2011.12.02 – DALLA LIBIA AL SUDAN UN UNICO OBIETTIVO: FERMARE LA CINA


Scritto il 28/9/11

 
Prima la Tunisia, frontiera ovest. Poi l’Egitto, frontiera est. Restava un ultimo ostacolo: Gheddafi.
Non solo per mettere le mani sul petrolio libico, ma anche e soprattutto per tagliare la strada alla Cina, che era riuscita a inserire nel proprio network energetico persino il poverissimo Ciad, ai confini meridionali della Libia, mentre appena più a ovest la secessione del Sud Sudan, preparata da Washington, ha sottratto al controllo africano, e quindi cinese, le maggiori risorse del sottosuolo sudanese.
L’analisi, dedicata agli entusiasti che in questi mesi hanno fatto il tifo per le “Twitter revolutions”, è firmata da William Engdahl del “Global Research Institute” canadese diretto da Michel Chossudovsky. Aprite gli occhi, avverte Engdahl: il regista del Risiko africano è il Pentagono.
Obiettivo dell’assalto strategico affidato alla Nato: porre sotto totale controllo quello che è il tallone d’Achille della Cina, e cioè la sua dipendenza strategica dalle enormi quantità di petrolio greggio e gas che vengono importate dall’estero.
Oggi la Cina è il secondo maggior importatore mondiale di petrolio dopo gli Stati Uniti e la distanza tra i due si sta rapidamente colmando.
«Se diamo un’attenta occhiata ad una cartina dell’Africa e poi osserviamo l’organizzazione in Africa del nuovo African Command (Africom) del Pentagono, il quadro che ne emerge è quello di una strategia accuratamente predisposta per controllare una delle più importanti fonti strategiche della Cina per l’approvvigionamento di petrolio e materie prime». Sbarrare l’accesso cinese al petrolio, aggiunge Engdahl, significa controllare direttamente la Cina.
Secondo i dati del 2006, la Libia possedeva le più ampie riserve petrolifere accertate di tutta l’Africa, superiori di circa il 35% a quelle della stessa Nigeria.
In anni recenti, concessioni petrolifere erano state accordate a compagnie cinesi, russe e di altri paesi.
Non c’è da sorprendersi se ora i “ribelli” di Bengasi spalancano le porte alle compagnie occidentali ma frenano, avanzando «riserve politiche», su Russia, Cina e Brasile, cioè i paesi che all’Onu si sono opposti all’attacco della Nato.
E ora il passo successivo: la demonizzazione sistematica di Pechino.
«Nel giro di due o forse di cinque anni, a seconda di come il resto del mondo reagirà o giocherà le sue carte – scrive Engdahl – la Repubblica Popolare Cinese verrà dipinta dai media di regime dell’Occidente come una nuova “Germania hitleriana”.
Se questa sembra oggi una cosa difficile da credere, si pensi a come ciò è stato fatto con altri ex alleati di Washington quali l’Egitto di Mubarak o lo stesso Saddam Hussein».
Dipingere la Cina come il nuovo “nemico” è stato complicato, ammette l’analista di “Global Research”, visto che Washington dipende dalla Cina per l’acquisto della maggior parte del debito governativo americano, sotto forma di buoni del Tesoro.
Eppure il Pentagono ha già lanciato l’allarme ad agosto, spiegando che la potenza tecnologica cinese, ormai anche militare, sta crescendo fino a preoccupare la superpotenza americana.
«La stessa efficiente macchina di propaganda del Pentagono, guidata dalla Cnn, dalla Bbc, dal “New York Times” e dal “Guardian” londinese, riceverà da Washington l’ordine discreto di “dipingere a fosche tinte la Cina e i suoi leader”».
Pechino, aggiunge Engdahl, sta diventando troppo forte e troppo indipendente per i gusti di molte persone a Washington e a Wall Street.
Impressionante, del resto, la recente penetrazione cinese in Africa: da quando il suo futuro fabbisogno energetico è divenuto evidente, la Cina è diventata uno dei principali partner economici del continente nero, in un crescendo che ha raggiunto l’apice nel 2006, quando Pechino ha letteralmente srotolato il tappeto rosso ai capi di oltre 40 nazioni africane, discutendo con essi un ampio ventaglio di questioni economiche.
La Cina si è spostata in paesi che erano stati virtualmente abbandonati da ex potenze coloniali europee, quali Francia, Inghilterra e Portogallo.
Un caso emblematico è il Ciad, appena a sud della Libia, dove nel 2007 il gigante petrolifero cinese Cnpc progettò una raffineria e due anni dopo avviò la costruzione di un oleodotto lungo 300 chilometri.
Le attività petrolifere della Cina in Ciad sono straordinariamente simili ad un altro grande progetto petrolifero cinese, realizzato in quella che era all’epoca la zona sudanese del Darfur, ai confini col Ciad.
Nel 1998, continua Engdahl, la Cnpc iniziò a costruire un oleodotto di 1500 chilometri che andava dai giacimenti del Sudan meridionale fino a Port Sudan sul Mar Rosso, e allo stesso tempo iniziò a costruire una grande raffineria vicino Khartoum.
Il Sudan fu il primo, grande progetto petrolifero d’oltremare realizzato dalla Cina. All’inizio del 2011, il petrolio del Sudan, proveniente quasi tutto dal sud agitato dalle guerre, garantiva circa il 10% delle importazioni petrolifere cinesi e rappresentava oltre il 60% della produzione quotidiana di petrolio del Sudan (490.000 barili).
