2011.06.03 – I REGIONALISMI SONO IN EUROPA UNA REALTA’: ECCO PERCHE’

di Andrea Carrubba
13 Maggio 2011 .
Il regionalismo è un fenomeno storico-culturale, oltre che politico. Si richiama a realtà culturali primarie quali l’etnia, il territorio, interpreta l’identità di una popolazione. Nel corso degli ultimi decenni del XX secolo, accanto al consolidamento del processo di integrazione europea, architettura istituzionale di molti Stati europei ha conosciuto profonde trasformazioni in direzione di un progressivo processo di devoluzione di poteri e risorse dal centro alla periferia. Tale fenomeno, denominato “neoregionalismo” è stato il frutto di altrettante devoluzioni, cioè di forme di trasferimento di poteri e di risorse dal centro alla periferia degli Stati, e ha interessato sia quegli Stati in cui le regioni hanno già le competenze autonomistiche sia gli Stati che sono ancora fortemente ancorati al modello unitario.
Molteplici e tra loro correlati sono i fattori esogeni ed endogeni che hanno creato le condizioni di affermazione del modello autonomistico. Tra i fattori esogeni possiamo segnalare quelli riguardanti i processi di globalizzazione e il consolidamento del processo di integrazione europea. Il primo, che costituisce il principale carattere distintivo della fase storica che stiamo vivendo, si manifesta anche con la omologazione delle diversità culturali, sociali, etniche, religiose. A tale fenomeno le comunità reagiscono cercando di preservare e mantenere intatte le proprie tradizioni, le proprie radici, le proprie identità.
Sorgono in molti Stati, soprattutto europei, movimenti che si oppongono a tale processo di omologazione e si richiamano ai valori del tradizionalismo e del localismo. Come conseguenza, si manifesta dal basso una tendenza al ridimensionamento del ruolo dello Stato unitario e a creare nel territorio nuovi modelli organizzativi della società. Il secondo, ovvero il processo di integrazione europea, ha comportato il coinvolgimento dei governi sub-statali, sempre più sollecitati dalla Unione europea (UE) ad intervenire nella realizzazione delle politiche e delle direttive comunitarie, che richiedono sempre di più il coinvolgimento dei livelli di governo sub-statali[1].
Il regionalismo dell’Europa contemporanea affonda le sue origini nei secoli passati, in qualche caso all’età medievale o agli inizi dell’età moderna. Per secoli i regionalismi, considerati fattori di divisione e pertanto pericolosi dalle autorità statuali, attraverso percorsi di repressione e violenza sono stati avversati a favore dell’idea di stato-nazione unitario. Rivendicazioni e lotte regionaliste sono sempre state presenti sulla scena europea e, accanto ai fattori culturali, il risveglio dei regionalismi nel secolo precedente, si è manifestato anche un altro dirompente fattore, quello economico. Negli anni settanta, la rivolta delle periferie emarginate, arretrate e sfruttate viene interpretata e vissuta secondo lo schema del “colonialismo interno” del centro capitalista; spesso l’irruzione sulla scena politica europea di alcuni vecchi movimenti indipendentisti viene accompagnata dalla violenza: gli ultimi attentati dei sudtirolesi contro lo Stato italiano e le prime rivendicazioni dei Baschi, dei Corsi, e in Irlanda. Si riferiscono a regionalismi dotati di robusta identità politico-ideologica.
In Spagna, la questione regionalista e separatista è esplosa con una intensità maggiore che in altri paesi, verosimilmente quale risposta alle repressioni del regime franchista di ogni forma di autonomia. Nel 1977, all’indomani della caduta del franchismo, inizia il rapido e radicale processo di democratizzazione della Spagna attraverso un processo di decentramento e di autonomia.
