Figlio di Mosè e Elena Donà anche se mercante,operò come avvocato fin da giovanissimo e in seguito divenne Amministratore del Governo della Repubblica di Venezia e Governatore di Candia ( l"attuale Creta ). Nel 1570 divenne Procuratore e nel Dicembre dello stesso anno fù nominato "Capitano General da Mar"della flotta Veneziana impegnata nella nuova guerra contro i Turchi ottomani.L"anno sucessivo nel 1571 fu uno dei protagonisti della battaglia di Lepanto che vide le forze della Lega Santa affliggere una definitiva sconfitta ai Turchi.
Nonostante avesse già 65 anni Venier prese parte ai combattimenti uccidendo numerosi turchi a colpi di balestra e fù ferito ad un piede con una freccia .
Egli calzava delle pantotofole invece che gli stivali perchè a parer suo facevano miglior presa sul ponte bagnato della nave.
Dopo la pace Venier torno a Venezia con l"aura di vincitore nel 1577 e pur all"età di 81 anni fu eletto Doge all"unanimità.
Sposò Cecilia Contarini.
Sebastiani Venier mori a Venezia nel 1578 pare per un infarto dovuto all"incendio che aveva gravemente danneggiato il Palazzo dei Dogi e fù sepolto nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo .
Da notare come sia possibile trovare una identica titolarità nella marina Turca ottomana di Qapudan-I Derya (Capitano del Mare)
Egli calzava delle pantotofole invece che gli stivali perchè a parer suo facevano miglior presa sul ponte bagnato della nave.
Dopo la pace Venier torno a Venezia con l"aura di vincitore nel 1577 e pur all"età di 81 anni fu eletto Doge all"unanimità.
Sposò Cecilia Contarini.
Sebastiani Venier mori a Venezia nel 1578 pare per un infarto dovuto all"incendio che aveva gravemente danneggiato il Palazzo dei Dogi e fù sepolto nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo .
Da notare come sia possibile trovare una identica titolarità nella marina Turca ottomana di Qapudan-I Derya (Capitano del Mare)
tratto da: clicca qui
IL CONDOTTIERO CHE SBARAGLIO' I TURCHI
tratto da "I CAPITANI CORAGGIOSI": clicca qui
Ci sono uomini che trascorrono tutta una vita operosa ricoprendo importanti cariche pubbliche senza peraltro lasciare di sé una traccia ai posteri; altri, invece, dominano per anni, decenni la scena politica con alterne vicende, meritando gloria e vituperio insieme, intricato miscuglio di grandezza non priva d'infamia (Napoleone, per esempio).
C'è infine chi rimane nella storia per un unico episodio ma fondamentale, decisivo per il destino di popoli interi.
Quest'ultimo caso s'attaglia alla personalità di Sebastiano Venier, che volle e vinse la più grande battaglia navale dell'età della marina a remi.
In poche ore, dall'alba al tramonto del 7 ottobre 1571, a Lepanto, egli annientò la flotta di Alì Pascià impedendo che il Mediterraneo diventasse un lago turco; sfatando la leggenda, nata nel XVI secolo, dell'imbattibilità dell'Impero ottomano; salvando la Cristianità da un disastro irreparabile.
I quadri celebri rimasti a immortalarlo ce lo mostrano tutti in questa occasione, in età molto avanzata (73 anni), patriarca maestoso dalla lunga barba bianca, l'espressione sicura e serena del giusto.
Proveniva dai Venier (Venerii), famiglia patrizia veneziana, le cui prime tracce appaiono nell' XI secolo.
Famiglia che prima di lui aveva già dato alla Serenissima due dogi: Francesco (nel 1554) e più indietro ancora (1382) Antonio, famoso per la sua inflessibile dirittura morale: fece imprigionare fino alla morte il figlio Alvise, reo di aver ingiustamente offeso i membri di un nobile casato della Repubblica di S. Marco.
Sebastiano nacque nel 1496, primo figlio di Mosè Venier e di Elena Donà.
Crebbe alto, robusto, abile nel mestiere delle armi quanto nella conoscenza della cosa pubblica; forte nel fisico e nel morale.
