ATTUALITA

M.R. DI ANNI 15 FA APPELLO AL GOVERNO VENETO CONTRO LE AUTORITA’ STRANIERE ITALIANE.

APPELLO AL GOVERNO VENETO PROVVISORIO:
APPELLO AL GOVERNO VENETO PROVVISORIO DA PARTE DI M.R. DI ANNI 15
Per favore ascoltamenti, vi prego, vi supllico:
gli assistenti sociali e il tribunale di Venezia mi vogliono portare via di casa per mettermi in una Comunità.
Non ho fatto niente di male e neanche la mia famiglia.
Non capisco.
Sto tanto male.
Per favore salvatemi.
Sto bene a casa con la mia famiglia.
Non capisco.
Sto tano male.
Per favore salvatemi.
Io sto bene a casa con la mia famiglia.
Voglio rimanere con loro.
Abbiate pietà.
Non ce la faccio più.
Vi prego il mio cuore non reggerà a lungo.
Mi sento soffocare.
AIUTATEMI.
Nessuno mi ascolta.
Non so più a chi rivolgermi.
M.R.  di anni 15
 

AUSTRIA, CORTE COSTITUZIONALE: BALLOTTAGGIO PER LE PRESIDENZIALI DA RIFARE.

121417280-239e2edb-fe08-41a0-9ab4-6f745ac57ecfDopo il ricorso dell'estrema destra, i giudici hanno annullato per irregolarità il ballottaggio dello scorso 22 maggio in cui aveva vinto il candidato dei Verdi Alexander Van der Bellen.
Il nuovo voto tra settembre e ottobre.
Preoccupazione in Europa per la possibilità che gli ultranazionalisti conquistino la presidenza.
Dopo il primo turno vinto dall'estrema destra e dopo il ballottaggio vinto sul filo di lana dai Verdi, le elezioni presidenziali in Austria si avviano ora verso un terzo atto.
La Corte costituzionale austriaca, infatti, ha deciso questa mattina che il ballottaggio, vinto lo scorso 22 maggio dal candidato ecologista Alexander Van der Bellen, va annullato a causa delle irregolarità verificatesi nelle operazioni di scrutinio.
La Corte si è pronunciata dopo aver esaminato e accolto il ricorso presentato dal partito di ultradestra del candidato Norbert Hofer, sconfitto dallo sfidante per una manciata di voti.
Come annunciato dal ministero dell'Interno austriaco e dallo stesso Van der Bellen, il nuovo voto dovrebbe tenersi tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre, anche se la scelta definitiva della data verrà comunicata martedì prossimo. Secondo il quotidiano Kurier, la data più probabile potrebbe essere il 18 settembre.
La sera del 22 maggio, alla chiusura dei seggi, in base agli exit poll Hofer sembrava in vantaggio, ma il risultato finale uscito dal conteggio di circa 700mila voti per corrispondenza ha decretato la vittoria di Van der Bellen con uno scarto di circa 30.000 voti. Van der Bellen, in pratica, è diventato nuovo presidente dell'Austria con il 50,3 per cento delle preferenze, rispetto al 49,7 per cento di Hofer.
Il Partito della Libertà cui Hofer appartiene, a questo punto, ha deciso di presentare ricorso affermando che nella maggior parte dei 117 distretti elettorali si erano verificate varie violazioni di legge. Prima fra tutte, lo scrutinio dei voti per corrispondenza iniziato prima che i funzionari della commissione elettorale arrivassero. In altri casi, invece, alle operazioni di spoglio avrebbero preso parte persone non autorizzate. Il partito aveva anche affermato di poter dimostrare che al voto avrebbero partecipato ragazzi di età inferiore ai 16 anni e stranieri.

Oggi da Vienna è arrivata la sentenza della Corte, che ha riscontrato irregolarità in 94 distretti. Le schede votate o scrutinate in maniera irregolare sarebbero circa 78mila, numero che supera di gran lunga quello dei voti di distacco tra i due candidati.
Nel corso delle due settimane di udienza dedicata all'esame della questione, i giudici hanno ascoltato circa 90 testimoni, tra cui membri dei seggi di tutto il Paese.
E molti di loro hanno ammesso che spesso non è stata rispettata alla lettera la legge elettorale, in particolare per quanto riguarda i tempi e le modalità del conteggio dei voti per posta.
La Corte ha poi dichiarato illegittima la prassi seguita dal ministero dell'Interno di inviare a stampa e istituti di sondaggistica i risultati locali prima della chiusura definitiva di tutti i seggi.
"Sono fiducioso e ho intenzione di vincere per la seconda volta ", ha detto Van der Bellen.
Nel frattempo, però, si congela il suo insediamento ufficiale previsto per il prossimo 8 luglio.
Non appena il presidente uscente Heinz Fischer lascerà l'incarico, quindi, la presidenza verrà assunta ad interim collegialmente dai presidenti delle due Camere.
Mentre Hofer è pronto a rilanciare la sua campagna elettorale ad agosto e spera di diventare il primo presidente ultranazionalista, anti-immigrati e di estrema destra di uno Stato membro dell'Unione europea.
Un profilo che preoccupa l'Europa, visto che dopo il referendum sulla Brexit lo stesso Hofer aveva dichiarato di essere favorevole a promuovere un identico referendum in Austria: secondo lui, se l'Unione continua ad andare nella direzione sbagliata, è giusto chiedere ai cittadini austriaci un parere sulla permanenza del Paese tra gli Stati membri.

"Le elezioni sono il fondamento della nostra democrazia e il nostro compito è di garantirne la regolarità", ha detto il presidente della Corte costituzionale Gehrart Holzinger prima di leggere il dispositivo con cui è stato accolto il ricorso.
E' la prima volta che viene annullato un ballottaggio in Austria.
"Non ci devono essere dubbi sulla legittimità di nessuna elezione.
La decisione della Corte di ripetere il ballottaggio delle presidenziali non è qualcosa di cui rallegrarsi, ma dimostra che la democrazia e lo stato di diritto funzionano", ha dichiarato il cancelliere austriaco Christian Kern, sottolineando che le elezioni sono state invalidate "per errori formali e non per manipolazioni o brogli".
Kern ha poi aggiunto: "Spero che ora ci sarà una campagna elettorale breve e non emotiva.
Chiedo a tutti i cittadini di esercitare il loro diritto di voto".
Si trincera dietro un laconico no-comment il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker che dice: "E' una decisione della Corte costituzionale di uno Stato membro e noi non interferiamo".
Dall'Italia, intanto, il primo a far sentire la propria voce è il segretario della Lega Matteo Salvini che su Facebook scrive: "Forza amici, verità e libertà alla fine vincono".  
Preoccupazione, invece, viene espressa dal governatore della Provincia autonoma di Trento Ugo Rossi che ha aggiunto: "Il presidente Van der Bellen era attento alle nostre dinamiche istituzionali e per noi era una garanzia in più.
Ma questa è la democrazia e speriamo che l'esito elettorale tenga conto della necessità di non tornare indietro nella storia dell'Europa".
I motivi dell'allarme sono collegati alle tensioni 
tra Austria e Italia scatenate dalla decisione da parte di Vienna di costruire barriere al confine del Brennero in funzione anti-immigrati. Hofer, infatti, è il leader di un partito che sulla lotta all'immigrazione e sulla chiusura delle frontiere ha costruito la campagna elettorale.
Tratto da: (CLICCA QUI)
 
 

GLI ABORIGENI LARRAKIA RICONQUISTANO LE LORO TERRE

L’Australia restituisce 52mila ettari
Pubblicato il 24 GIUGNO 2016
 
Dopo una battaglia durata quasi 40 anni il popolo aborigeno
australiano dei Larrakia ha finalmente riottenuto le sue terre
ancestrali.
Il 21 giugno si è conclusa la più lunga rivendicazione territoriale nella storia dell’Australia, quella di Kenbi (Kenbi land claim). Questa data segna la fine della battaglia, durata 37 anni, del popolo aborigeno Larrakia contro il governo australiano: una lotta per riottenere la titolarità delle loro terre tradizionali.
Per i Larrakia, un popolo aborigeno di duemila anime, questa importantissima vittoria prevede la restituzione di 52mila ettari di terra nel Territorio del Nord, inclusa la contea di Wagait, nei pressi di Darwin.
La richiesta di rivendicazione era stata rifiutata nel 2006, ma nonostante ciò hanno continuato a lottare per i loro diritti fino al 6 aprile di quest’anno, quando è stato raggiunto un accordo.
Durante la cerimonia ufficiale, tenutasi il 21 giugno, il primo ministro australiano Malcolm Turnbull ha affermato che la battaglia è stata una “storia che rappresenta la sopravvivenza e la resilienza dei nostri indigeni australiani”.
L’accordo prevede anche la cessione di altri 13mila ettari di terra che “fornisce i mezzi necessari per lo sviluppo economico di questa popolazione aborigena”, come ha affermato il ministro per gli Affari indigeni Nigel Scullion.
Inoltre, il governo australiano ha promesso 31,5 milioni di dollari australiani (circa 21 milioni di euro) per il recupero dei terreni che sono stati contaminati dalle sue attività.
Jordan Singh, un membro del popolo Larrakia, ha espresso la sua gioia per la vittoria, ma anche la tristezza per i tempi lunghissimi con cui è giunta. Nel discorso che ha tenuto durante la cerimonia ha detto: “Sono felicissimo che dopo 37 anni abbiamo riottenuto le nostre terre.
Ma sono anche molto triste per il fatto che le nostre madri oggi non siano qui”.
La vittoria si inserisce in un contesto più ampio.
Quando gli inglesi hanno colonizzato l’Australia, le terre aborigene erano considerate vuote (terra nullius) e, quindi, sono state espropriate. Il tutto accompagnato da numerosi abusi ai danni degli abitanti.
Questo ha portato a effetti intergenerazionali di lungo termine, ad esempio un numero esagerato di detenuti tra gli aborigeni e la scarsa qualità di vita di questo popolo rispetto al resto del paese.
Il primo ministro australiano Malcolm Turnbull con un ballerino aborigeno © Stefan Postles/Getty Images 
Che sia un nuovo inizio per i Larrakia
Si stanno facendo passi avanti per cercare di invertire questa tendenza di abusi e sofferenze.
Ad esempio, una sentenza emessa dalla Corte suprema australiana nel 1992, il caso Mabo,ha ribaltato il precedente che definiva la loro terra come di nessuno riconsegnandola ai legittimi proprietari.
Il caso Mabo è diventato l’esempio da seguire le successive rivendicazioni territoriali nonostante la maggior parte di queste non si sia conclusa positivamente.
Resta il fatto che il caso Kenbi è un passo avanti non solo per i Larrakia ma per tutti gli aborigeni d’Australia.
Tradotto da CAMILLA SOLDATI
Tratto da (CLICCA QUI) e segnalato da Giovanni Bassan.
 

NON ANDARE A VOTARE E’ UN DOVERE.

NON ANDATE A VOTARE!
NON E' MAI CAMBIATO NULLA
 E NON CAMBIERA' MAI NIENTE.
 