L’autonomismo in Catalogna non è un fatto di anni e neppure di decenni. Tra il 1898 e il 1917 fu particolarmente forte la Lliga Regionalista, un movimento, espressione della borghesia industriale, che intendeva valorizzare il dinamismo economico catalano e prendere le distanze dalla caotica situazione politica e amministrativa della Spagna. La difesa orgogliosa della propria identità culturale, il “catalanismo”, sorretta da un ceto imprenditoriale ricco, si manifestò con la nascita di un sentimento regionalista e di autodeterminazione, condiviso da tutto lo schieramento politico, da cattolici e laici. Nei primi decenni del XX secolo, la Lliga perse terreno e dopo la stagione di autonomia degli anni ’30 con il riconoscimento della nazionalità, il catalanismo conobbe il periodo della repressione da parte del regime franchista: venne abolita ogni traccia di autonomia politica e culturale, l’uso della lingua catalana fu proibito in pubblico. Negli anni ’50, l’opposizione al regime si espresse con manifestazioni pacifiste di massa. Si organizzarono diversi gruppi indipendentisti, più o meno moderati. Dopo il 1979, anno dello Statuto di autonomia, il Principat (così è chiamata la Catalogna) presentava un sistema istituzionale assolutamente completo, alternativo e integrativo a quello di Madrid. Il Parlamento ha votato nel 1998 la richiesta al diritto alla autodeterminazione, senza alcuna rivendicazione d’indipendenza. La sua comunità è quella che gode, fra le altre, di maggiore autonomia. L’ Estatut d’Autonomia (la Carta fondamentale della Generalitat) prevede infatti che la Generalitat cioè il Governo, si occupi, tra l’altro, di diritto civile, procedimenti giudiziali amministrativi, istruzione, cultura e ricerca scientifica, turismo, pesca, agricoltura, commercio e artigianato, sport, cinema e spettacoli. Ha anche una polizia di stato. Dal punto di vista linguistico, il catalano è la prima lingua ufficiale; la toponomastica è tutta catalana.
Dal punto di vista storico, nel quadro delle riforme istituzionali, anche la Spagna è una democrazia giovane, esito anch’essa della Costituzione del 1978 che prevede, al tempo stesso, la nascita delle Comunidades Autonomas, quale risultato del libero esercizio del "diritto all’autonomia” alle diverse “nazionalità” e Regioni” che integrano la Spagna (art. 2). In particolare, si tratta di: Catalogna, Galizia, Navarra, Paesi Baschi, Andalusia e Valencia. Vengono stabilite le regole per un processo volontario e graduale di decentramento, il modello volontaristico. Le istituzioni fondamentali e le competenze legislative delle Comunitates autonome sono definite nella Costituzione spagnola. La forma organizzativa è costituita dall’autonomia – garantita dalla Cost. e dagli Statuti ‑­ delle Comunità: esistono competenze esclusive dello Stato, competenze condivise e competenze esclusive delle Comunità. La comunità catalana indipendentista, anche la più accesa, ha sempre rifiutato ogni forma di violenza; al contrario, nei Paesi Baschi, l’autonomia è sinonimo di Eta, ovvero Euskadi Ta Askatasuna (Paese Basco e Libertà), nato da una scissione del Partito Nazionalista Basco, per contrastare la dittatura franchista e per riconquistare la indipendenza basca, e che negli ultimi 40 anni ha provocato la morte violenta di più di 800 persone.