Abituato alle spartane rinunce ma capace, all'occorrenza, di gustare la compagnia lieta, la buona tavola, le avventure galanti .
I suoi biografi « a posteriori » passano sotto silenzio le lunghe diatribe che ebbe con fidanzati e mariti traditi, la sua abilità nel sottrarsi ai legami duraturi.
Soltanto nell'età matura scelse una giovane e bella dama, Cecilia Contarini, e la sposò a quarantotto anni, quando i suoi coetanei erano già padri da un pezzo, e magari nonni.
Proprio col matrimonio cominciò la sua brillante carriera pubblica.
Due anni dopo le nozze venne eletto duca di Candia, dove rimase sino al 1551. Divenne quindi capitano a Brescia, deputato alla definizione di vertenze confinarie nel Friuli, podestà a Verona.
Richiamato a Venezia, fu di seguito insediato « avogador di Comun », Savio grande, provveditore generale alle fortezze, procuratore di San Marco.
Dal marzo 1570 designato provveditore a Corfù e subito dopo provveditore generale di Cipro.
Dimostrò capacità, lungimiranza, spirito aggressivo nei confronti dei nemici della Serenissima.
La declinante Repubblica era decisa a conservare amichevoli rapporti con l'Impero ottomano, che si estendeva tra Africa, Asia ed Europa.
Impero immenso, creato da Solimano il Magnifico, che il 6 Settembre 1566 moriva a 71 anni combattendo, com'era vissuto.
Venezia, pur di conservare la libertà di commerci e i possedimenti nel Mediterraneo orientale versava alla Sublime Porta un tributo annuo di 8500 ducati.
Le interessava in particolare Cipro, centro vitale tra l'Europa e l'Asia, isola produttrice di metalli, vini e di una qualità di zucchero molto ricercata in tutto l'Occidente.
Cipro, a 2000 miglia dalla Laguna, circondata dai turchi, era peraltro molto difficile da tenere.
Per di più i successori di Solimano, temendo d'essere ingannati dalla neutralità di Venezia, inviarono un ambasciatore con questa intimazione: « Vi domandiamo Cipro, che ci darete per amore o per forza.
Guardatevi dall'irritare la nostra terribile spada, altrimenti muoveremo contro di voi guerra crudelissima in ogni parte; né confidate nella ricchezza del vostro tesoro, perché faremo in modo che esso vi sfugga di mano come torrente ».
Un linguaggio del genere non poteva essere tollerato; il Gran consiglio lo respinse e, preparandosi alla lotta, si rivolse al più esperto, al più risoluto dei suoi comandanti, appunto Sebastiano Venier.
Questi, alla vigilia dì compiere 75 anni, il 13 dicembre 1570 fu nominato « Capitano generale da mar » e senza indugio si mise all'opera riordinando l'armata, iniziando l'assedio di Durazzo.
Venier comprese subito che il nodo della vicenda andava districato con uno scontro decisivo in mare.
Preparò la sua arma segreta: sei super‑galere dette galeazze o maone che erano una via di mezzo tra la galea e i grandi vascelli a vela che si andavano costruendo in quel secolo, ma con un potenziale di fuoco del tutto insolito per le navi dell'epoca. Autentiche « fortezze galleggianti » con tre alberi, 23 remi per parte a ciascuno dei quali erano preposti 6 uomini, 70 pezzi d'artiglieria tra cui il cannone centrale di prua che lanciava una palla di ferro di quasi 40 chili.
Ai lati di ciascun banco di rematori, una petriera o bombarda che lanciava palle di pietra pesanti fino a 25 chili.
Intanto, per iniziativa principale di Pio V, si era creata la Lega sacra tra la Chiesa, Spagna, Venezia e alleati minori con lo scopo di perseguire « la rovina e la distruzione del Turco » (il trattato della potente coalizione anti‑ottomana fu firmato il 20 maggio 1571).
Il comando generale dei collegati toccò a don Giovanni d'Austria, il ventitreenne figlio naturale di Carlo V fratellastro di Filippo II.
