarono a combattere), e non in grado di perforare le pesanti corazze spagnole.
Per questo motivo molti giannizzeri erano già stati armati con archibugi e moschetti, di qualità leggermente inferiore però a quelli prodotti in Italia e in Spagna, e con polveri meno efficienti.
I cristiani naturalmente attribuirono la loro vittoria soprattutto alla protezione della Vergine Maria, tanto che nell'anniversario della battaglia fu fissata la festa della Madonna del Rosario.
 
LE CONSEGUENZE
 
La battaglia di Lepanto ferma definitavamente l'avanzata turca, e in generale mussulmana, verso l'europa dando così modo all'intera regione europea di conservare le proprie origini cristiane e tramandarle.
Inoltre fu la prima grande vittoria di un'armata o flotta cristiana occidentale contro l'Impero ottomano e, quindi, ebbe anche un'importanza psicologica, dato che, fino a quel momento i Turchi erano da decenni in piena espansione territoriale e avevano precedentemente vinto tutte le 8 principali battaglie contro i cristiani d'oriente.
La vittoria dell'alleanza cristiana segnò infatti un punto di svolta importante negli equilibri militari nell'area del Mediterraneo: dopo oltre un secolo di continua espansione Turca, che dalla occupazione di Costantinopoli in poi (1453) aveva continuato una avanzata che pareva ormai inarrestabile, conquistando via via Siria, Arabia, Egitto, spingendosi poi in Europa con la conquista di Belgrado, Rodi, l'Ungheria, arrivando persino ad assediare Vienna, la disfatta di Lepanto rappresentò la prima significativa inversione di tendenza, che impedì ai Turchi una ulteriore espansione, almeno nel settore occidentale del Mediterraneo, tradizionalmente si pensa che questo scontro segnò l'inizio della parabola discendente nella storia dell'impero Turco.
In realtà più di un secolo dopo i Turchi erano ancora sotto le mura di Vienna, mentre Venezia dovette combattere altre lunghe guerre con l'Impero ottomano, perdendo infine il controllo su tutte le isole e i porti che possedeva in Egeo (come Creta) eccetto le isole Ionie.
Inoltre la flotta ottomana riuscì a sconfiggere quella veneziana presso capo Matapan al principio del Settecento; segno che l'impero, pur in relativa decadenza, continuava ad essere una delle principali potenze europee.
Nonostante la devastante sconfitta turca, la scarsa coesione tra i vincitori impedì alle forze alleate di sfruttare appieno la loro vittoria ed ottenere una supremazia duratura sugli Ottomani.
Dal canto suo, l'Impero ottomano (che pure aveva risentito duramente del colpo, secondo una versione riportata dai cronisti il Sultano perse il sonno per tre interi giorni quando fu informato della disfatta, secondo altri disse invece che gli era stata bruciata la barba, ma che con il tempo gli sarebbe ricresciuta), iniziò subito una poderosa opera di ricostruzione della flotta, che si concluse in 6 mesi e a seguito della quale, pur riacquistando la superiorità numerica nei confronti della coalizione cristiana, la marina turca non riuscì a riconquistare la supremazia nel Mediterraneo, soprattutto nella sua metà occidentale.
Le nuove navi turche infatti erano state costruite troppo in fretta, tanto che l'ambasciatore veneziano disse che bastavano 70 galee ben armate e ben equipaggiate per distruggere quella flotta costruita con legname marcio e cannoni mal fusi.
La sconfitta, tuttavia, non permise ai Veneziani e all'esercito cristiano di riconquistare l'isola di Cipro che era caduta da appena due mesi in possesso ottomano.
Questo a causa del volere di Filippo II, il quale non voleva che i Veneziani acquisissero troppi vantaggi dalla vittoria, visto che questi ultimi erano i più strenui rivali del progetto politico spagnolo di dominio assoluto della penisola italiana.
La Serenissima fu quindi costretta a firmare un trattato di pace a condizioni poco favorevoli.
I Veneziani infatti non avevano neanche allora dimenticato il comportamento della flotta spagnola durante la Battaglia di Prevesa, dopo che Carlo V aveva stipulato un trattato con Khayr al-Dīn Barbarossa per distruggere la Repubblica di Venezia.
Doria si rifiutò di dar battaglia ai Turchi e si ritirò dopo che molte navi veneziane erano entrate nel vivo del combattimento, sotto l'esplicito ordine dell'imperatore.
Il Gran Visir Sokolli disse ai Veneziani che si potevano fidare più del Sultano che degli altri Stati europei, bastava cedere al volere del Sultano.
La battaglia di Lepanto ebbe anche importanti conseguenze all'interno del mondo musulmano, gli Hafsidi e le varie Reggenze barbaresche governavano il Maghreb in nome del Sultano ottomano, e sotto il suo protettorato, soprattutto perché costretti dalla sua potente flotta e desiderosi di ottenere protezione contro la Spagna.
Dopo questa battaglia fu chiaro che la flotta turca non era invincibile, mentre la Spagna, pur vittoriosa, era troppo impegnata a reprimere la rivolta dei Paesi Bassi spagnoli, e quindi le Reggenze barbaresche "rialzarono la testa", guadagnando spazi d'autonomia, o dedicandosi nuovamente alla guerra di corsa, anche contro gli interessi del Sultano.
 