ECCO BUTTATA LA MASCHERA DEL TIPICO LEGHISTA ITALIANO.
Siamo proprio in campagna elettorale e dobbiamo sorbirci anche la morale dei politicanti di turno.
Ecco cosa dice il sindaco italiano leghista di Villorba (Tv):
Immagina una persona che brontola sempre che trova da ridire su tutto, che non è mai contenta e non va a votare.
C'è qualcosa di più molesto per la società?
Il voto è un dovere.
Vota Antonio, vota Mario, vota chi vuoi ma vai a votare.
Il voto è un "dovere civico" sacrosanto e il "dovere di scegliere" è un privilegio di cui andare fieri.
Marco Serena.
Alla domanda di questo politicante rispondo con assoluta certezza.
Di più molesto per la società ci siete proprio voi con i vostri partiti politici.
Perché i Veneti dovrebbero votare a elezioni straniere italiane visto e considerato che i VENETI NON SONO ITALIANI.
Perché il Popolo Veneto dovrebbe essere fiero e ritenere un privilegio votare a elezioni pretese dallo stato straniero occupante, razzista e colonialista italiano?IMG_3940
Il voto è un privilegio e un dovere quando il Cittadino è libero e non sottomesso a uno stato straniero, massonico, mafioso e criminale, qual è lo stato italiano.
Perché continuate a infangare il Gonfalone della Nazione Veneta usandolo per la vostra volgare propaganda elettorale … usate la bandiera della regione veneta italiana … VERGOGNATEVI.
Caro sindaco italiano Marco Serena … sei un amministratore italiano, membro di un partito politico italiano, uno dei principali traditori del Popolo Veneto e della Serenissima Repubblica.
Perché vi ricordate dei Cittadini solo quando vi serve il loro voto?
Come sempre avete bisogno del consenso popolare per perpetuare l'inganno elettorale ma i loro voti servono solo per mantenere in piedi il sistema mafioso e massonico italiano … E VOI SIETE COMPLICI DEL REGIME ITALIANO.
WSM
Venetia, 27 maggio 2015
Sergio Bortotto, Presidente del Movimento di Liberazione Nazionale del Popolo Veneto e del Governo Veneto Provvisorio
Documento
LEGHISTA
italiano

L’ “ABBRACCIO DEI VENETI” AL PRESIDENTE FORESTO TAJAN.

donna veneta a mattarellaPinotti: no ai muri tra Austria e Italia
(e ci mancherebbe, basterà quello tra la Serenissima Repubblica Veneta e l'italia … ma sul pò)
ASIAGO
Il capoluogo altopianese tutto imbandierato del vergognoso massonico tricolore ha accolto il presidente straniero italiano Sergio Mattarella, atterrato all'aeroporto asiaghese.
Poco prima è arrivata, a bordo di un elicottero militare italiano, il ministro della Difesa straniera italiana Roberta Pinotti… chi???
Tantissima gente e stamattina anche traffico in tilt ad Asiago preso d'assalto da molti Veneti… erano in tanti che avrebbero voluto "stringere" le loro mani al collo di queste autorità straniere d'occupazione.
Hanno così optato per i meno "pericolosi" bambini delle scuole, mandati ad accogliere la cariatide presidenziale di turno italiana.
La prima visita e speriamo anche l'ultima di un presidente della Repubblica straniero italianao in Altopiano è iniziata e poi … per fortuna, finita.
I BAMBINI VENETIIl presidente straniero italiano Mattarella, dopo l'arrivo all'aeroporto, si è recato subito al sacrario del Leiten, sul colle che domina Asiago e dove riposano quasi 55mila caduti della Grande Guerra, 35mila italiani e 20mila autroungarici (ma vi rendete conto quante vite sono state spezzate da questa italia maledetta che viene qui ad autocelebrarsi?).
Qui, con il ministro Pinotti, è stato accolto da alcuni applausi e da due ali di folla con centinaia di bandierine tricolori frettolosamente messe in mano ai bambini e sventolate dagli scolari asiaghesi.
La banda del primo Reggimento Granatieri di Sardegna ha erroneamente intonato la marcia "l'entrata dei galdiatori".
All'uscita, prima di salire in auto, Mattarella ha salutato il pubblico stringendo la mano, in particolare, ai bambini delle scuole. che lo hanno accolto con un vociare gioioso e al grido di "Via l'italia dalla Nazione Veneta … non te si el nostro presidente".
Ma pensate … un gruppo di alunni ha anche intonato l'inno di … l'inno di … di … di Mameli … di chi???
Ecco come avrebbe dovuto essere l'articolo pubblicato da Luca Pozza apparso QUI.
— 
Questo MLNV e il Governo Veneto Provvisorio avevano preparato un'adeguata accoglienza alle famigerate autorità d'occupazione straniere italiane, riservando loro 
un palco di tutto rispetto per i crimini di cui si è macchiata la loro italia con la sanguinosa guerra di aggressione all'Austria/Ungheria con la prima guerra mondiale.
Siate maledetti nei secoli a venire voi e la vostra progenie.
Sperando che i morti, i feriti, la distruzione e la disperazione portata in terra Veneta, per la vostra sordida ambizione espansionistica, vi perseguiti per sempre … noi lo faremo appena possibile.
 
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AUSTRIA: CENTOMILA VOTI ANNULLATI A HOFER.

Austria-estrema-destra-620x264Austria, 100.000 voti annullati a Hofer.
Il giornale Kronen Zeitung: “Errori a favore dei verdi
Sempre più evidenze di probabili brogli nelle elezioni presidenziali austriache.
Il giornale austriaco Kronen Zeitung ha riferito di diversi ‘errori’ del computer: tutti a favore del candidato del Sistema.
Secondo il giornale, le schede inviate per posta sono notoriamente facili da manipolare e soggette ad ‘errori’.
A parte questo.
E gli strani numeri dei quali abbiamo già parlato, ecco la scandalosa vicenda dei voti annullati.
E’ normale, in tutte le elezioni, che vi siano schede annullate per errori vari.
Ovunque, il numero delle schede annullate non varia da candidato a candidato in termini statisticamente significativi.
Ma in questo caso si è assistito a circa 100.000 schede annullate per Hofer, mentre solo 64.000 nel caso del candidato eurofilo.

Una differenza di quasi 36 mila schede che non ha alcun senso, se non visto con la lente dei brogli.
Con quei voti in più, Hofer avrebbe avuto nei voti espressi nei seggi un margine sufficiente a vincere nonostante la ‘posta’.
Ma forse, in quel caso, i voti per posta sarebbero magicamente aumentati.
Tratto da (CLICCA QUI)
 

AUTRIA … ALTRI BROGLI ELETTORALI?

Austria-elezioni-620x264Austria, si allarga lo scandalo brogli al ballottaggio: nella città di Linz affluenza del 598%!!

Sempre più insistenti le accuse di brogli, per le elezioni presidenziali austriache, lo confermano i media austriaci qui e qui.
Il segretario del Partito della Libertà austriaco, Herbert Kickl aveva accusato: “Complici del sistema politico attuale potrebbe potenzialmente usare la possibilità di modificare il risultato a favore del rappresentante del sistema, Alexander Van der Bellen”.
Sulla sua pagina Facebook, il leader del Partito della Libertà, Heinz-Christian Strache, ha evidenziato le ‘incoerenze’ a Linz e Waidhofen.

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Anche se ci sono stati solo 9.000 persone registrate a votare nella piccola comunità rurale di Waidhofen, in Bassa Austria, quelli la partecipazione al voto è stata di 13.000 votanti: miracolo!
Ma ancora più clamoroso è il caso della città di Linz, dove si è verificato un incredibile 598 per cento di affluenza alle urne, nel caso di voto ‘per conto terzi’: si tratta di persone malate che danno la procura ad altre per votare al posto loro.
Invece dei 3.580 votanti registrati, ne sono stati contati 21.060!
Il Sistema ha già perso.
Ormai è marcio.
Ovunque in Europa: dobbiamo solo abbatterlo.
E riprenderci quello che è nostro: che è sempre stato nostro.
E ributtare in mare lo schifo che hanno raccattato in questi ultimi anni.
Avanti!
 

BROGLI ALLE ELEZIONI AUSTRIACHE? IN UN COMUNE AFFLUENZA AL 146%!

1461512203-ansa-20160424172526-18732256Sul sito del ministero il conteggio dei voti supera quello dei votanti. In molti, dopo la vittoria del candidato dei Verdi, hanno avanzato l'ipotesi di brogli elettorali
 – Mar, 24/05/2016 – 15:35
Non sono pochi gli elettori austriaci a gridare allo scandalo per "brogli elettorali" alle ultime presidenziali.
 
I fan di Norbert Hofer, il candidato di destra risultato sconfitto per colpa dei voti per corrispondenza, pensano che qualcosa sia andato storto.
Numeri "anomali" nel conteggio che ha incoronato l'ecologista Alexander Van der Bellen presidente d'Austria.
I focolai di protesta sono stati incoraggiati da una notizia pubblicata dal quotidiano austriaco heute.at sulla versione online, poi ripresa anche nell'edizione cartacea odierna.
Un articolo nel quale viene evidenziato un dato "irregolare" riferito agli scrutini che ieri hanno consegnato la vittoria ai Verdi.
Nel collegio "Waidhofen an der Ybbs", infatti, l'affluenza al voto è stata del 146,9%.
Più i votanti degli aventi diritto: 13.262 quelli che si sarebbero recati alle urne contro i soli 9.026 che avrebbero potuto partecipare alla consultazione elettorale.
Il risultato nel collegio è stato tutto in favore di Van der Bellen, che ha collezionato il 52,7% (6.621 voti) contro il 47,3% del candidato di destra, Hofer (5.938 voti).
Quasi sicuramente si tratta di un errore del sistema di conteggio.
O probabilmente qualcuno ha sbagliato a inserire i dati.
Intanto il ministero dell'Interno austriaco ha "bloccato la pubblicazione dei risultati elettorali fino al primo giugno", percisando che anche qualora cambiasse il conteggio sul distretto, il responso non intacchrebbe la vittoria finale di Van der Bellen.
Lo scarto così basso (appena 31mila voti) tra i pretendenti al trono della presidenza dell'Austria ha alimentato però molti sospetti.
Sono tantissimi gli elettori di Hofer che invitano il loro leader a fare ricorso contro il risultato finale uscito dalle urne.
Che però il candidato della destra non ha raccolto, riconoscendo per il momento la sconfitta.

Tratto da (CLICCA QUI)

E L’AVVOCATO DELLA LUNA SOSTIENE LA SFIDA A GIUDICI E BANCHIERI DI MARRA

AVVOCATO MARCO DELLA LUNAFa scalpore se un magistrato o un membro del CSM dice che bisogna fermare Renzi e la sua riforma costituzionale.
Dovrebbe per contro far scalpore che chiunque abbia giurato fedeltà alla Costituzione, magistrtati e militari innanzitutto, non faccia quanto in suo potere per fermarli entrambi, dato che la riforma Renzi stravolge l’impianto della carta fondamentale, abolisce la stessa separazione dei poteri dello Stato concentrandoli nel premier, mentre la Costituzione, art. 138, ammette solo revisioni, cioè ritocchi e aggiornamenti, non trasformazioni, tantomeno radicali, e ancor meno se fatte da una maggioranza parlamentare che sussiste solo in forza di una legge maggioritaria già dichiarata essa stessa incostituzionale.
Fermare Renzi è dunque un preciso dovere giuridico di chiunque abbia giurato fedeltà alla Costituzione – un dovere sulla carta, che si traduce in niente sul piano dell’agito pratico, a conferma del costante dato empirico, ossia che gli organi giudiziari e gli altri “tutori della legge” servono a difendere non la legalità, ma le apparenze di legalità dell’ordinamentoreale del potere, cioè la legittimità di facciata, nascondendone le pratiche e gli interessi, che seguono leggi non dichiarate e contrarie a quelle ufficiali.
In cambio di questo servizio, la categoria dei magistrati riceve privilegi invidiabili.
Ma guai a quelli di loro che non stanno a al gioco.
In effetti, nel complesso, il potere giudiziario in Italia non ha mai colpito alla radice la corruzione e la mafia: ha mirato agli effetti e non alle cause, alle singole manifestazioni ma non alla struttura, anche quando ha agito in modo di eliminare i partiti storici popolari escluso il PCI, e ogni altra volta in cui ha svolto un pesante ruolo politico, suscitando entusiasmo e solidarietà popolari. Mani Pulite non ha risanato nulla, anzi…
Renzi e la Boschi hanno dietro il potere forte, cioè la casta bancaria, che infatti comprende anche i loro padri nonché il Verdini; questa casta, con la suddetta riforma e la nuova legge elettorale, vuole concentrare tutti i poteri dello Stato nella persona del suo fiduciario, così da poter disporre impunemente come vuole del Paese e dei risparmi e i redditi degli Italiani, come abbiamo visto nei recenti disastri di numerose banche, MPS in testa.
Berlusconi non aveva la classe bancaria dietro di sé, quindi molti più magistrati proclamavano liberamente e senza destare scalpore che egli era un pericolo per la Costituzione e bisognava fermarlo, anche se in realtà non attentava affatto all’impianto costituzionale, al contrario di Renzi oggi.
Vi sono non pochi magistrati che sfidano il potere politico della casta bancaria dichiarando la nullità delle clausole comportanti interessi usurari o indebitamente anatocistici nei contratti finanziari. Però anche in fatto di banche nessun magistrato, che io sappia, è disposto ad andare alla radice dell’illecito, ossia al fatto che l’emissione dell’Euro (valuta legale) è per legge monopolio della BCE, e che, ciononostante, le banche ordinarie creano ex nihilo, cioè mediante semplice scritturazione elettronica, nell’atto di erogare prestiti o eseguire pagamenti, masse monetarie denominandole falsamente “Euro”, e per giunta non le contabilizzano come ricavi e le sottraggono all’imposizione fiscale.
Grazie a questa illegale prassi, la classe bancaria si è impadronita della politica e delle istituzioni.
Come avvocato, ho formalmente sottoposto questo problema di legalità, e altri connessi, a numerosi magistrati, oramai, e tutti lo hanno eluso, o facendo finta che non l’avessi sollevato, o ricorrendo a pretesti talvolta infantili, o arrampicandosi sugli specchi.
E’ come quando Galileo invitava cardinali e teologi a guardare nel telescopio per convincersi che la Terra orbita intorno al Sole e che la Luna è un corpo materiale, ma essi rifiutavano di guardare la realtà perché riconoscerla era contrario ai loro interessi, legati alle false dottrine filosofico-cosmologiche della Chiesa.
Rifiutarono finché la diffusione del telescopio e delle cognizioni di astronomia reale resero la loro posizione insostenibile e ridicola, sicché dovettero “convertirsi” per non perdere ogni residua credibilità.
Con gli interessi dei banchieri e la loro prassi di creare denaro, però, i magistrati sono costretti a stare molto più cauti di quanto erano i cardinali al tempo di Galileo, perché i cardinali, l’alto clero, erano il vertice della società e del potere, mentre i nostri magistrati non lo sono: l’alta finanza, attraverso la politica che tiene in pugno, potrebbe molto facilmente schiacciare la loro ribellione e privarli dei loro invidiabili privilegi, se i giudici osassero guardare nel telescopio anziché sostenere, come fanno a tuttora, la frottola ufficiale che i banchieri siano solo intermediari del denaro e non lo creino.
Pertanto, seppur formalmente e giuridicamente fondatissimo, l’appello dell’amico Gino Marra ai magistrati affinché pongano fine alle prassi illecite dei banchieri e addirittura li arrestino, deve fare i conti con rapporti di forza materiale che non permettono ai magistrati di fare il loro teorico dovere, quand’anche ne abbiano voglia e interesse.  
La lobby dei magistrati italiani ha sì la forza per contrattare con la partitocrazia nazionale la tutela dei propri interessi, ma non certo di misurarsi col potere della grande finanza, che è un potere globale. E’ ridicolo solo pensarlo.
Tuttavia, se i mass media ne divulgheranno la conoscenza, se l’opinione pubblica capirà di che si tratta, se glie ne importerà qualcosa, se scoppierà lo scandalo, se non interverranno subito la Fed, la BCE, il FMI e gli altri manipolatori dei liberi mercati per normalizzare la situazione, se l’effetto morale non sarà solo di aumentare la diffusa rassegnazione e la realistica sfiducia nelle istituzioni – allora Gino Marra festeggerà la sua vittoria.
07.05.16 Marco Della Luna