Don Giovanni ebbe dei gravi contrasti con Venier circa la data e il luogo dell'attacco ai Turchi; il primo avrebbe voluto attendere un'occasione propizia, l'anziano comandante veneziano si battè, e la spuntò, per giungere allo scontro il più rapidamente possibile.
Inoltre alla vigilia della grande prova Venier fece impiccare un capitano e tre marinai al soldo della Spagna, colpevoli di aver ucciso alcuni veneziani: e don Giovanni lo minacciò di fargli fare la stessa fine.
Il 7 ottobre la più grande flotta mai schierata dalla Cristianità muove incontro alla flotta turca che aveva lasciato l'imboccatura di Lepanto, presso le Curzolari, nella zona di mare greco che divide il golfo di Patrasso dal golfo di Corinto. Le forze sono all'incirca pari.
La flotta turca, agli ordini di Mehmet Alì Pascià, comprende 222 galee e 60 galeotte, con 750 cannoni e 88.000 mila uomini.
La flotta cristiana è costituita da 202 galee, 6 galeazze, 30 navi minori; ha meno uomini (74.000) ma più cannoni (1815).
Venier comanda le 105 galee e le 6 galeazze veneziane.
Fa rimorchiare per prime incontro al nemico queste « fortezze galleggianti », che quando vengono affiancate dalle navi turche fanno tuonare le petriere delle fiancate improvvisamente, provocando squarci, devastazioni, morte.
I vascelli musulmani, benché scompigliati, proseguono la loro rotta verso la « Reale » di don Giovanni, che è affiancata dalle navi ammiraglie di Venier e del pontificio Marc' Antonio Colonna.
Sebastiano Venier, con accanto il giovane nipote Lorenzo, ha indossato una pesante corazza e calzato delle leggere « pianelle » per muoversi con maggiore agilità.
Partecipa direttamente al combattimento ravvicinato, lanciando palle di ferro con una balestra che un servente è pronto ogni volta a ricaricare li Capitano «generale da mar» è il fulcro della lotta con l'esempio e con gli ordini fulminei.
Accortosi che l'ammiraglia ottomana di Alì Pascià cerca di abbordare la « Reale » spagnola, la investe all'altezza dell'albero maestro.
Divide i soldati per far fronte alle altre navi nemiche che cercano di circondarlo, ordina agli archibugieri di battere con un tiro fitto e preciso la galea del comandante turco.
Poi, l'arrembaggio.
I giannizzeri, per difendere la vita del loro capo, oppongono una disperata resistenza a poppa, dietro una barricata di Iegnami e materassi.
Venier spazza quest'ultima barriera facendo sparare un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene.
Mehmet Alì Pascià, ferito, viene catturato dai marinai, decapitato, e la sua testa issata su di una picca affinché tutti i vicini, amici e nemici, possano scorgere il macabro trofeo.
E' la fine per gli ottomani superstiti: chi cerca scampo nella fuga e chi s'arrende.
La battaglia, mentre scende il tramonto, è vinta.
Bilancio: tra i Turchi 8.000 morti, 10.000 prigionieri, 50 navi affondate e 117 catturate; tra gli alleati 15 galee e 7.500 uomini perduti, tra cui Agostino Barbarigo, che comandava l'ala sinistra cristiana (alla destra era il genovese Gian Andrea Doria).
Tra i cattolici feriti, un giovane volontario spagnolo, Miguel Cervantes, futuro autore del Don Chisciotte (perderà per sempre l'uso della mano sinistra).
Don Giovanni chiama accanto a sé il « leone di Venezia », lo abbraccia alla presenza delle truppe esultanti.
Sebastiano Venier, al ritorno, ebbe gli onori del trionfo.
La sua fama si propagò in tutto il mondo occidentale, suscitando le invidie della potentissima Spagna.
Il Senato fu costretto, per tacitare i grandi spagnoli, ad affiancargli un altro capitano generale, lacopo Foscarini.
L'episodio non impedì il più giusto dei riconoscimenti: Venier fu nominato doge (l' 86°) dall' 11 giugno 1577 al 3 marzo del 1578, giorno in cui morì.
Lasciò di sé una grande memoria.