Il Paese Basco, chiamato in lingua basca, Euskal Herria, “il popolo dalla lingua basca”, è costituito dalle comunità autonome dei Paesi Baschi e della Navarra in Spagna e parte del dipartimento dei Pirenei in Francia. Fa risalire l’origine del sentimento nazionalistico di appartenenza alla fine del sec. XIX nei nuclei industriali di Bilbao, con la nascita del PNV dei fratelli Arana, movimento cattolico e xenofobo, la cui ideologia era fondata sulla purezza della razza basca e la sua presunta superiorità etica-culturale sulle altre popolazioni spagnole, sull’integralismo antiliberale, in un momento cruciale in cui la società basca vedeva crollare dopo la terza carlista, i Fueros, ossia il corpus di diritto amministrativo, giuridico ed economico proprio dei baschi, concesso dai re di Castiglia. Il movimento nazionalistico fuerista si batté nell’ambito del carlismo e con l’influenza delle idee nazionaliste del Romanticismo europeo, per la riconquista del sistema dei Fueros e delle tradizionali autonomie territoriali contro la centralizzazione imposta da Madrid. Agli inizi del XX secolo, esso si diffuse nelle diverse classi sociali, incorporando la base contadina, che ne divenne la parte più fondamentalista. Durante la Seconda repubblica spagnola i baschi ottennero uno statuto di autonomia, con la creazione di un governo autonomo repubblicano che ebbe poca vita, fino alla disfatta di Santona contro le truppe di Franco. Il regime franchista accrebbe il sentimento nazionalista del popolo basco ma il movimento fu costretto presto alla clandestinità o all’esilio. Nel 1959, alcuni giovani nazionalisti fondarono il gruppo separatista del l’ETA ,che presto adottò una politica rivoluzionaria armata.
I primi membri provenivano, infatti, da una corrente di pensiero marxista o socialista, cosa assai strana per un movimento identitario, ma non bisogna dimenticare che per contrastare la dura repressione del regime era inevitabile il contatto con le frange più decisioniste dell’opposizione. Inoltre la società si era molto laicizzata, essendo la Chiesa cattolica in larga parte compromessa col regime franchista. Grazie anche all’appoggio di larghi strati della popolazione, l’ETA riuscì a resistere e a rispondere alle sanguinose retate e intimidazioni della polizia, dando inizio alla strategia degli attentati: in pieno centro di Madrid, eliminò nel ’73 Carrero-B successore del Caudillo, aprendo paradossalmente la strada alla democrazia in Spagna. Lo scontro col regime fu durissimo, ma assassini ed intimidazioni non frenano la lotta armata. La transizione post-franchista non fu meno dura della dittatura con l’azione di gruppi paramilitari (Gal) che causò decine di morti, protetti dal governo del PSOE, formati da militari spagnoli, in molti casi provocò pure la morte di vittime innocenti. Negli anni ’90 nasce l’ Herri Batasuna (Unità Popolare), una coalizione orizzontale che accoglie ideologi e militanti di partiti diversi: trotskisti, maoisti, sindacalisti, ambientalisti, indipendentisti che, nel 2002, venne giudicato fuori legge dalla Corte suprema spagnola, in quanto colluso con l’ETA. Ciò nonostante, con una legge ad hoc, il partito sopravvisse ancora, sembrerebbe come movimento di pensiero anticapitalista[2]. Con il ritorno della democrazia in Spagna nel ’78, i Paesi Baschi ottennero un’ampia autonomia, con un autogoverno basato sulle tradizioni delle Fueros e sullo statuto di Guernica del ’79. La comunità autonoma godeva di un regime di competenze speciali, proprie delle Comunidades Autonomas, e di competenze esclusive, quali una polizia propria e integrale, di mezzi di informazione, di un proprio regime fiscale e di una corte di giustizia. Fino al 2009 è stata governata dai nazionalisti cristiano-democratici del Partito Nazionalist Basco, in seguito sostituito dal Partito Socialista operaio spagnolo. In Francia il Dipartimento dei Pirenei Atlantici baschi non gode di autonomia.