Il Sudan è diventato un punto vitale per la sicurezza energetica nazionale della Cina: proprio per questo è stato spezzato in due con la secessione, sottraendo al controllo cinese il sud ricco di petrolio.
«Secondo le prospezioni geologiche, il sottosuolo che va dal Darfur (in quello che era un tempo il Sudan meridionale) fino al Camerun, passando per il Ciad, è un unico, immenso giacimento petrolifero, equiparabile forse per estensione alla stessa Arabia Saudita», spiega Engdahl.
«Controllare il Sudan meridionale, così come anche il Ciad e il Camerun, è vitale per la strategia del Pentagono di “impedimento strategico” ai futuri approvvigionamenti petroliferi cinesi». Finché a Tripoli fosse rimasto in carica un regime di Gheddafi stabile e forte, questo controllo sarebbe stato assai problematico.
Quindi: «La simultanea separazione della Repubblica del Sudan Meridionale da Khartoum e il rovesciamento di Gheddafi a favore di deboli bande ribelli sostenute dal Pentagono, era una priorità strategica per il “dominio ad ampio raggio” progettato dagli Usa».
La risposta americana non è fatta attendere e ha impiegato l’Africom, lo speciale comando militare creato da Bush nel 2008 per contrastare l’influenza cinese in Africa.
Già alla fine del 2007, ricorda Engdahl, il super-consigliere Peter Pham (Dipartimento di Stato e Difesa) aveva chiarito che l’obiettivo dell’Africom sarebbe stato quello di «proteggere l’accesso agli idrocarburi e ad altre risorse strategiche che l’Africa possiede in abbondanza».
In altre parole, si sarebbe trattato di «tutelarsi contro la vulnerabilità di queste ricchezze naturali e assicurarsi che nessuna terza parte interessata, come Cina, India, Giappone o Russia» ottenesse «il monopolio di esse o un trattamento preferenziale».
Visione confermata sempre nel 2007 al Congresso: «La Cina importa attualmente circa 2.6 milioni di barili di greggio al giorno, approssimativamente la metà di ciò che consuma; più di 765.000 di questi barili – quasi un terzo delle sue importazioni – provengono da fonti africane, in particolare dal Sudan, dall’Angola e dal Congo (Brazzaville)».
Per Pham, l’Africa è il cuore dello sviluppo strategico cinese.
Ed ecco allora il “domino” che ha investito la regione: prima Tunisi e poi il Cairo, quindi il Sudan, e soprattutto la Libia, crocevia nordafricano saldamente affacciato all’Europa grazie alle infrastrutture italiane dell’Eni.
Così meglio si spiegano le «“Twitter revolutions” finanziate da Washington, nel corso della cosiddetta “primavera araba”», fino alla secessione filo-americana del Sudan meridionale, che nel luglio 2011 «si è portata via il grosso delle ricchezze petrolifere conosciute del paese, cosa che non ha certo fatto piacere a Pechino».
Un coro statunitense: dall’ambasciatrice Susan Rice al presidente Obama, tutti in difesa del “popolo sudanese”, anche se in realtà «la separazione è stato un progetto guidato e finanziato da Washington fin da quando, nel 2004, l’amministrazione Bush decise di farne una priorità», come ricorda Rebecca Hamilton nel suo studio sulla crisi del Sudan citato dal centro del Premio Pulitzer.
Ora il Sudan ha improvvisamente perso la sua principale fonte di guadagno, quella dei profitti petroliferi, continua Engdahl.
La secessione del sud, dove vengono estratti i tre quarti dei 490.000 barili che costituiscono la produzione giornaliera del paese, ha aggravato le difficoltà economiche di Khartoum, eliminando il 37% dei suoi introiti complessivi.
Se le raffinerie sudanesi e l’unico itinerario per l’esportazione si trovano per ora nel nord, non c’è problema: l’ostacolo sarà aggirato.
Il Sudan Meridionale è stato ora incoraggiato da Washington a costruire un nuovo oleodotto per l’esportazione, indipendente da Khartoum, attraverso il Kenya, che resta una delle zone dell’Africa in cui è più forte l’influenza militare americana.
«L’obiettivo del cambiamento di regime orchestrato dagli Usa in Libia, così come quello dell’intero progetto per un Grande Medio Oriente che si cela dietro la Primavera Araba – scrive l’analista di “Global Research” – è quello di assicurarsi il controllo assoluto sui maggiori giacimenti petroliferi conosciuti al mondo, allo scopo di controllare le future politiche di altri paesi, in particolare quella della Cina».
Si dice che, negli anni ’70, l’allora Segretario di Stato Henry Kissinger che all’epoca era probabilmente più potente dello stesso presidente degli Stati Uniti, abbia affermato: «Se si controlla il petrolio, si controllano intere nazioni o gruppi di nazioni».
Per la sua futura sicurezza energetica, la Cina dovrà trovare riserve sicure in casa propria: fortunatamente, conclude Engdahl, esistono nuovi metodi per rilevare e mappare la presenza di petrolio e gas: «E’ forse questo l’unico modo per uscire dalla trappola in cui la Cina è stata attirata».
(William Engdahl è autore di libri come “The Energy Wars” e “Spectrum Dominance: Totalitarian Democracy in the New World Order”. L’intervento integrale “Libia: le vere ragioni della guerra”, è stato tradotto in italiano da Gianluca Freda e pubblicato da “Megachip”).