Come uomo, i veneziani suoi contemporanei lo ricordarono per la affabilità bonaria, non disgiunta da un severo rispetto per le cariche ricoperte più che per le dignità che ne derivavano alla sua persona; e per il senso della giustizia, il fiero coraggio mai ostentato ma sempre presente nei momenti decisivi, l'amore per Venezia manifestato dall'attaccamento ai valori patriottici della Serenissima e alle sue tradizioni più antiche e schiettamente popolari.
Come comandante, il giudizio su di lui fu affidato specialmente ai posteri: i quali poterono valutare le sue eccezionali doti di ammiraglio, il dono di saper amalgare sotto la sua ferrea guida ciurme e capi di flotte diverse, espressioni di stati spesso divisi da rivalità politiche e da ambizioni di primato.
A Lepanto la cristianità prevalse sui turchi perché Venier seppe dare un senso unitario alla lotta e coinvolgere idealmente i combattenti, persuadendoli che si battevano sotto una sola bandiera.
Il resto lo fece la sua maestria di capitano di mare.
Fu sepolto a Murano, in Santa Maria degli Angeli, pianto dai marinai e dai soldati che egli aveva guidato alla più luminosa delle vittorie.
In epoca moderna (1907) le spoglie sono state traslate nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, accanto alla cappella del Rosario, eretta per perpetuare la memoria di Lepanto.
C'è infine chi rimane nella storia per un unico episodio ma fondamentale, decisivo per il destino di popoli interi.
Quest'ultimo caso s'attaglia alla personalità di Sebastiano Venier, che volle e vinse la più grande battaglia navale dell'età della marina a remi.
In poche ore, dall'alba al tramonto del 7 ottobre 1571, a Lepanto, egli annientò la flotta di Alì Pascià impedendo che il Mediterraneo diventasse un lago turco; sfatando la leggenda, nata nel XVI secolo, dell'imbattibilità dell'Impero ottomano; salvando la Cristianità da un disastro irreparabile.
I quadri celebri rimasti a immortalarlo ce lo mostrano tutti in questa occasione, in età molto avanzata (73 anni), patriarca maestoso dalla lunga barba bianca, l'espressione sicura e serena del giusto.
Proveniva dai Venier (Venerii), famiglia patrizia veneziana, le cui prime tracce appaiono nell' XI secolo.
Famiglia che prima di lui aveva già dato alla Serenissima due dogi: Francesco (nel 1554) e più indietro ancora (1382) Antonio, famoso per la sua inflessibile dirittura morale: fece imprigionare fino alla morte il figlio Alvise, reo di aver ingiustamente offeso i membri di un nobile casato della Repubblica di S. Marco.
Sebastiano nacque nel 1496, primo figlio di Mosè Venier e di Elena Donà.
Crebbe alto, robusto, abile nel mestiere delle armi quanto nella conoscenza della cosa pubblica; forte nel fisico e nel morale.
Abituato alle spartane rinunce ma capace, all'occorrenza, di gustare la compagnia lieta, la buona tavola, le avventure galanti .
I suoi biografi « a posteriori » passano sotto silenzio le lunghe diatribe che ebbe con fidanzati e mariti traditi, la sua abilità nel sottrarsi ai legami duraturi.
Soltanto nell'età matura scelse una giovane e bella dama, Cecilia Contarini, e la sposò a quarantotto anni, quando i suoi coetanei erano già padri da un pezzo, e magari nonni.
Proprio col matrimonio cominciò la sua brillante carriera pubblica.
Due anni dopo le nozze venne eletto duca di Candia, dove rimase sino al 1551. Divenne quindi capitano a Brescia, deputato alla definizione di vertenze confinarie nel Friuli, podestà a Verona.
Richiamato a Venezia, fu di seguito insediato « avogador di Comun », Savio grande, provveditore generale alle fortezze, procuratore di San Marco.
Dal marzo 1570 designato provveditore a Corfù e subito dopo provveditore generale di Cipro.
Dimostrò capacità, lungimiranza, spirito aggressivo nei confronti dei nemici della Serenissima.
La declinante Repubblica era decisa a conservare amichevoli rapporti con l'Impero ottomano, che si estendeva tra Africa, Asia ed Europa.