La terza regione con autonomia speciale è la Galizia, nel nord-occidente della Spagna, con peculiarità e radici culturali proprie, che si sono mantenute nonostante lunghi periodi di arretratezza economica e separazione sociale. I gaglieghi si dichiarano di origine celtica, vi si parla il gaglieco, una lingua neo-latina, strettamente collegato al portoghese. Il mito della “nazione “celta" è coltivato con passione, con simboli, festival folkloristici, e celebrazioni annuali. Il movimento nazionalista si manifesta nel XIX secolo, chiuso nell’elite borghese e urbana, privo dell’asprezza politica e ideologica del nazionalismo della Catalogna e dei Paesi Baschi. Durante la Seconda Repubblica riesce ad ottenere uno statuto di autonomia. Durante il regime franchista, a differenza degli altri nazionalismi in terra spagnola, la repressione non è altrettanto dura. Dopo la morte di Franco, la Galizia nel ’75 conquistò l’autonomia regionale. Il più importante partito è il Bloque nacionalista gallego, collocato nella sinistra moderata, e divenuto negli ultimi anni la seconda o terza forza del parlamento regionale grazie alla intensa e dinamica politica di integrazione, una stabile leadership e diverse organizzazioni parallele, contribuendo al processo di democratizzazione e di crescita economica e culturale della regione[3]. Sono presenti anche gruppi dell’indipendentismo radicale, pronti ad entrare nella galassia dell’eversione spagnola. A differenza dell’ETA, la frangia secessionista galiziana è ritenuta poco incisiva alla causa, perché non può contare sul sostegno di una base sociale.
Per quel che riguarda le politiche comunitarie europee, durante la fase ascendente del processo decisionale, la partecipazione delle 17 Communidades Autonomas spagnole è doppiamente riconosciuta: da un lato, dalla Conferenza  per gli Affari comunitari e dall’altro, dalla presenza di rappresentanti delle Comunità a Bruxelles, oltre alla loro partecipazione al Comitato delle Regioni. Nel 1998 è stato raggiunto un accordo col governo centrale, secondo cui le Comunità sono rappresentate in seno alla delegazione spagnola presso il Consiglio dei Ministri, nel caso siano discussi temi di propria pertinenza. Durante la fase discendente, le Comunità applicano la legislazione vigente negli ambiti di competenza.
In Francia, negli anni sessanta il tormentato percorso di regionalizzazione inizia con la creazione degli Etablissements publics regionaux, proprio quando cominciavano a dare segni di risveglio i regionalismi più antichi, in Bretagna, in Corsica e Occitania. All’epoca della Rivoluzione francese, nasce la prima corrente nazionalistica bretone, che si esprime essenzialmente attraverso associazioni culturali, prontamente soffocata. Ma è solo dopo la prima guerra mondiale che il regionalismo viene riconosciuto apertamente con la nascita del Partito nazionale bretone, che rivendica l’autonomia politica e amministrativa, anch’esso represso. Dopo la seconda guerra mondiale, la creazione di movimenti autonomistici si segnala particolarmente per i diversi attentati compiuti. Nel ’65 la lingua bretone venne ammessa nelle classi superiori, e sorsero nuovi gruppi e centri culturali con motivazione ecologica propugnano il regionalismo e il federalismo.
Il movimento indipendentistico più irruente in Francia è stato sicuramente quello della Corsica, per la violenza degli attentati per lo più rivolta a banche, edifici pubblici, infrastrutture turistiche, edifici militari, e con altri simboli della sovranità francese. La Corsica è francese dal 1768, ma la sua peculiare identità, la lingua di ceppo italiano, la sua insularità hanno sempre ostacolato il processo di integrazione allo Stato francese. Il diritto all’autodeterminazione del popolo corso non ha mai cessato di esistere. La nascita politica del regionalismo risale alla fine del XX secolo e primi decenni del novecento, con la nascita di associazioni culturali e fondazioni di giornali in lingua corsa, e del Partitu corsu d’azzione, di chiare idee separatiste. Negli anni ’70 venne fondato il Fronte nazionale della Corsica (FLNC), organizzazione armata che iniziò ben presto la sua lotta indipendentista con una ondata di attacchi in tutta l’isola e tentativi di assassinio, proseguiti negli anni seguenti anche nella Francia continentale. Nel 1971, in cambio della cessazione delle violenze, alla Corsica venne concesso dall’ allora Primo Ministro Lionel Jospin uno statuto speciale, che prevedeva bonus fiscali e nuove concessioni nell’ambito del turismo, agricoltura, istruzione, urbanizzazione e ambiente[4]. Nel 2003, dopo altri trattative politiche andate a vuoto, furono introdotti il principio di sussidiarietà e la prospettiva di una autonomia finanziaria con la firma di una legge costituzionale, valida per tutte le regioni francesi, avviando così la “seconda tappa della regionalizzazione”.