L’AVVOCATO ALFONSO LUIGI MARRA SFIDA GIUDICI E BANCHIERI

(segnalato e proposto da Giovanna Bassan)
23 MAGGIO 2016 A ROMA
Sosteniamo l’avvocato Gino Marra nella sua decisiva azione per l’interesse di tutti.
L’avvocato Alfonso Luigi Marra ha indetto per il 23 Maggio prossimo una manifestazione dinnanzi alla Procura della Repubblica di Roma, a piazzale Clodio, per chiedere la confisca delle quote private di Banca d’Italia e restituirle al popolo italiano.

Alfonso Luigi Marra - CopiaSe non siete informati circa l’iniziativa dell’avv. Marra, leggetevi questo articolo su nocensura.com prima di proseguire la lettura. Banca d’Italia attualmente in mano ai banchieri privati
Come noto, il 95% delle quote della Banca d’Italia sono in mano a banchieri privati, come indicato chiaramente anche nella schedaWikipedia di Banca d’Italia.
Questo fatto, che passa inosservato nonostante sia molto grave, è emerso solo recentemente, negli ultimi 10 anni, in quanto in passato i proprietari delle quote di Banca d’Italia erano mantenuti segreti, coperti da ‘omissis’ anche sui documenti ufficiali.
Se consideriamo che Banca d’Italia dovrebbe controllare l’operato delle banche, è evidente come il “controllato” sia anche il “controllore”… e su questo ci sarebbero molte cose da dire.
Ma la cosa più grave è che in questo modo i banchieri privati gestiscono l’emissione monetaria.
Banchieri privati proprietari della BCE.
I banchieri privati che gestiscono il 95% delle quote di Banca d’Italia, possiedono anche il 12,3% delle quote della BCE che appartengono alla BdI, come risulta anche sulla scheda wikipedia della Banca Centrale Europea.
Le altre quote della BCE, sono possedute dalle banche centrali degli altri paesi europei, che a loro volta, esattamente come in Italia, sono in mano a banchieri privati.
Questo comporta che sono i banchieri privati a gestire l’emissione monetaria.
Emettono moneta e la PRESTANO alle nazioni, che ottengono liquidità emettendo titoli di stato.
La BCE emette denaro e lo presta, ad un tasso di interesse molto basso, alle banche private, che investono sui titoli di stato e ne ricavano sostanziosi interessi, strozzando le nazioni, sempre più indebitate.
SOLO A TITOLO DI INTERESSI SUL DEBITO PUBBLICO, l’Italia paga ogni anno 90-100 miliardi di euro!
Debito pubblico che non è dovuto agli sprechi e alle ruberie della politica, come ci hanno sempre voluto far credere i media ed i politici, distogliendo l’attenzione dal sistema bancario, economico e monetario. Sprechi e ruberie sono state finanziate con il progressivo innalzamento della pressione fiscale, non hanno niente a che vedere con il debito pubblico, originato dalla cessione della sovranità monetaria in favore dei banchieri privati.
Evitiamo di lasciare solo l’avvocato Marra
L’iniziativa dell’avv. Marra è molto importante, la questione del signoraggio bancario è molto seria, ma è fuori dall’agenda di tutti i politici, censurata da tutti i mass media.
Nessuno in Italia ha il coraggio di affrontare questo tema con la forza e la spregiudicatezza di Marra, che con questa operazione vuole mettere sotto pressione la magistratura, spronandola ad intervenire. Un’iniziativa coraggiosa.
Se all’iniziativa di Marra saranno presente un buon numero di persone, la questione può quantomeno guadagnare visibilità.
Purtroppo però, fino a questo momento solo poche personalità e blogger hanno espresso sostegno a questa importante causa.
Si sono schierati in favore di Marra l’avv. Marco Della Luna, che ha confermato la “fondatezza giuridica” delle tesi di Marra, il blog Nocensura.com, la radio LDR (vedi video di seguito) e pochi altri piccoli movimenti che si occupano di signoraggio bancario.
Dove sono tutti gli altri blog di contro-informazione?
Dove sono tutti quei piccoli politicanti “dissidenti” che dicono di contrapporsi al sistema, allo strapotere delle banche centrali?
Dove sono i vari aspiranti politici che parlano dell’Euro, ma non della questione monetaria e di signoraggio?
Perché sedicenti blog di contro-informazione non danno visibilità ad una iniziativa come quella di Marra?
Se frequentate blog e pagine di questo tipo, fate presente loro la questione e chiedete di dargli visibilità.
Se non lo faranno, sappiate che evidentemente questi blog, non sono “dissidenti” come vorrebbero far credere …
Tratto da: veritanwo – Attraverso: http://ununiverso.altervista.org
 

AUSTRIA: SI DIMETTE IL CANCELLIERE SOCIALDEMOCRATICO

131450279-9c1a0f09-af83-4e00-a8d7-079fe0e04cf5Lascia Werner Faymann dopo la pesante sconfitta del suo partito contro l'estrema destra xenofoba al primo turno delle presidenziali.
Era in carica dal 2008, sua la "firma" per la barriera "anti migranti" al Brennero.
Pronta la nomina del capo del governo ad interim, il conservatore Mitterlehner: "No a elezioni anticipate"
Austria,
dopo la vittoria della destra xenofoba (chissà perchè la destra è sempre xenofoba), si dimette il Cancelliere "moderato"  Werner Faymann, che però aveva dato il via libera al "muro anti-migranti al Brennero.
Il suo partito,  il socialdemocratico, aveva subito una pesante sconfitta elettorale alle ultime presidenziali.
Per questo Faymann ha anche annunciato le sue dimissioni da leader del partito socialdemocratico.
L'addio arriva mentre si avvicina il ballottaggio del 22 maggio alle presidenziali dove, per la prima volta, sono rimasti esclusi i grandi partiti tradizionali, popolari e socialdemocratici:  la sfida sarà tra Norbert Hofer del partito della destra anti immigrati Fpoe, vero trionfatore, e, più indietro, il candidato dei Verdi Alexander Van der Bellen.
E il governo ora è nel caos. I partiti socialdemocratico (Spoe) e conservatore (Oevp) governavano insieme dal 2008 in una grande coalizione guidata da Faymann.
Le prime pesanti crepe sulla tenuta del governo si erano aperte lo scorso 24 aprile, quando al voto erano stati chiamati 6,4 milioni di austriaci. Il favorito al primo turno delle presidenziali sembrava essere Van der Bellen, economista di 72 anni che tra il 1997 e il 2008 ha guidato il partito ecologista e progressista dei Verdi, ma invece tutto si è ribaltato.
Ha stravinto Norbert Hofer, uomo ultranazionalista, euroscettico e anti-immigrazione e, per la prima volta dal Dopoguerra, fuori dalle elezioni presidenziali sono finiti proprio i grandi partiti tradizionali, i popolari e i socialdemocratici, di cui Faymann era espressione congiunta.
L'annuncio delle dimissioni  è arrivato durante una conferenza stampa convocata frettolosamente, in cui il Cancelliere ha sottolineato anche che "avere la maggioranza (nel partito) non è abbastanza". Faymann, fino ad oggi alla guida di un esecutivo moderato centrista, è finito sotto pressione da parte soprattutto dai sindacati e dall'ala giovanile del suo partito, per il risultato deludente di Spo nelle recenti elezioni presidenziali e anche per la linea dura adottata sulla questione migranti – il suo governo aveva dato il via libera alla realizzazione della barriera al Brennero – e sul giro di vite nel diritto d'asilo. Provvedimenti che comunque non hanno portato più consensi al governo socialdemocratico.
E, dopo il successo di Hofer al primo turno delle presidenziali, diverse voci si erano alzate nel partito contro chiedendo le sue dimissioni.
"Questo governo ha bisogno di ripartire nuovamente con forza", ha detto Faymann, dopo un incontro con i leader del partito, aggiungendo:  "Quando si ha l'onore di essere cancelliere dell'Austria per 7 anni e mezzo si dice grazie, con profonda convinzione".
E Faymann ha difeso i risultati ottenuti durante i suoi mandati con la Grosse Koalition viennese: in primo luogo la tenuta dell'Austria durante la crisi finanziaria, e subito dopo la sua gestione della crisi dei profughi.
"È una grande sfida, che lo scorso anno abbiamo gestito assieme a Germania e Svezia – ha ricordato Faymann – centinaia di migliaia di profughi sono arrivati in Austria, il 95% ha proseguito altrove".
Faymann ha rimarcato il contributo di Vienna ("abbiamo dato asilo a oltre 90.000 persone"), ma ha poi detto che "all'inizio dell'anno è apparso chiaro che la soluzione europea non faceva progressi".
Da qui, a suo avviso, la necessità di prendere atto della nuova situazione: "Sarebbe stato poco responsabile non mettere in campo misure nazionali, non perché siano migliori ma perché le richiede la realtà", ha detto.
Queste misure hanno "suscitato molta resistenza, non da ultimo anche nel mio stesso partito", ha concluso il socialdemocratico dimissionario.
E sarà il vice-cancelliere del partito popolare Oevp, Reinhold Mitterlehner ad assumere l'interim.  
Il presidente della Repubblica Heinz Fischer accetterà nel pomeriggio le lettera di dimissioni di Faymann e darà l'incarico di cancelliere ad interim a Mitterlehner che ha già una sua linea: mantenere la stabilità nella grande coalizione di governo e "nessun motivo per anticipare le elezioni, previste per il 2018".
 

ITALIA, CANCELLO APERTO ALL’INVASIONE DI MIGRANTI IN EUROPA.