Impero immenso, creato da Solimano il Magnifico, che il 6 Settembre 1566 moriva a 71 anni combattendo, com'era vissuto.
Venezia, pur di conservare la libertà di commerci e i possedimenti nel Mediterraneo orientale versava alla Sublime Porta un tributo annuo di 8500 ducati.
Le interessava in particolare Cipro, centro vitale tra l'Europa e l'Asia, isola produttrice di metalli, vini e di una qualità di zucchero molto ricercata in tutto l'Occidente.
Cipro, a 2000 miglia dalla Laguna, circondata dai turchi, era peraltro molto difficile da tenere.
Per di più i successori di Solimano, temendo d'essere ingannati dalla neutralità di Venezia, inviarono un ambasciatore con questa intimazione: « Vi domandiamo Cipro, che ci darete per amore o per forza.
Guardatevi dall'irritare la nostra terribile spada, altrimenti muoveremo contro di voi guerra crudelissima in ogni parte; né confidate nella ricchezza del vostro tesoro, perché faremo in modo che esso vi sfugga di mano come torrente ».
Un linguaggio del genere non poteva essere tollerato; il Gran consiglio lo respinse e, preparandosi alla lotta, si rivolse al più esperto, al più risoluto dei suoi comandanti, appunto Sebastiano Venier.
Questi, alla vigilia dì compiere 75 anni, il 13 dicembre 1570 fu nominato « Capitano generale da mar » e senza indugio si mise all'opera riordinando l'armata, iniziando l'assedio di Durazzo.
Venier comprese subito che il nodo della vicenda andava districato con uno scontro decisivo in mare.
Preparò la sua arma segreta: sei super‑galere dette galeazze o maone che erano una via di mezzo tra la galea e i grandi vascelli a vela che si andavano costruendo in quel secolo, ma con un potenziale di fuoco del tutto insolito per le navi dell'epoca. Autentiche « fortezze galleggianti » con tre alberi, 23 remi per parte a ciascuno dei quali erano preposti 6 uomini, 70 pezzi d'artiglieria tra cui il cannone centrale di prua che lanciava una palla di ferro di quasi 40 chili.
Ai lati di ciascun banco di rematori, una petriera o bombarda che lanciava palle di pietra pesanti fino a 25 chili.
Intanto, per iniziativa principale di Pio V, si era creata la Lega sacra tra la Chiesa, Spagna, Venezia e alleati minori con lo scopo di perseguire « la rovina e la distruzione del Turco » (il trattato della potente coalizione anti‑ottomana fu firmato il 20 maggio 1571).
Il comando generale dei collegati toccò a don Giovanni d'Austria, il ventitreenne figlio naturale di Carlo V fratellastro di Filippo II.
Don Giovanni ebbe dei gravi contrasti con Venier circa la data e il luogo dell'attacco ai Turchi; il primo avrebbe voluto attendere un'occasione propizia, l'anziano comandante veneziano si battè, e la spuntò, per giungere allo scontro il più rapidamente possibile.
Inoltre alla vigilia della grande prova Venier fece impiccare un capitano e tre marinai al soldo della Spagna, colpevoli di aver ucciso alcuni veneziani: e don Giovanni lo minacciò di fargli fare la stessa fine.
Il 7 ottobre la più grande flotta mai schierata dalla Cristianità muove incontro alla flotta turca che aveva lasciato l'imboccatura di Lepanto, presso le Curzolari, nella zona di mare greco che divide il golfo di Patrasso dal golfo di Corinto. Le forze sono all'incirca pari.
La flotta turca, agli ordini di Mehmet Alì Pascià, comprende 222 galee e 60 galeotte, con 750 cannoni e 88.000 mila uomini.
La flotta cristiana è costituita da 202 galee, 6 galeazze, 30 navi minori; ha meno uomini (74.000) ma più cannoni (1815).
Venier comanda le 105 galee e le 6 galeazze veneziane.
Fa rimorchiare per prime incontro al nemico queste « fortezze galleggianti », che quando vengono affiancate dalle navi turche fanno tuonare le petriere delle fiancate improvvisamente, provocando squarci, devastazioni, morte.