In Italia, nel 1948 vennero istituite le cinque regioni a statuto speciale, il Trentino-Alto Adige, la Valle d’Aosta, il Friuli-Venezia–Giulia, la Sardegna e la Sicilia. Il regionalismo sudtirolese rappresenta il fenomeno autonomistico più compatto e interessante del panorama italiano. Terra di frontiera tra due grandi aree culturali situate a nord e a sud delle Alpi, il Trentino-Alto Adige ha saputo mantenere nei secoli un’unità culturale e di costume che ha consentito la concessione dell’autonomia regionale. A partire dal 1815, la Regione aveva costituito un unicum amministrativo-geografico con lo stato del Tirolo, chiamato Sudtirol, tornando a far parte dei domini austriaci. La spinta risorgimentale-irredentista che infuriava in tutta l’Europa dell’Ottocento, spinse gli irredentisti italiani a reclamare l’autonomia del territorio dal legame austriaco a favore di quelli italiani. Il governo austriaco, scosso da tensioni indipendentistiche su tutti i fronti, rispose con una politica di dura repressione, che portò all’uccisione dell’erede dell’Impero Francesco Ferdinando nel 1914. Nel 1918, dopo la Prima Guerra mondiale, la sconfitta dell’Austria causò l’annessione della Regione all’Italia, sancita con lo smembramento dell’antica contea tirolese e l’accorpamento oltre che del Trentino, anche delle popolazioni di lingua tedesca che abitavano le zone del Nord della provincia di Bolzano, attuata con una campagna di violenta repressione del regime fascista. Fra gli oppositori trentini e sudtirolesi, Alcide De Gasperi, con un discorso tenuto nel giugno del 1921, sostenne l’idea di un progetto autonomistico, sorretto da solide ragioni culturali e storiche, al fine di stemperare il conflitto di nazionalità. Il governo fascista intensificò, invece, la politica di assimilazione delle minoranze con l’italianizzazione forzata delle città di Bolzano e Merano. L’alternativa era il trasferimento dei residenti di etnia tedesca e ladina nei territori del Reich. Nel ’43, dopo l’armistizio dell’Italia con gli alleati, venne ristabilita l’integrità territoriale asburgico-tirolese. Nacque la Sudtiroler Volkpartei (SVP), il cui obiettivo politico era quello dell’autodeterminazione. L’autonomia del Trentino-Alto Adige trovò il suo fondamento nell’accordo firmato nel 1946 a Parigi dai Ministri degli Esteri di Italia e Austria, A. De Gasperi e K. Gruber. La Regione usciva allora da un lungo e tormentato periodo, anche di forme violente di lotta che continuarono fino agli anni sessanta, stimolata da sussulti secessionisti, nonostante la concessione dell’autonomia del 1947.