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"Mentre la rotta migratoria che attraversa l'Egeo, la Grecia e i Balcani va via via assottigliandosi per effetto del controverso accordo tra Unione Europea e Turchia, i paesi del Nord Europa paiono convinti che l'Italia sara' il cancello aperto da cui penetrera' la prossima grande invasione di migranti nel Continente".
Lo si trova scritto in prima pagina oggi sul quotidiano americano Washington Post, alfiere del giornalismo impegnato americano, reso celebre per essere riuscito perfino – con le proprie inchieste – a far dimettere un presidente degli Stati Uniti: Richard Nixon.
"Per il momento – sottolinea in questo articolo d'analisi Washington Post – questi timori non trovano un forte riscontro nei dati concreti: dall'inizio dell'anno sono approdati in Italia circa 28 mila migranti, un numero paragonabile a quello del 2015, che però e' stato di emergenza.
L'Austria, tuttavia, cita l'ammassamento di un milione di potenziali migranti in Libia a giustificazione dei suoi piani di blindare" il valico del Brennero, principale arteria di collegamento del paese alpino con l'Italia".
E questo numero impressionante quanto catastrofico trova riscontro da fonti locali libiche, che denunciano una situazione "incredbile" di centinaia di migliaia di africani arrivati ed in arrivo in Libia per poi tentare l'approdo in Italia.
"La Francia e soprattutto la Germania hanno espresso solidarietà a parole all'Italia, che denuncia l'iniziativa di Vienna come "a-storica" e dettata da esigenze politiche ed elettoralistiche.
Nel frattempo, però . sottolinea il Washington Post –  anche quei paesi si sono affrettati a chiedere e ottenere dall'Ue una proroga semestrale ai controlli straordinari imposti alle frontiere".  
E questo è in tutta evidenza un doppiopesismo ai danni dell'Italia.
"Ma i politici austriaci – aggiunge il Washington Post – non paiono disposti a scendere a compromessi: "Non possiamo diventare lo Stato sociale dell'Africa", ha recentemente dichiarato al quotidiano Usa Rudi Federspiel, leader regionale del Partito della liberta' austriaco, formazione nazionalista che appare ormai maggioritaria nel paese.
Federspiel ha sottolineato come la maggior parte dei migranti che arrivano nel paese siano "islamici, non cattolici romani", e come l'immigrazione stia causando gravi problemi sociali".
E qui, su questo tema, il Washington Post non si tira indietro: "Ci sono stupri, stupri nelle citta'.
Stupri ovunque.
E questo perche' i maschi islamici non hanno alcun rispetto per la donna.
Non sono in alcun modo compatibili con gli europei", ha tuonato il politico austriaco.
L'Italia si trova in una posizione scomoda, ma non nuova: nel 2014, prima che la crisi investisse la Grecia, proprio il Belpaese era considerato il "ground zero" dell'epocale flusso migratorio diretto in Europa.
Di fronte alle barriere erette dai paesi vicini, il governo del premier italiano Matteo Renzi prova a giocare la carta della ragionevolezza – conclude il quotidiano americano.
Ragionevolezza che però è sinonimo di invasione, di "cancello spalancato" per l'invasione dell'Europa da parte di milioni di disperati capaci di tutto.
"Reggerà l'Italia sotto questa tempesta di migranti che si prepara per l'estate in arrivo? – si domandano a Washington.
E anche moltissimi italiani in Italia.
Redazione Milano
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PALMIRA: DOVE PRIMA TUONAVANO I CANNONI ADESSO RISUONANO LE SINFONIE DI BACH

PALMIRAThe Economist: dove prima tuonavano i cannoni adesso risuonano le sinfonie di Bach
Dalle prime note di Bach, suonate dai musicisti dell’orchestra del Teatro Mariinski nella Palmira liberata, si è chiaramente notata la linea di demarcazione tra la barbarie dei terroristi che vi regnavano prima e la civiltà, a difesa della quale è corsa la Russia.
Il concerto [di giovedì 5 maggio, ndr Nexus] dell'orchestra diretta da Valerij Gergiev, direttore di fama mondiale del Teatro Mariinski di San Pietroburgo è stato il coronamento della campagna per la liberazione di Palmira dai terroristi del Daesh.
Questa iniziativa, nota l'Economist, è stata così brillante che ogni ascoltatore non avrebbe potuto nascondere la sua gioia e il suo entusiasmo.
La musica a Palmira sembrava un frammento surreale sullo sfondo del consueto paesaggio siriano, un paese devastato dalla guerra, aggiunge l'Economist.
A Latakia la vita normale è come se non si fosse mai fermata: per le strade passeggiano ragazze elegantemente vestite, sulle bancarelle per strada si impolvera la frutta, e tutto questo sotto lo sguardo di un sorridente Bashar al-Assad riprodotto su numerosi cartelloni pubblicitari.
Avvicinandosi a Palmira tutto riporta alla mente la guerra.
Per le strade dei villaggi segnati dalle bombe si trovano carcasse di automobili, completamente bruciate, cavi della linea elettrica spezzati che pendono su casse vuote di munizioni.
La ricerca non è cessata: secondo diverse comunicazioni, i militanti del Daesh si sarebbero ritirati a soli 15 chilometri da Palmira.
«Il destino del soldato russo è salvare la cultura dalla distruzione fascista in tutti i tempi»
ha affermato il ministro russo della Cultura, Vladimir Medinskij, presente alla manifestazione, riportate dall'Economist.
Il 5 maggio si è tenuto a Palmira un conerto dell'Orchestra Sinfonica del Teatro Mariinsky di San Pietroburgo diretta da Valerij Gergiev.
L'evento è stato dedicato alla memoria dei difensori della città, tra cui il deceduto ufficiale russo Alexander Prokhorenko.
Presso il sito dell'antico anfiteatro hanno risuonato le opere di Johann Sebastian Bach, Prokofiev e Shchedrin. 
L'antica Palmira, inclusa nella World Heritage List dell'UNESCO, per quasi un anno è stata sotto il controllo del gruppo terroristico Daesh.
L'esercito siriano, sostenuto dall'aeronautica militare russa, ha liberato la città il 27 marzo.
Circa l'80% della parte storica di Palmira si è conservata.
Gli esperti ritengono che il restauro della città può richiedere circa cinque anni.
Notizia tratta da Sputnik Italia
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LA FINE DELLA FOLLIA

black-tulipPubblicato da redazione in Il Frank,  9 maggio 2016
La FED ha avuto negli ultimi due anni un profitto record: 100 miliardi di dollari.
Lo stato italiano, paga interessi per 80 miliardi di euro l’anno (basterebbe che lo stato pagasse la stessa cosa delle banche e gli interessi sarebbero di 10 miliardi, altro che tagliare le pensioni e  altro che le tasse sono giuste…).
La domanda è: perché?
Come fa la FED ad avere i profitti di uno stato? Cioè, un paio di migliaia di persone fanno il profitto di uno stato?
È questa l’illusione che il mondo della finanza ha generato: gli stati non servono, l’economia reale non serve, la politica non serve e neppure le elezioni e ci sono dubbi fortissimi che la gente serva!
Tutto ciò che serve sono le banche centrali!
Il giochino di indebitare tutti, “SEMBRA” aver funzionato.
Dico sembra, perché tutti fanno finta che il sistema possa avere la forza per riprendersi, ma, anche qui, la storia dice che giunti ad una certa fase, non esiste nessuna forza del sistema capace di invertire il trend.
Tanto tempo fa, agli albori del capitalismo in Olanda, la storia ci mostra il fenomeno odierno nella stessa modalità…
Siamo agli inizi del 1600, per la precisione il 1624; un mercante olandese riceve un carico di merci proveniente dall’oriente.
Insieme alle sete e ad altri articoli, c’è un sacchetto iuta contenente delle “cipolle”.
Non sapendo cosa fossero quelle strane cipolle decise di mangiarle.
Le condì con olio sale e aceto e… Minchia Johnny: erano schifose… puahhh.
Gettò quindi la rimanenza nell’orto.
Dopo qualche tempo le cipolle diedero come risultato uno strano fiore: “il Tulipano”.
Fu una novità, botanici di tutto il paese vennero e rimasero stregati… ma il fascino di questo fiore aristocratico si diffuse nel paese ad ogni livello.
Gli olandesi dell’epoca, volevano ognuno prodursi quel fiore, per cui le cipolle di tulipano erano al centro di ogni scambio nella “casa dei mercanti Van Der Beurse” (da cui si dice derivi il termine borsa).
Grazie alla capacità del tulipano di cambiare colore facilmente in base al terreno di coltura, se ne produssero migliaia di tipi, di ogni colore.
Ogni famiglia olandese voleva acquistare “cipolle di tulipano” e in pochi anni i prezzi andarono alle stelle.
Le persone si indebitavano, vendevano la casa per comprare bulbi…
Le cronache dell’epoca riferiscono di transazioni incredibili…
Un muratore di allora aveva una paga annuale di 300 Fiorini, un bulbo di qualità “VICERE’ ” costava 2500 Fiorini !
Fu un quindicennio di follia, come il periodo attuale, ma nel 1637, il 5 Febbraio, il mercato crollò.
Sarà cosi anche stavolta, i segnali Orso, sono già evidentissimi, le aziende non riescono più a pagare gli interessi sul debito contratto.
Il Buy-back, quella operazione che consiste nel prendere a mutuo milioni di dollari, usarle poi per acquistare le azioni della propria azienda e farne salire il prezzo delle azioni, per incassare quindi il guadagno, non si può più fare.
Ci stanno gia perdendo.
E, c’è di peggio: una intera generazione di managers rincitrulliti finalmente verrà terminata.
Sono i manager del taglio dei costi.
Immaginate uno di questi manager, posto a dirigere una centrale nucleare… questo taglierà sui costi della sicurezza dell’impianto, tanto non serve…
Ecco, la follia è alla fine!
 

LE “TRUPPE” DI SOROS ALL’ASSALTO DEL BRENNERO

No-Borders-manifestazioneBolzano.
Nella giornata di Ieri, la Frontiera del Brennero, un lembo di Europa, tra Italia e Austria, diventato un simbolo per i militanti del movimento “No-border”, si è trovato al centro di un assalto che ha provocato danni, feriti tra le forze dell’ordine ed ore di tensione in tutta la zona.
I gruppi anarchici e black bloc sono arrivati al Brennero da tutta Europa.
Grazie ai mezzi finanziari forniti dal miliardario ebreo statunitense, George Soros, quello che finanzia la “No Borders” e le altre ONG che favoriscono l’ondata migratoria in Europa, la mobilitazione è stata attuata da vari paesi d’Europa da cui provenivano molti militanti per manifestare contro la barriera anti immigranti prevista dall’Austria. Le spese per il viaggio, colazione e trasferta sono state tutte finanziate dall’organizzazione con incluse le spese legali per gli arrestati.
Con un appello sul web, quelli della “No Borders” hanno organizzato una manifestazione contro il muro anti-migranti che il governo di Vienna vuole costruire al confine con l’Italia.
350 metri di barriera, annunciata e già finanziata dal governo austriaco con 1 milione e mezzo di euro.
Nessun partito politico ha aderito, ma all’appuntamento al Brennero ieri sono arrivati in seicento e sono iniziati gli scontri.
Il valico del Brennero è rimasto per ore avvolto nella nebbia dei fumogeni.
Tutti al buio, nonostante la giornata di sole.
Una lunga fila di treni bloccata al confine, spaventati i passeggeri, l’autostrada Bolzano-Innsbruck chiusa per ore, centinaia di agenti e carabinieri in tenuta antisommossa sui binari della linea internazionale a fronteggiare i militanti pro invasione.
Una guerriglia scatenata a quota 1300 Mt..
Quattro i feriti e diciotto i contusi tra le forze dell’ordine.
Nessuno di loro è grave.
Cinque invece le persone arrestate, sono tutti italiani.
Ma gli scontri al Brennero sono andati avanti per ore, come già avvenuto in Val di Susa.
Si tratta degli stessi gruppi e della medesima organizzazione che ha manifestato in Francia, a Calais, a favore dei migranti bloccati in attesa di passare in Inghilterra.
Stessa organizzazione, stessa regia e stesso finanziatore.
I manifestanti si battono per l’abolizione di tutte le frontiere e per realizzare una società “multiculturale”, omologata secondo le direttive delle centrali sovranazionali diBruxelles, conforme alle raccomandazioni dell‘ONU (quelle di sostituire le popolazioni europee), in ossequio a quanto indicato anche dal FMI (necessità di manod’opera di riserva per i paesi europei) e in totale accordo con i messaggi lanciati da Papa Francesco. Tanto d’accordo da poterli indicare come i “black blok” benedetti dal Papa.
Proprio nel punto della frontiera in cui si esce dall’Italia e si entra in Austria, si sono diretti i militanti “filo papalini” , i black bloc e gli anarchici che erano appena scesi alla stazione ferroviaria del Brennero poco prima delle 14. Molti sono arrivati anche dall’Austria e dalla Germania. I primi ad essere aggrediti, sono stati un gruppo di giornalisti che li aspettavano con le telecamere, tanto per fare una sceneggiata ad uso delle TV.
Già da vari giorni, sul Web e sui social media, la manifestazione era stata annunciata con un volantino molto esplicito: un uomo con il volto coperto dal passamontagna, con un bastone in mano e il filo spinato sullo sfondo.
Il corteo dei militanti mondialisti, molti dei quali con il volto coperto dai caschi da moto e da maschere antigas, con i bastoni in mano, si sono divisi in due tronconi: uno si è diretto verso l’autostrada bloccando la circolazione in entrambi i sensi, altri verso la linea ferrovia. Un gruppo, sempre a piedi, ha raggiunto il confine proprio dove è previsto di ripristinare i controlli e posizionare le barriere anti-migranti.
Urlando le slogan “Distruggiamo le barriere” , “No alle frontiere”, “viva il Papa”, hanno lanciato sassi e grossi oggetti contro le forze dell’ordine che hanno risposto con i lacrimogeni.
Il fumo ha avvolto il valico, mentre sono entrati in azione gli idranti che hanno fatto indietreggiare i manifestanti.
Bloccati i treni e la viabilità sull’autostrada che collega Bolzano a Innsbruck.
Gli scontri sono durati ore.
Le organizzazioni No Borders prevedono di fare altre manifestazioni in concomitanza con una campagna che verrà lanciata da varie ONG per chiedere la disobbedienza civile nel caso che i nazionalisti vincano le elezioni in Austria e si prevedono manifestazioni clamorose per contestare le scelte antimigrazione che verranno prese dal nuovo presidente austriaco.
Niente di nuovo ma rimane chiaro che, contravvenire alle direttive mondialiste dettate dagli organismi sovranazionali, rappresenta una sfida alla quale si risponde prima con le “truppe” di Soros e poi con le campagne mediatiche diffamatorie, una esperienza simile a quella già subita dal premier ungherese Viktor Orban.
Tratto da (CLICCA QUI)
 

LE ELEZIONI IN AUSTRIA – ANALISI ALTERNATIVA.