ALCUNI PROTAGONISTI MENO NOTI
 
Partecipano alla storica battaglia tra gli altri anche: Pietro Lomellini, Antonio Canal, Giorgio Grimaldi e molti altri personaggi appartenenti alle più prestigiose famiglie nobili dell'epoca.
Uno dei più famosi partecipanti alla battaglia fu lo scrittore spagnolo Miguel de Cervantes, che venne ferito e perse l'uso della mano sinistra; fu ricoverato a Messina, al ritorno dalla spedizione navale, presso il Grande Ospedale dello Stretto, e si dice che, durante la degenza iniziò il Don Chisciotte della Mancia.
 

 
LA GALEASSA VENEXIANA
 
La galeazza è un tipo di galea da guerra usata principalmente nel Mar Mediterraneo a partire dal XVI secolo.
Si differenziava dalla comune galea sottile per le maggiori dimensioni, il gran numero di artiglierie e la possibilità esclusiva tra le galee – di effettuare il tiro laterale.
Questi navi, utilizzate per la prima volta nella battaglia di Lepanto, rappresentarono il passaggio tra la galea e il veliero da guerra.
La galeazza era usualmente dotata di 3 alberi a vele quadre (le più grandi avevano 4 alberi), castello di prua, castello di poppa (questo modello era già stato sviluppato nella caracca e successivamente nel galeone del Mediterraneo) e due ponti.
Poteva portare dai 32 ai 46 banchi di rematori (remi a scalaccio) e montare 36 grossi cannoni, più altri di minor dimensione.
La galeazza era sviluppata sulla base di larghe galee mercantili dette galee grosse, da tempo non più convenienti in seguito alla riduzione dei traffici mediterranei.
Poiché venivano convertite per l'uso militare dovevano essere tendenzialmente alte e larghe (anziché leggere); montavano un elevato numero di cannoni, che venivano posizionati per la maggior parte lungo i lati sparsi qua e là tra i remi e nel castello di prua.
Il modello della galeazza venne sviluppato dalla Repubblica di Venezia che riuscì quindi ad ottenere navi che potevano competere con le galee ordinarie.
Ne vennero costruite relativamente poche, ma ebbero comunque molta importanza, in particolare nella battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), durante la quale la potenza di fuoco delle sei galeazze veneziane presenti (al comando del provveditore Francesco Duodo), impiegate per la prima volta, furono determinanti nel portare alla vittoria la flotta cristiana.
Le galeazze furono apprezzate anche dal grande ammiraglio veneziano Francesco Morosini, tanto che una di queste imbarcazioni fu da lui scelta come ammiraglia della flotta.
Quattro galeazze atte a tenere il mare accompagnarono anche l'Invincibile Armata nel 1588 (ad es. La Girona).
Le acque poco profonde, le coste frastagliate, il clima mite e i venti debolmente variabili del Mediterraneo permisero alle galee e alle galeazze di sopravvivere fino agli inizi del XVIII secolo.