Il Governo italiano istituì una commissione di Studio per i problemi dell’Alto Adige e nel 1969 fu concordato il cosiddetto “Pacchetto di misure a favore delle popolazioni altoatesine”, approvato sia dalla SVP, dal Parlamento italiano e austriaco. Da qui nasce il Secondo Statuto del 1971, che assegna alle due province di Trento e Bolzano, numerose competenze di carattere legislativo e agevolazioni fiscali e creditizi. Fra le novità introdotte, vi è la tutela delle minoranze di lingua tedesca e ladina, il bilinguismo. Attualmente è in corso una fase di riflessione riguardante l’adeguamento della Regione mediante il distacco della provincia di Bolzano-Sud Tirolo da quella di Trento, e in futuro la riunificazione al Tirolo, con la creazione di un’ euroregione nel quadro di un regionalismo transfrontaliero. A questi fattori storico-culturali, propri del regionalismo, se ne aggiunse un altro, il fattore economico che divenne addirittura il detonatore della “rivolta della provincia”, per cui il regionalismo trovò linfa vitale nelle regioni emarginate, arretrate e sfruttate dal centro capitalista. Si parlò infatti di “colonialismo interno”, di “sviluppo diseguale”.
Negli anni successivi il regionalismo, pur restando il manifesto delle regioni più povere e periferiche nell’ ambito dell’ Ue, si sarebbe rilanciato vigorosamente anche e soprattutto nelle regioni centrali e sviluppate: basti ricordare i casi della Catalogna e della Lombardia, il tedesco Baden-Wurtemberg, la francese Rodano-Alpi (regioni tra le più ricche della Ue), accese sostenitrici del regionalismo e alleate nella Comunità dei Quattro Motori, ma assai restie alla politica di redistribuzione delle risorse economiche della Ue[5], le cui finalità sono espressamente orientate alla cooperazione tecnologica, allo sviluppo dei trasporti e delle telecomunicazioni e agli scambi nei settori della ricerca e della cultura.
Ricordiamo il caso della Scozia che, scoperto il petrolio del mare del Nord, rivendica più autonomia, o della Baviera che è diventata uno dei più ricchi Land della Germania o del Veneto, regione molto sviluppata, che rivendica un regionalismo estremista. Le competenze e i poteri del parlamento scozzese sono fissati dalla legge del 1977, successiva al referendum, entrata in vigore nel 1998, secondo la quale il parlamento, elegge un primo ministro e un governo, ma non è del tutto sovrano: pur riservandosi un’ampia autonomia nella gestione delle risorse finanziarie, l’economia resta di quasi esclusiva competenza di Londra. Il regionalismo/nazionalismo degli scozzesi, sostenuto finora da sentimenti d’identità, si nutre ora di ben altre aspirazioni: l’obiettivo principale è quello di controllare le proprie risorse[6].
In Germania, l’unico regionalismo è quello bavarese. La stratificazione della popolazione immigrata su tutto il territorio tedesco subito dopo la seconda guerra e la mobilità interna dovuta al mutato assetto economico hanno impedito che potesse formarsi fenomeni di revanchismo etnico-sociale. Inoltre, la Germania ha realizzato, con il suo assetto federale, la più completa regionalizzazione. Il federalismo tedesco non si fonda su basi etniche o geografiche o storico-culturali; esso è stato creato su basi prettamente politico- istituzionali. Gli attuali Lander sono sorti nel 1946 e agiscono insieme al Governo Federale attraverso il Bundersrat, seconda camera del Parlamento, composto dai loro rappresentanti. Il numero dei membri del B. dipende dalla dimensione demografica del Lander. Regione di subcultura cattolica, fin dal XIX sec. fu soprattutto la Baviera. In questa regione, i cattolici, per difendere la loro identità politica, rafforzata dai valori e dai riti della religione, costruirono le loro roccaforti territoriali. Anche sotto il regime nazista la Regione ha conservato la sua ampia autonomia, stipulando con la Santa sede nel 1924 un concordato. Tuttora il cattolicesimo costituisce uno dei tratti distintivi della sua identità.