AUSTRIA - BANDIERAUN’ANALISI ALTERNATIVA ALLA VULGATA “PROGRESSISTA”
Maurizio Blondet  4 maggio 2016  0
di Paolo Borgognone
Premessa.
La FPÖ, il “diavolo”?
Le elezioni presidenziali austriache tenutesi il 24 aprile 2016 segnarono un punto di svolta nell’ambito delle relazioni politiche interne ai Paesi della Ue.
Il primo turno di queste elezioni, infatti, fu connotato dalla vittoria, nemmeno troppo a sorpresa, del candidato del Partito della Libertà Austriaco (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ), Norbert Hofer, e dal simultaneo crollo di consensi dei due partiti “istituzionali” (democristiani, ӦVP, e socialdemocratici, SPӦ) dominanti la politica interna dal 1945.
Norbert Hofer ottenne, complessivamente, 1.499.971 preferenze su un totale di 4.279.170 voti validi, pari al 35,1 per cento dei consensi.
Il candidato socialdemocratico, Rudolf Hundstorfer, dovette accontentarsi di 482.790 voti (11,3 per cento) e quello democristiano, Andreas Khol, di 475.767 preferenze (11,1 per cento).
Al secondo posto, molto staccato da Hofer, si attestò il leader della sinistra liberal-borghese austriaca, ossia il candidato “indipendente” sostenuto dai Verdi, Alexander Van der Bellen, con 913.218 voti, pari al 21,3 per cento.
Norbert Hofer vinse il primo turno delle elezioni presidenziali austriache presentando un programma variamente articolato, una sorta di connubio liberista, etnonazionalista e protezionista in fatto di controlli alle frontiere e welfare.
Il programma di Hofer e della FPÖ si caratterizzava come interno alla galassia delle proposte “populiste” e “nazionaliste” di fuoriuscita dalle logiche neoliberali e cosmopolitiche della Ue.
La FPÖ si schierava infatti, come forza politica organizzata, contro la retorica immigrazionista (frontiere aperte), omosessualista (gay friendly) e integrazionista (fine dello Stato nazionale, cosmopolitismo neolibertario quale religione identitaria di massa dei “cittadini globali” della Ue) propria dell’eterogeneo apparato politico (PPE, PSE, ECR, liberaldemocratici, Verdi e Sinistra Europea) di riproduzione del dominio della tecnocrazia liberale di Bruxelles. Soprattutto, Norbert Hofer e la FPÖ si dichiararono contrari alla ratifica, in sede europea, del Trattato di libero scambio e libero commercio Usa-Ue (TTIP, altresì detto «Nato economica»).
Norbert Hofer affermò che «se l’Austria fosse chiamata oggi a esprimersi sul suo ingresso nell’Ue, lui voterebbe contro».
Hofer infatti si pronunciò in questi termini, riguardo all’idea di Europa che aveva in mente:
Non sono certo felice del blocco sul Brennero: ma finché le frontiere esterne della zona Schengen non funzionano, dobbiamo mettere in sicurezza i nostri confini nazionali […].
Dobbiamo lavorare ancora insieme a un’Europa comune e a un’Europa sussidiaria.
Questo è il mio obiettivo: un’Europa sussidiaria che non sia uno Stato centrale.
Ma se pensiamo di costruire uno Stato centrale in cui i Paesi membri hanno poco da dire allora è difficile.
La FPÖ è un tipico partito della destra radicale nazional-populista e post-industriale europea.
Questo partito, nato nel 1955 come soggetto politico prettamente liberal-nazionale capace di alternare una retorica sciovinistica a frangenti di più schietta integrazione liberale sistemica, a partire dal 1992 intraprese una sorta di svolta politica in direzione “populista” nel momento in cui la ratifica del Trattato di Maastricht segnò «l’avvento dell’“Europa dei banchieri e dei burocrati”, contrapposta a quella, idealizzata, dei “popoli” o delle “Patrie”».
Nel 1994 la FPÖ diede vita a una campagna a sostegno del “No” all’integrazione dell’Austria nella Ue e prese a definire la nascente, e sedicente, Unione europea quale sorta di “prigione dei popoli” e “delle identità”.
Nel 2011, la FPÖ varò un programma dal titolo «Europa der Vielfalt(Europa delle diversità)» in cui teorizzò «l’Europa intesa come “un’alleanza di nazioni libere e patrie autodeterminate”», ovvero un’Europa quale «spazio di cooperazione tra popoli che mantengono le loro specificità, le loro tradizioni e la loro cultura, rifiutando una “uniformità culturale” ottenuta attraverso un processo di integrazione troppo irrispettoso delle specificità e della sovranità dei singoli Stati-nazione».
Alla battaglia contro la Ue ideologizzata in senso cosmopolitico e neoliberale, la FPÖ affiancò, negli anni Novanta del XX secolo, una retorica genericamente ostile all’Islam e un programma politico teso alla realizzazione di un welfare identitario a primazia nazionale. Scrive, in merito, Marco Mancini:
Così la FPÖ nel 1994 sostiene il «no» nel referendum sull’adesione del paese austriaco all’Unione Europea, sfruttando anche i timori per l’apertura a Est.
Il nuovo leader del partito, Heinz-Christian Strache, insiste sulla possibilità di abbandonare l’Unione europea, qualora non vengano garantiti a sufficienza gli interessi nazionali austriaci.
La nuova Europa è bollata come «troppo allargata, simile all’Unione Sovietica, cosmopolita, separata dalle radici cristiane e invasa dall’Islam».
Sotto la guida del pittoresco Jӧrg Haider, tra il 1986 e il 1992 si «accentua la svolta anti-sistema della FPÖ».
Nell’ambito del partito, infatti, «vengono […] attenuati i precedenti toni liberisti, attraverso una posizione volta a tutelare le fasce più deboli della popolazione, pur all’interno di un’economia competitiva».
I risultati della svolta anti-sistema della FPÖ non si fecero attendere. Nel 1999 infatti, a fronte del 26 per cento dei voti ottenuti alle elezioni di ottobre, «la FPÖ di Haider riesce […] a conquistare il 47 per cento dei voti operai, a fronte del 4 per cento che sosteneva il partito nel 1979».
I ceti popolari furono attratti al voto per la FPÖ in quanto tale partito si connotò come l’unica forza politica, interna al panorama austriaco, nominalmente “euroscettica”, ossia impegnata in una battaglia culturale a difesa dei valori tradizionali della cultura autoctona da ogni ipotesi di colonialismo americanocentrico. Scrive infatti Mancini:
In termini generali, è possibile affermare che l’euroscetticismo costituisce solo una parte di una piattaforma più ampia, caratterizzata dall’ostilità nei confronti delle organizzazioni internazionali, accusate di minacciare la sovranità degli Stati, e del processo di globalizzazione nel suo complesso […].
Da una parte, l’ideologia mondialista è all’origine della società multiculturale; dall’altra, il «villaggio globale» impone anche una crescente omogeneizzazione delle culture e degli stili di vita, portando a una deleteria «Cocacolonization»[11].
La FPÖ può, come del resto la maggior parte dei partiti nazional-populisti europei, essere annoverata tra i movimenti che raccolgono il consenso dei «vinti» dai processi di globalizzazione.
I suddetti «vinti» e «sradicati» della globalizzazione sono soprattutto «i maschi di classe operaia, con bassi livelli di istruzione formale e poche competenze trasferibili», mentre i «vincitori» della mondializzazione devono essere annoverati all’interno della «nuova classe media», un ceto culturalmente cosmopolita, giovanilistico e femminilizzato, i cui appartenenti possono vantare livelli di istruzione medio-alti o alti, solide reti di capitalismo relazionale in grado di facilitarne l’ingresso nell’ambito dei settori professionali “che contano” e spiccata propensione all’integrazione nella network society senza frontiere.
Gli attuali elettori popolari della FPÖ sono dunque ravvisabili in quel ceto operaio «che figurava fra i “maggiori beneficiari dell’età dell’oro” del capitalismo fordista».
Sono dunque gli appartenenti alla classe operaia tradizionale novecentesca, un tempo elettori socialdemocratici, a orientare la propria scelta politica in direzione della FPÖ.
Costoro infatti, «nell’attuale epoca di cambiamenti strutturali» e di ridefinizione delle classi sociali nell’ottica dell’egemonia della cultura neoborghese e delle nuove forme di lavoro flessibile scaturite dai mutamenti sistemici intervenuti con il “cambio di fase” del capitalismo a partire dalla fine degli anni Settanta, sono i ceti sociali maggiormente penalizzati dall’immigrazione dai Paesi dell’Est ed “extraeuropei”, nonché dalla demolizione del Welfare State organizzata dai partiti socialdemocratici e liberalconservatori sistemici segnatamente durante i “ruggenti” anni Novanta del clintonismo, del blairismo e dell’“Ulivo mondiale”.
La precedente “aristocrazia operaia” caratteristica del “trentennio glorioso” del capitalismo relativo europeo (fordista/keynesiano) fu precipitata, dalle politiche di deregulation, di privatizzazione e di internazionalizzazione attuate, in un certo qual senso paradossalmente, da quelli che sino a quel momento erano stati i suoi tradizionali referenti politici (i partiti socialdemocratici filo-Ue e filo-Nato), nel baratro della precarizzazione lavorativa, sociale, politica ed esistenziale.
Pertanto, gli operai tradizionalmente intesi (la classe operaia socialdemocratica, sindacalizzata ed economicistica “realmente esistente”), data la precaria situazione in cui versano, […] costituiscono il gruppo che è più portato a inveire contro il libero commercio e il flusso internazionale dei capitali, e di conseguenza a essere attratto dalla retorica etnocentrica della destra radicale, riflessa in uno degli slogan centrali di questa famiglia politica, quello che porta a considerare il proprio popolo prima d’ogni altra cosa (nel Front National, esso recita Les français d’abord; nel Vlaams Blok,Eigen volk eerst; nella FPÖ, Osterreich zuerst).
L’elettore-tipo della FPӦ, dunque, già alla metà degli anni Novanta era identificabile attraverso queste caratteristiche sociologiche: maschio (alle elezioni del 1995 il 62 per cento degli elettori del Partito della Libertà era composto da uomini e il 38 per cento da donne), operaio (nel 1995 «gli ex elettori socialdemocratici costituivano quasi un quarto dell’intero totale della FPӦ, e gli operai continuavano a occupare la posizione di maggiore singolo gruppo demografico dell’elettorato della FPӦ, come già era accaduto nel 1990») e «in possesso di un’educazione tecnica o professionale.
La FPӦ, che pure annoverava una folta schiera di professionisti e imprenditori tra i suoi elettori (il gruppo dei liberi professionisti e degli imprenditori era infatti secondo solo a quello degli operai tra i soggetti sociali di riferimento del Partito della Libertà), è da sempre sottorappresentata tra le fasce maggiormente istruite e presumibilmente integrate e cosmopolite della classe media austriaca (appena il 16 per cento degli elettori della FPӦ nel 1995 possedeva una laurea).
L’elettorato della FPӦ era pertanto ravvisabile quale frutto di una sorta di alleanza tra determinati settori sociali «vincenti» dei processi di globalizzazione (yuppiedi varia estrazione) e fasce sociali «sconfitte dalla modernizzazione» (precedente “aristocrazia operaia” autoctona, ceti piccolo-borghesi proletarizzati dalle politiche di riduzione dello stato sociale, contadini residenti nelle aree rurali “tradizionali” del Paese).
La FPӦ infatti, vantando i consensi di una parte consistente dell’elettorato “autonomo”, benestante e integrato della provincia austriaca e finanche di Vienna, perseverava a presentarsi e a essere percepita come partito nazional-liberale dello “sciovinismo del benessere” o partito della «destra populista escludente».
La FPӦ è dunque un partito assai diverso dalle, peraltro assai minoritarie, se si esclude (parzialmente) il caso dello Jobbik ungherese, formazioni della destra radicale nazional-socialista o «socialistavӧlkisch» europea, propugnanti un programma di «nazionalismo economico» inconciliabile con il liberal-populismo sciovinistico della FPӦ.
Scrive infatti, divulgando una rassegna di questi partiti «socialistivӧlkisch», Hans-Georg Betz:
Fra i maggiori rappresentanti di questo gruppo ci sono il Partito nazional-democratico tedesco (Nationaldemokratische Partei Deutschlands, NPD) e (per certi versi) l’Unione del popolo tedesco (Deutsche Volksunion, Dvu), il Movimento Sociale Fiamma Tricolore in Italia e il British National Party.
Ciò che li distingue da altri partiti della destra radicale è l’adozione di un programma esplicitamente socialista nazionale (o, forse più appropriatamente, vӧlkisch).
Questi partiti politici, un tempo fieramente schierati su posizioni dogmaticamente anticomuniste e finanche russofobiche, oggi sono sorprendentemente tornati a suscitare l’interesse degli “addetti ai lavori” per via del proprio rapporto privilegiato con determinate correnti politiche nazional-patriottiche del “mondo russo” e si pongono come gli interpreti di un’originale, per quanto prospetticamente limitata e insufficiente, critica “nazionalistica” del capitalismo contemporaneo. Interessante rilevare che, in un frangente storico in cui la sinistra, anche quella solitamente percepita come “alternativa” e “radicale”, ha palesemente utilizzato ogni canale mediatico e politico (dal talk show alle riviste patinate di costume e gossip, fino alla comunicazione elettorale diretta) per sbarazzarsi da ogni precedente identità comunista e anticapitalista (per indossare i più comodi panni di interclassista “movimento dei movimenti” alterglobalista, negriano e cosmopolita), siano stati i partiti della destra radicale nazional-socialista evӧlkisch a farsi portavoce delle istanze di malcontento delle classi popolari per gli effetti perversi delle politiche di globalizzazione sistemica. Scrive infatti, sul tema, Hans-Georg Betz:
Ironicamente, in un mondo nel quale le posizioni teoriche anticapitaliste sono state largamente abbandonate, l’ala nazional-socialista dell’odierna destra radicale è una delle ultime forze politiche che rendono omaggio a richieste cruciali della tradizionale sinistra socialista e comunista, di cui quest’ultima si è ampiamente sbarazzata.
Oggi sono gruppi come il Movimento Sociale Fiamma Tricolore a proclamare che non possono esserci «compromessi con il capitalismo» e ad alzare la voce contro le privatizzazioni, il «mercato selvaggio», la globalizzazione, la disoccupazione di massa e il graduale smantellamento dello Stato sociale.
In effetti, conformemente alla propria vocazione di partito dello “sciovinismo del benessere”, nel momento in cui, tra il 2000 e il 2002, la FPӦ si trovò coinvolta in una coalizione di governo con il centro democristiano (ӦVP), manifestò «una chiara subalternità rispetto ai popolari, soprattutto in politica economica, dove le misure a favore dei ceti medio-bassi latitano».
In politica estera, inoltre, «le posizioni anti-conformiste di Haider, […] basate su un crescente anti-americanismo, non sono apprezzate dalle fasce più conservatrici dell’elettorato; i finanziamenti da parte degli imprenditori decrescono sensibilmente».
Tuttavia, ciò che provoca veramente l’inquietudine delle classi dirigenti sistemiche, politiche e mediatiche, dei Paesi della Ue nei confronti della FPӦ è la nuova svolta, ispirata alla promozione dei valori tradizionali, da parte del partito. In particolare, sotto la supervisione di Andreas Mӧlzer, sin dal 1997 la FPӦ adottò un programma che archiviava il precedente anti-clericalismo liberale «a favore della ricerca di consensi presso l’elettorato cattolico-tradizionalista».
Il nuovo programma culturale della FPӦ esprimeva esplicite critiche alla modernità neoliberale e alla società cosmopolitica, accennando
ai pericoli rappresentati […] dal consumismo nichilista tipico della società contemporanea. Inoltre, il documento tace sui diritti delle donne, enfatizza il ruolo della famiglia e respinge ogni tentativo di equiparare a essa le unioni omosessuali.
In politica internazionale, da ultimo, la FPӦ ha abbracciato una linea marcatamente euroscettica e filorussa.
Già nel 2008 infatti, il Partito della Libertà aveva cominciato a volgere lo sguardo a Oriente, più precisamente alla Serbia, Paese da vari osservatori internazionali considerato «prima vittima del nuovo ordine mondiale» made in Usa.
Nel maggio 2008, la FPӦ siglò un patto di collaborazione politica con il Partito Radicale Serbo (SRS). Il leader della FPӦ, Heinz-Christian Strache, prese parte a una delegazione politica del suo partito presso il SRS, a Belgrado, parlando addirittura a una manifestazione del Partito Radicale Serbo, in Piazza della Repubblica.
Dopo la lacerazione politica intervenuta, nel settembre 2008, all’interno del SRS, la FPӦ ha rinnovato il proprio accordo di collaborazione con la frazione “riformista” e “pro-Ue” sganciatasi dal SRS e costituente, sotto la presidenza dei transfughi neoliberali Tomislav Nikolic e Aleksandar Vucic, il conservatore ed “europeista” SNS (Partito serbo del progresso).
Nel 2016 il leader della FPӦ, Heinz-Christian Strache, definì Vladimir Putin «un democratico puro» e orientò decisamente in direzione di Mosca la direttrice di politica estera del partito.
Di rimando, i media liberali “europeisti” tornarono a sproloquiare riguardo a una fantomatica «Internazionale Nera» pro-Putin e al presidente russo quale «zar dell’estrema destra europea».
Inoltre, la FPӦ sembra aver cominciato a comprendere che l’islam radicale sunnita wahhabita e l’Islam sciita rivoluzionario non siano propriamente la stessa cosa, e ha stabilito contatti con esponenti della Repubblica islamica d’Iran.
La FPӦ, insieme agli altri partiti nazional-populisti europei, viene sistematicamente demonizzata come «fascista» e «razzista» dal mainstream media perché presenta un programma «value-oriented», ossia centrato su quei valori tradizionali che rappresentano «il principale ostacolo alla continua espansione del capitalismo globalizzato».
Infatti, come scrive Jean-Claude Michéa, lungi dal connotarsi quali riferimenti culturali tipici del «ritorno della “bestia immonda”» del fascismo storico novecentesco, i suddetti valori tradizionali «trovano la loro vera origine in quel sentimento naturale di appartenenza che si oppone, per definizione, all’individualismo astratto del liberalismo moderno (perché non c’è dubbio che il liberalismo pienamente sviluppato sia incompatibile con qualunque nozione di confine o di “identità nazionale”)».
Lungi dal configurarsi come esempio dell’eterno “fascismo di ritorno” brandito a mo’ di spauracchio mediatico dal clero universitarioliberal e dalla fitta schiera di strapagati opinionisti di sinistra, i valori tradizionali delle comunità storiche e popolari originarie possono costituire benissimo – una volta ritradotti e riorientati in senso ugualitario e universalistico – il punto di partenza privilegiato del progetto socialista e della sua peculiare cura nel preservare, contro il movimento capitalista di atomizzazione del mondo, le condizioni primarie di ogni esistenza veramente umana e comune.
I valori tradizionali sono compatibili con, e finanche propedeutici al, socialismo originario quale modello di sviluppo comunitario antagonista rispetto allo stato di cose presenti ma si connotano come radicalmente incomponibili con l’«universalismo astratto e benpensante che ha sempre caratterizzato la borghesia di sinistra». Infatti, oggi, il «sistema liberale globalizzato non può crescere e prosperare se non distruggendo progressivamente l’insieme dei valori morali ai quali quel popolo di destra è ancora profondamente – e legittimamente – attaccato».
Soprattutto per questa ragione il capitalismo odierno, «fatto sociale onnicomprensivo», totalità dialettica costituita da momenti anche culturali, auspica la resa dei conti con qualsivoglia ostacolo, sia esso di natura politica (indifferentemente dalla matrice ideologica di destra o di sinistra), culturale, economica o morale, che osi immaginare di frapporsi sulla via del suo dispiegarsi inarrestabile.
 