I vascelli musulmani, benché scompigliati, proseguono la loro rotta verso la « Reale » di don Giovanni, che è affiancata dalle navi ammiraglie di Venier e del pontificio Marc' Antonio Colonna.
Sebastiano Venier, con accanto il giovane nipote Lorenzo, ha indossato una pesante corazza e calzato delle leggere « pianelle » per muoversi con maggiore agilità.
Partecipa direttamente al combattimento ravvicinato, lanciando palle di ferro con una balestra che un servente è pronto ogni volta a ricaricare li Capitano «generale da mar» è il fulcro della lotta con l'esempio e con gli ordini fulminei.
Accortosi che l'ammiraglia ottomana di Alì Pascià cerca di abbordare la « Reale » spagnola, la investe all'altezza dell'albero maestro.
Divide i soldati per far fronte alle altre navi nemiche che cercano di circondarlo, ordina agli archibugieri di battere con un tiro fitto e preciso la galea del comandante turco.
Poi, l'arrembaggio.
I giannizzeri, per difendere la vita del loro capo, oppongono una disperata resistenza a poppa, dietro una barricata di Iegnami e materassi.
Venier spazza quest'ultima barriera facendo sparare un colpo di petriera caricata con pezzi di ferro e catene.
Mehmet Alì Pascià, ferito, viene catturato dai marinai, decapitato, e la sua testa issata su di una picca affinché tutti i vicini, amici e nemici, possano scorgere il macabro trofeo.
E' la fine per gli ottomani superstiti: chi cerca scampo nella fuga e chi s'arrende.
La battaglia, mentre scende il tramonto, è vinta.
Bilancio: tra i Turchi 8.000 morti, 10.000 prigionieri, 50 navi affondate e 117 catturate; tra gli alleati 15 galee e 7.500 uomini perduti, tra cui Agostino Barbarigo, che comandava l'ala sinistra cristiana (alla destra era il genovese Gian Andrea Doria).
Tra i cattolici feriti, un giovane volontario spagnolo, Miguel Cervantes, futuro autore del Don Chisciotte (perderà per sempre l'uso della mano sinistra).
Don Giovanni chiama accanto a sé il « leone di Venezia », lo abbraccia alla presenza delle truppe esultanti.
Sebastiano Venier, al ritorno, ebbe gli onori del trionfo.
La sua fama si propagò in tutto il mondo occidentale, suscitando le invidie della potentissima Spagna.
Il Senato fu costretto, per tacitare i grandi spagnoli, ad affiancargli un altro capitano generale, lacopo Foscarini.
L'episodio non impedì il più giusto dei riconoscimenti: Venier fu nominato doge (l' 86°) dall' 11 giugno 1577 al 3 marzo del 1578, giorno in cui morì.
Lasciò di sé una grande memoria.
Come uomo, i veneziani suoi contemporanei lo ricordarono per la affabilità bonaria, non disgiunta da un severo rispetto per le cariche ricoperte più che per le dignità che ne derivavano alla sua persona; e per il senso della giustizia, il fiero coraggio mai ostentato ma sempre presente nei momenti decisivi, l'amore per Venezia manifestato dall'attaccamento ai valori patriottici della Serenissima e alle sue tradizioni più antiche e schiettamente popolari.
Come comandante, il giudizio su di lui fu affidato specialmente ai posteri: i quali poterono valutare le sue eccezionali doti di ammiraglio, il dono di saper amalgare sotto la sua ferrea guida ciurme e capi di flotte diverse, espressioni di stati spesso divisi da rivalità politiche e da ambizioni di primato.
A Lepanto la cristianità prevalse sui turchi perché Venier seppe dare un senso unitario alla lotta e coinvolgere idealmente i combattenti, persuadendoli che si battevano sotto una sola bandiera.
Il resto lo fece la sua maestria di capitano di mare.
Fu sepolto a Murano, in Santa Maria degli Angeli, pianto dai marinai e dai soldati che egli aveva guidato alla più luminosa delle vittorie.
In epoca moderna (1907) le spoglie sono state traslate nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, accanto alla cappella del Rosario, eretta per perpetuare la memoria di Lepanto.