Negli ultimi decenni, grazie anche alla notevole crescita economica, il suo ruolo politico sia in Patria che nel contesto europeo, si è rafforzato sensibilmente.Particolarmente interessante appare, inoltre, analizzare come il fenomeno autonomistico prende piede in Irlanda. Nel 1920 viene firmato il Trattato Anglo-Irlandese, con cui si stabilisce che ventisei delle trentadue Contee avrebbero costituito lo Stato libero dell’Irlanda, legato alla Corona con un giuramento di fedeltà, mentre le sei contee del nord dell’Ulster sono in attesa della volontà popolare, di decidere se aderire al nuovo stato. La decisione negativa della popolazione porta alla divisione dell’Irlanda. La minoranza cattolica, mal rappresentata, è in posizione di netta inferiorità rispetto ai protestanti. Ben presto si scatena la guerra civile che comportò la fuga di molti cattolici nel sud dell’isola. Allo scopo di frenare i disordini e i tumulti, nel 1922 viene promulgato il Civil Authority Act (Specials Powers), reiterato diverse volte e rimasto in vigore fino al 1974. Nel 1932 la regione viene dotata di un proprio Parlamento, lo Stormont, con il quale inizia una vera e propria campagna discriminatoria nei confronti dei cattolici,tesa a salvaguardare i privilegi della classe dirigente protestante, nell’indifferenza della Gran Bretagna. Negli anni sessanta si assiste anche nell’Irlanda del Nord, ad una rinascita dei valori morali e civili, che tocca soprattutto le giovani generazioni.
Nascono numerosi movimenti per i diritti civili, senza alcuna connotazione politica. Si moltiplicano le manifestazioni e le marce per la pace, durante le quali le due fazioni,cattolici e protestanti vengono violentemente a contatto. Allo scopo di intimidire gli attivisti, si costituiscono gruppi paramilitari protestanti, e in questo clima di guerriglia urbana e di inerzia delle istituzioni, ben presto prendono il sopravvento i militanti dell’IRA, in appoggio ai cattolici. Nel 1972 il governo di Londra invia l’esercito, con l’apparente compito di combattere l’IRA e portare l’ordine. Dopo l’uccisione di 13 civili da parte dei soldati inglesi, durante una manifestazione di pace (Bloody Sunday), nel 1972 il parlamento di Stormont viene sospeso. L’IRA moltiplica gli attentati che determina il progressivo distacco dei cattolici, stanchi dell’elevato numero di vittime anche tra i civili. Nel clima di tensione crescente, il Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord propone un progetto di legge per la creazione per gli affari interni dell’Ulster. Nel 1985 il Sinn Fein, braccio politico dell’IRA, riconosce il Parlamento di Dublino, facendo il suo ingresso nelle istituzioni locali. Nel 1993, il processo di pace prosegue con la proclamazione del cessate il fuoco da parte dell’IRA e dei lealisti protestanti. Nel 1998, con la ratifica dell’accordo di pace, cessa la guerra civile, durata 30 anni e costata 3600 vittime. Il nuovo governo autonomo dell’Irlanda del nord, composto da cattolici e protestanti assume pieni poteri nel 1999. Dopo una breve sospensione del governo sotto le forti pressioni unionisti, esso ritorna a funzionare nel maggio 2000. I risultati delle elezioni 2007 conferiscono 36 seggi al DUP (protestanti unionisti) e 28 seggi al SNN FEIN 8cattolici nazionalisti), il primo ministro è un protestante, I. Paisley, il vice è un cattolico, Mc Guinnes. In seguito all’ultimatum di Londra, il primo ministro e il suo vice si sono riuniti al tavolo negoziale e hanno deciso di formare un governo di coalizione, attivo dal maggio 2007.
[1] STEFANO PIAZZA, Federalismo e regionalismo in Italia e in Europa: cenni di riflessione ricognitiva”, in Nuova rassegna on line di legislazione, dottrina, giurisprudenza, Noccioli Editore Firenze, Num. 14 del 16/07/2005 2005.
[2] GIOVANNI LAGONEGRO, “Storia politica di Euskadi Ta Askatasuna e dei Paesi Baschi”, Tranchida (in www.tranchida.it), Milano 2005.
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