Il “circo mediatico” liberal, lo “spirito santo”?
La FPӦ, così come il resto dei partiti nazional-populisti europei, ponendo in essere una critica meramente nazionalistica del capitalismo contemporaneo, non è la soluzione al problema.
Su questo punto, Alain de Benoist ha pronunciato parole molto significative, sostenendo che «il sovranismo non porta da nessuna parte, perché nessuno Stato da solo è in grado di far fronte alle attuali sfide planetarie, a cominciare dal controllo del sistema finanziario».
Tuttavia, la critica sovranista all’Unione europea è condivisibile poiché, nel novero delle logiche neoliberali della Ue transatlantica, «la sovranità che si toglie alle nazioni non è riportata a livello sovranazionale, ma sparisce in una sorta di buco nero».
Il buco nero della tecnocrazia, del dominio dei mercati finanziari privati internazionali e dell’egemonia culturale cosmopolitica.
Dinnanzi a questo scivolamento della sovranità nazionale nel baratro del cosmopolitismo, sempre secondo de Benoist, «è abbastanza naturale essere tentati a ripiegare sullo Stato-nazione».
Eppure, se davvero si vuole costruire un’alternativa continentale, imperiale ma non imperialistica, al dominio geopolitico, economico, militare e culturale a stelle e strisce, la soluzione non può consistere nel ripiegamento sciovinistico dell’Europa delle “piccole patrie” (inevitabilmente soggette a influenze strategiche esterne) bensì nel varo di quello che Gérard Dussouy ha definito «patriottismo paneuropeo», tradizionale e originario (ossia profondo, radicale), finalizzato alla costruzione dello Stato europeo contro la sedicente Ue di Bruxelles. Alain de Benoist dimostra di condividere l’approccio di Dussouy, nel momento in cui fa suo il motto «Per l’Europa, contro Bruxelles».
Tuttavia, e al netto delle considerazioni di cui sopra, è necessario affermare che la FPӦ e i partiti nazional-populisti europei, pur annoverando nell’ambito della propria proposta politico-programmatica e culturale i limiti summenzionati, e pur perseverando a collocarsi nel novero della vulgata huntingtoniana in materia di relazioni internazionali e liberistica in economia, si connotano come infinitamente migliori rispetto al “circo mediatico” liberal e “progressista” impegnato nella loro costante e strumentale demonizzazione a mezzo tv e stampa. Il “circo mediatico” progressista è infatti compattamente schierato contro qualsivoglia baluardo antagonistico e tradizionale (katechon) all’ordine cosmopolitico costituito.
Le stesse elezioni politiche pluripartitiche e pubblicitarie, nei Paesi occidentali a sistema “democratico liberale” (sistema dell’“alternanza unica” tra partiti liberali di centrodestra e partiti liberali di centrosinistra sistemici) sono il mezzo attraverso cui l’oligarchia cosmopolitica internazionale (Global classfinanziarizzata) impone, per tramite della pervasiva e performativa azione di diversione propagandistica attuata dalla propria “guardia bianca”, ossia il “circo mediatico” unificato (ossia, gli strati superiori della new global middle class), la perpetuazione sine die dello stato di cose (neoliberali) presenti. La stampa liberal e radical-chic combatteva all’unisono una battaglia politica “anti-populisti” in nome della perpetuazione e della radicalizzazione, in ambito economico, politico e culturale, del citato “stato di cose presenti”. Sula Repubblica, non a caso, Ezio Mauro stigmatizzava il nazional-conservatorismo del premier ungherese Viktor Orbán, reo di aver proclamato il «fallimento del liberalismo».
Mauro si doleva che, in Gran Bretagna, la campagna elettorale per la Brexit fosse appoggiata dal conservatore Boris Johnson, «sindaco della città più cosmopolita del continente, Londra».
Per Ezio Mauro infatti, la cultura politica conservatrice non avrebbe dovuto opporsi al cosmopolitismo e al liberalismo di sinistra ma si sarebbe dovuta limitare a ritardarne gli effetti di accelerazione dei processi di flessibilizzazione integrale delle masse. Mauro, aperto sostenitore della rimozione del katechon, affermò infatti:
Prezzolini, guardandosi intorno sancirebbe a questo punto la sconfitta del “vero conservatore”, come lo idealizzava lui: capace di non confondersi con i reazionari, i tradizionalisti, i nostalgici, di non rifiutare i mutamenti purché avvengano gradualmente, di conservare le istituzioni.
Secondo Mauro dunque, la cultura conservatrice avrebbe dovuto rompere definitivamente con la Tradizione, con il katechon, e aderire al complesso di riferimenti cosmopolitici caratteristici del liberalismo progressista, storicista, neoborghese.
Proprio in questo senso andava esplicandosi il vero e proprio nocciolo della critica rivolta da Mauro ai partiti nazional-populisti europei, e in particolare alla FPӦ, ossia quella di voler stringere «amicizia con Putin», un soggetto politico percepito, dai liberal di ogni sorta, quale principale oppositore geopolitico e culturale del processo di americanizzazione conformistica e antitradizionale del mondo. Ezio Mauro infatti non si scagliava soltanto contro i populisti di destra, come la FPӦ, ma anche contro quelli di sinistra, tra cui il presidente della Repubblica ceca, il socialdemocratico Milos Zeman, sprezzantemente definito, dall’editorialista de la Repubblica, «xenofobo» e, si badi bene, «russofilo».
Sulla stessa linea interpretativa de la Repubblica si connotava il quotidiano “comunista”il manifesto, nel momento in cui, denunciando esplicitamente la filosofia politica di Alain de Benoist e Aleksandr Dugin, una filosofia che «indica l’orizzonte del blocco eurasiatico e la tradizione anticosmopolitica di Mosca come direzione di marcia», condannava senz’appello «i ripetuti interventi di Salvini a favore di Putin e le bandiere russe in tutte le piazze leghiste».
La sinistra liberal e radical-chic, ossia il “circo mediatico” politicamente corretto, despecifica strumentalmente i nazional-populisti al rango di «omofobi» (parola, quest’ultima, che non ha alcuna valenza letterale, significando semplicemente «paura dell’uguale»), «maschilisti» e «trogloditi» e promuove manifestazioni di femministe appartenenti ai ceti danarosi e integrati per ribadire la propria vocazione a soggetto politico e mediatico di riferimento del ceto medio semicolto (knowledge class), ovvero del principale sostenitore sociologico dei processi di internazionalizzazione e privatizzazione dei rapporti socio-politici vigenti.
Gli esempi, in tal senso, si sprecano e vale la pena riportarne un paio.
Nella prefazione a un noto libro dedicato al “fenomeno leghista”, il telegiornalista liberaldemocratico e cosmopolita Gad Lerner denuncia la diffusione del leghismo come nuova ideologia conservatrice; capace di entrare in sintonia con le pulsioni reazionarie che si perpetuano da secoli nella società di un’Italia settentrionale guelfa profondamente segnata dalla Controriforma, e refrattaria all’autorità statale.
Chi per gioco si fa immortalare al raduno di Pontida indossando barbarici copricapo con le corna d’ispirazione celtica nella vita di tutti i giorni si fa portatore di stereotipi comunitari retrivi.
La Lega ha fornito rappresentanza politica a pulsioni antimeridionali e xenofobe, ha legittimato un revival paganeggiante del tradizionalismo cattolico anticonciliare, coltiva al proprio interno il revanscismo delle piccole patrie […].
Sembrava uno scherzo e invece … […]
E’ obbligatorio sottostare allo scherzo se si vuole far parte del gruppo; così com’è necessario autocensurare repliche sbigottite nel caso del fraseggio volgare o razzista.
A sua volta, l’antropologa Lynda Dematteo, per sottolineare la dimensione “gretta” e “retriva” in cui si sarebbe accovacciato lo stereotipo del militante leghista di provincia sottolinea che «i celibi sono numerosi nei ranghi leghisti, i militanti sono conosciuti come “quelli che non riescono a trovare la ragazza”».
L’argomentazione della Dematteo implicitamente rimandava a un presunto confronto tra due rappresentazioni sociologiche tra esse inconciliabili, ovvero:
  • un microcosmo populistico maschile “tradizionalista”, “arretrato”, “chiuso” e “gretto”;
  • un macrocosmo cosmopolitico femminile “creativo” “avanzato”, “aperto” e dunque totalmente indisponibile al confronto con coloro i quali si venissero a porre nella condizione di contraddirne o metterne in discussione i citati postulati culturali (open mind) di riferimento.
Infatti, per l’antropologa Lynda Dematteo (una ragazza appartenente alla famigerata Erasmus Generation) era assolutamente incomprensibile il nominale rifiuto leghista nei confronti della globalizzazione e del cosmopolitismo individualistico.
La retorica ambizione leghista concernente il porsi in contraddizione con gli stereotipi culturali liberali caratteristici del mondo globalizzato in chiave americanocentrica era sinonimo di appartenenza a una cultura politica che Lynda Dematteo stigmatizzava proprio perché faticava a comprendere.
Scrive infatti la citata antropologa:
Il leader del Carroccio [Umberto Bossi] vede nella globalizzazione un processo distruttore e totalitario.
L’omologazione dei bisogni presuppone l’omologazione degli uomini, la globalizzazione passa per la “società multirazziale di Benetton e McDonald’s”.
Bossi ha una visione catastrofica del futuro – i popoli saranno sacrificati al profitto – e insorge contro il modello del “cosmopolitismo individualista” che mette in concorrenza i lavoratori del mondo intero a svantaggio degli europei […].
Attraverso queste operazioni che spostano l’antirazzismo e l’antitotalitarismo dall’alveo della sinistra a quello della destra, i dirigenti della Lega Nord riutilizzano a proprio vantaggio le argomentazioni della nuova destra francese degli anni settanta.
Da allora, i militanti di estrema destra si pongono come rappresentanti di un’etnia minacciata […].
Il razzismo avanza ormai sotto la maschera dell’elogio della differenza.
Secondo la semplicistica e interessatamente pubblicitaria interpretazione del “circo mediatico” sostenitore a oltranza della globalizzazione come moto storico di progresso capitalistico e universalistico “emancipatore” dell’umanità dai precedenti vincoli “patriarcali”, “conservatori” e “comunitari”, «i patrioti che si oppongono alla distruzione del proprio popolo» sotto i colpi dell’omologazione cosmopolitica non possono risultare che degli “estremisti di destra”.
Il femminismo modaiolo e individualista dei ceti ricchi è, significativamente, tra i principali fattori di legittimazione culturale dell’odierno capitalismo assoluto ed è un ingranaggio fondamentale, quanto fondamentalista nel proprio dogmatico fideismo “nuovista”, per l’ulteriore radicalizzazione dei processi di adeguamento dell’odierna postsocietà agli stili di vita e ai desideri di consumo immediato veicolati dal “circo mediatico” postmoderno.
Studiosi assai seri, come Nancy Fraser e Charles Robin, hanno perfettamente compreso queste dinamiche e sono arrivati a conclusioni pienamente ragionevoli, argomentate e, almeno a opinione di chi scrive, condivisibili.
Nancy Fraser sostiene infatti che «il movimento delle donne una volta aveva come priorità la solidarietà sociale, oggi festeggia le imprenditrici».
Secondo la Fraser, la critica femministica al capitalismo fordista keynesiano (1945-1975) «è diventata ancella del capitalismo contemporaneo».
In altri termini, la critica posta in essere dal movimento femminista al capitalismo relativo europeo è stata integralmente assorbita nel, e si è saldata con, il capitalismo avanzato di “terza fase”, o di “terza età”, un capitalismo «“disorganizzato”, globalizzato e neoliberista» perfettamente compatibile con «la critica al paternalismo dello stato sociale» urlato a squarciagola nei propri raduni dalle femministe negli anni Settanta.
E’ in questo senso infatti che «la svolta femminista verso una politica identitaria si è alleata fin troppo strettamente con un neoliberismo in crescita», determinando il successo dell’impostazione «liberista-individualista» del femminismo e la conseguente sconfitta del versante “solidaristico” e “antagonistico” di detto movimento.
Paradossalmente ma non troppo, oggi, la critica femministica al capitalismo fordista/keynesiano e al modello patriarcale di società «aiuta a legittimare il “capitalismo flessibile”».
Il femminismo come critica artistica e “creativa” al capitalismo antitetico/dialettico novecentesco, in definitiva, si è caratterizzato come un movimento ampiamente ambiguo perché «ha promesso nuove forme di liberalismo, in grado di garantire alle donne, così come agli uomini, i “beni” dell’autonomia individuale, un ampliamento delle scelte , l’avanzamento meritocratico» ma, lungi dal porre le basi per la formulazione di una progettualità politica “altra” rispetto allo stato di cose presenti, non ha fatto che radicalizzare, in senso ultracapitalistico, individualistico e postmoderno, il precedente stato di cose presenti (capitalistico, a direzione borghese ma mitigato e mediato da consistenti “iniezioni” di sindacalismo socialdemocratico “piccista”).
Nancy Fraser ha perfettamente ragione quando afferma che le femministe hanno «direttamente contribuito a far raggiungere al capitalismo questo stadio di sviluppo» accelerato e senza futuro, di eterno presente consumistico, alienante, sfruttatore e narcisistico.
La critica femministica del capitalismo è stata, insomma, una critica cosmopolitica del capitalismo di Stato (assistenziale e paternalistico) europeo novecentesco, unita a una lamentosa critica socialdemocratica attuata dalle femministe nei confronti degli squilibri nella redistribuzione delle ricchezze e del reddito prodotti dalle dinamiche del capitalismo antitetico/dialettico (fordista/keynesiano).
Nei fatti, come del resto i loro sodali sessantottini, le femministe criticavano le ipocrisie sessuali borghesi tipiche della società dicotomica degli anni Sessanta-Settanta in nome di una liberalizzazione integrale (o modernizzazione ultraliberale postborghese) dei costumi e peroravano una integrazione socialdemocratica di genere, attraverso la leva redistributiva di reddito e ricchezze, nell’ambito della nascente e arrembante società radicale dei consumi liberi di massa. In altri termini, le femministe volevano, per se stesse, in un’ottica progressivamente orientata all’individualismo antiborghese e anticomunitario quanto profondamente liberale, liberista e libertario, “il pane ma anche le rose”.
La critica femministica del capitalismo, per dirla con Nancy Fraser, «si è risolta a favore di un (neo)individualismo liberista» e in un elogio del «progresso individuale», ossia del progresso capitalistico della Storia.
Oggi, per esempio, persino la direttrice del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, viene considerata dal “circo mediatico” liberal un esempio di “successo politico” del femminismo come movimento a favore dell’integrazione delle donne (indipendentemente dalla loro estrazione sociale e di censo) nell’ambito del sistema di relazioni socio-politiche promosso dal capitalismo speculativo. Scrive infatti, in merito, Nancy Fraser:
Lagarde è un esempio calzante delle contraddizioni del femminismo.
Il fatto è che la seconda ondata femminista, a cavallo tra fine anni Sessanta e fine Settanta, si focalizzava sul tema della redistribuzione: un approccio solidaristico vicino alla tradizione socialdemocratica.
Quando lo Zeitgeist è cambiato a favore del neoliberismo, anche il femminismo ha preso un’altra direzione: l’emancipazione legata all’equità è stata soppiantata dall’emancipazione in senso individualistico. Prendiamo proprio la Lagarde: una donna potente, ai vertici, ma che allo stesso tempo ha supportato politiche di austerity di fatto molto dannose per le condizioni delle donne.
Come ho avuto modo di scrivere ne L’immagine sinistra della globalizzazione, «discorso analogo vale per gli estemporanei raduni di femministe “indignate” (Se non ora quando), appartenenti in larga parte ai ceti benestanti delle città settentrionali, che nel 2011 belavano ostensivamente contro il sistema berlusconiano di gestione delle relazioni uomo-donna (improntate a criteri di mercificazione e di acquisizione), in nome di una piattaforma orientata al femminismo elitario, cosmopolita eglamour.
Le femministe ipocritamente “indignate” del 2011 “sputavano su Berlusconi” e su Putin credendo di porsi in tal modo come avanguardie di un movimento di liberazione di genere, mentre non predicavano che una liberalizzazione narcisistica dei costumi sessuali sul modello del loro “romanzo preferito”, Cinquanta sfumature di grigio, esattamente come le femministe “storiche” negli anni Settanta “sputavano su Hegel” (il pensatore in assoluto più incompatibile con il capitalismo e per questa ragione demonizzato come “autoritario” e “conservatore” dai liberali di sinistra à laBobbio e dalle femministe di vecchio conio) rivendicando un’aperta modernizzazione, o liberalizzazione, in chiave postmoderna e individualistica, dei costumi borghesi.
Quella delle femministe “indignate” e “in carriera” di Se non ora quando non era altro che la più palese e inequivocabile manifestazione di adeguamento conformistico e politically correct dei ceti medi contemporanei, declinati a sinistra e al femminile, ai codici di comportamento di una società totalmente liberalizzata, volgarmente disinibita, tribalizzata e atomizzata su basi di consumo e desiderio compulsivi e individualistici, nonché priva di ogni residuo pudore psicologico e identitario collettivo».
In altri termini, le femministe che, nel febbraio 2011, domandavano “indignate” la testa del “puttaniere” Berlusconi (reo di «non rispettare le donne»), nel novembre dello stesso anno accolsero con sollievo il golpe dei mercati che detronizzò il Cavaliere di Arcore insediando al suo posto il «grigiocrate» Mario Monti.
Quest’ultimo infatti, pur varando, per conto della troika capitalistica di Washington-Bruxelles, controriforme neoliberali che posticipavano in sempiterno l’età pensionistica (maschile e femminile), veniva apprezzato dalle femministe neoborghesi elettrici del PD in quanto, diversamente dal precedente “puttaniere” (che per varie ragioni non s’era azzardato a toccare il welfare pensionistico nostrano), percepito mediaticamente come “gentiluomo rispettoso delle donne”.
Non sorprende dunque, alla luce delle considerazioni di cui sopra, che il femminismo cosmopolitico e modaiolo postmoderno sia la protesi culturale su cui si imposta l’odierna critica “democratica” attuata dal “circo mediatico” liberal nei confronti dei partiti e movimenti cosiddetti “populisti euroscettici” e “filorussi” dei Paesi della Ue.
Nell’Europa postcontemporanea, affermano gli stessi aedi del cosmopolitismo liberale, «la destra è più per famiglia e religione, la sinistra più per modernizzazione e piacere della vita […].
L’Europa ha di fatto accettato l’americanizzazione».
L’americanizzazione giunse in Italia sull’onda del boom consumistico postbellico, in particolar modo attraverso la diffusione del medium tv commerciale, pubblica e privata.
Nel 1957 il giornalista statunitense Vance Packard si accorse che la tv era lo strumento attraverso cui, per tramite della pubblicità, le aziende private intendevano vendere i loro prodotti al numero più ampio possibile di utenti-consumatori.
Negli anni Ottanta del XX secolo, in Italia, attraverso le «telerisse» del talk show televisivo quale veicolo di normalizzazione conformistica e di stratificazione neomoltitudinaria del pubblico-consumatore-di-immagini (il popolo regredito al rango di “gente”, indistinta per ceto sociale di appartenenza), l’americanizzazione conobbe un processo di ulteriore radicalizzazione.
Il talk show infatti, «dove le opinioni, anche le più scardinate, sbaragliano la concretezza dei fatti», è il mallevadore del passaggio dalla democrazia borghese “dei partiti” strutturata attorno all’egemonia culturale democristiana alla democrazia postborghese (dis)articolata attorno all’egemonia della tv commerciale.
Il talk show infatti, nelle sue forme evolutive («puro, impuro e ibrido»), ha il chiaro scopo (esattamente come la pubblicità) di vendere un prodotto a un’utenza diversificata a seconda del format in questione.
Sostanzialmente, il prodotto venduto dal talk show al pubblico è la democrazia contemporanea (o postdemocrazia) come “migliore dei mondi possibili” o comunque come “impero del meno peggio” (per citare Jean-Claude Michéa).
Utilizzando ilformat del talk show infatti, il “circo mediatico” persegue l’obiettivo dell’americanizzazione del pubblico attraverso l’apologia, diretta o indiretta, del capitalismo contemporaneo, della postsocietà liquida e della free market democracy. Il talk show è il veicolo di legittimazione dell’esistente attraverso la costante riproposizione (e attualizzazione) politico-pubblicitaria della dicotomia sinistra/destra.
Il talk show ha la funzione di legittimare l’esistente attraverso la demonizzazione di qualsivoglia antagonismo allo stato di cose presenti. Inoltre, il talk show è propedeutico a «scandalizzare i borghesi» costruendo il nemico di turno dell’odierna società liberale e il conflitto tra commedianti della politica, del giornalismo e della “società civile” reclutati ad hoc, attorno a tematiche sensazionalistiche adatte più che altro a “catturare” e fidelizzare l’audience di un pubblico generalista abituato a intendere la politica come una sorta di rovesciamento, nel salotto televisivo del momento, del tifo calcistico da stadio.
Ne L’immagine sinistra della globalizzazione ho infatti scritto, quale sorta di esempio paradigmatico della «politica pop» legittimata e veicolata attraverso il salotto televisivo postmoderno del talk show: «Anche il cosiddetto, e pur sempre indimostrabile perché inesistente, “razzismo antimmigrati” della Lega, rientrava a pieno titolo nel discorso spettacolistico e televisivo del Carroccio, quale populistico collettore identitario teso a riaffermare una non meglio precisata purezza ideologica e programmatica di un movimento da sempre autorappresentatosi come “anti-sistemico” nonostante la propria collocazione per anni a pieno titolo fermamente interna alle logiche di compatibilità euroatlantiche e al Politicamente Corretto declinato a destra.
Naturalmente, il “razzismo antimmigrati” della Lega era un validissimo siero politico che, laddove inoculato con attenzione e nelle sedi televisive opportune, poteva suscitare l’effetto di “scandalizzare i borghesi” (épater le bourgeois) spettatori dei talk show patinati di Santoro, Floris, Giannini, Giulia Innocenzi e compagnia cantante.
I detti borghesi semicolti, indignati dalle “tirate” populistiche della Lega in tema di immigrazione e “diritti civili” dovevano pertanto essere “rassicurati” da qualcuno…
Questo “qualcuno” non poteva che essere il gruppo sociale degli intellettuali di sinistra (dagli editorialisti de la Repubblica a Vauro de il manifesto) pronti a tacciare di “fascismo” e “razzismo” il Salvini di turno.
Va da sé che il circo italiota della politica spettacolo, di cui la Lega e il manifesto erano entrambi soggetti parte integrante (l’una nella versione del “poliziotto cattivo”, ossia il partito “populista e razzista”, l’altro in quella del “poliziotto buono”, ossia il quotidiano “comunista/cosmopolita”), si apre e si chiude attorno a una chiacchiera televisiva (round table) utile soltanto a procrastinare a tempo indeterminato l’internità della Lega al ceto politico sistemico (un’internità assai vantaggiosa per i suoi dirigenti) e il processo di autolegittimazione e di autoapologia degli intellettuali di sinistra (il gruppo sociale più conformista del mondo, un gruppo sociale talmente dominato, cooptato e incorporato che al cui confronto «i tassisti, le prostitute, i gangster sono degli originali, […] degli avanguardisti». C. Preve, Presentazione di Minima mercatalia [Bompiani] di Diego Fusaro: intervento di Costanzo Preve, inhttps://www.youtube.com/watch?v=2C0AC-ZEboA, 16 aprile 2012) quali “baluardo democratico” e “coscienza antifascista” del Paese contro qualsivoglia tentazione “autoritaria”, “populistica”, “anti-Ue”, “anti-euro”, “anti-Nato” e così via».
Preso atto di queste considerazioni, occorre affermare, senza reticenze, che il “circo mediatico” politically correct e femminilizzato rappresenta, attraverso la perpetuazione a oltranza della simulazione politica sinistra/destra e mediante l’operazione di autoapologia posta in essere dagli intellettuali che ne formano gli agenti culturali di riferimento, il principale vettore di legittimazione sistemica dell’odierno modello di alienazione sentimentalistica, sfruttamento neocoloniale e depsicologizzazione conformistica di massa incarnato dal capitalismo americano contemporaneo.
E’ dunque oltremodo chiaro che il “circo mediatico” politically correct ha utilizzato, utilizza e utilizzerà ogni mezzo a sua disposizione per demonizzare, attraverso la sistematica reductio ad hitlerum, qualsivoglia antagonismo effettivamente pericoloso per le sorti del progetto coloniale transatlantico altresì detto Unione europea.
Per il “circo mediatico” liberal infatti, l’idea stessa di “nazione”, di comunità storica tradizionale, di “patria reale” rappresenta il nemico principale in quantotout court identificata con «un concetto che […] sconfisse l’internazionalismo proletario e le aspirazioni cosmopolitiche della borghesia e generò il fascismo».
 
Considerazioni conclusive
Ovviamente, come il lettore avrà certamente intuito una volta arrivato a questo punto, la FPӦ e i partiti “populisti” euroscettici non incarnano il “diavolo postmoderno” così come il “circo mediatico” liberal è tutto fuorché lo “spirito santo” dei giorni nostri.
La FPӦ è il partito di riferimento di parecchi «marginali» (operai tradizionali, disoccupati, piccolo-borghesi in via di proletarizzazione incipiente, valligiani carinziani, ecc.) e di non pochi «vincenti» (yuppie, liberi professionisti viennesi, imprenditori “rampanti”, ecc.) dei processi di globalizzazione, postisi in singolare alleanza contro le politiche open mind e open frontiers della sinistra e dei democristiani.
La FPӦ è inoltre un partito nazional-populista (e liberal-nazionale) che tende ad attribuire rilevanza ai valori tradizionali della cultura cattolica declinata in chiave popolare e identitaria, e per questa ragione è stigmatizzata quale possibile katechon da rimuovere a ogni costo e con ogni mezzo dagli aedi del cosmopolitismo individualistico come orizzonte destinalistico della futura umanità unificata all’insegna del libero desiderio consumistico.
La FPӦ è il partito in testa a tutti i sondaggi per le prossime elezioni parlamentari austriache.
Stando ai risultati di un rilevamento demoscopico del 9 aprile 2016, la FPӦ vincerebbe le elezioni in Austria con il 32 per cento dei voti, davanti ai democristiani e ai socialdemocratici, fermi al 22 per cento a testa.
Tuttavia, l’avanzamento elettorale della FPӦ in Austria e dei partiti nazional-patriottici in Serbia (alle elezioni del 24 aprile 2016 infatti, il Partito Radicale Serbo, SRS, l’unica forza politica nazionale che all’epoca della guerra della Nato contro la Libia scese nelle strade per protesta contro l’intervento armato occidentale mostrando striscioni con la scritta People of Serbia against Globalization, ottenne l’8,1 per cento dei consensi e la coalizione Blocco patriottico DSS-DVERI, altrettanto ostile alla Nato e alla Ue, raccolse il 5 per cento) non è sufficiente per costruire un vero e proprio movimento di liberazione anticoloniale a livello europeo. Infatti, per giungere alla definitiva liberazione dell’Europa dall’americanizzazione che la rende schiava, quella offerta dai nazional-populismi non è una soluzione praticabile.
Per liberare l’Europa dalle catene del colonialismo americanocentrico è necessario muoversi nella direzione per eccellenza e all’unanimità aborrita dall’intellighenzia di sinistra, ovvero quella di un «patriottismo paneuropeo» antisciovinistico ed eurasiatista, tradizionalista nella cultura, popolar-conservatore nella politica e socialista delle origini in economia, che sappia dare concretezza alla «visione di un’Europa imperiale come unica via contro l’omologazione mercantile, spiegando come “solo l’appartenenza posta come principio consente di difendere la causa dei popoli” e di proteggere “le nostre rispettive identità contro il sistema globale”».

VITTO E ALLOGGIO SENZA LAVORARE NE’ STUDIARE: IN ITALIA NEI CENTRI DI ACCOGLIENZA

SCUOLA DI FANCAZZISMO – VITTO E ALLOGGIO SENZA LAVORARE NE’ STUDIARE: IN ITALIA NEI CENTRI DI ACCOGLIENZA
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Quasi nessuno di loro viene da guerre o persecuzioni, tutti hanno presentato domanda d’ asilo politico – con ricorsi e controricorsi – per guadagnare tempo e intanto restare qui. La lentezza della giustizia italiana è il loro più grande alleato…
Dagospia, 26 aprile
Dice di avere diciannove anni, ma ne dimostra dieci di più.
Dice che di solito si sveglia alle nove e trascorre le sue giornate in modo semplice: « Manger , dormir , Facebook, un film».
Qualche volta, una partita di calcio.
Tiene pulita la sua stanza?
No: ci pensa la signora Antonella, la donna delle pulizie.
Si prepara da mangiare?
«No. Vedo il cibo quando è pronto. Io non cucino».
Fofana Samba, che si dichiara cittadino del Mali, conduce precisamente questo stile di vita da quando è sbarcato senza documenti dalla Libia a Vibo Valentia nel giugno di due anni fa.
Appena riemerso dal riposo del dopopranzo porge una debole stretta di mano, il tablet sottobraccio, attorno a lui tanti altri ragazzi sub-sahariani assorti nei loro smartphone all’ ombra dei pini dell’ hotel sul mare che oggi li accoglie.
Quasi nessuno di loro viene da guerre o persecuzioni, tutti hanno presentato domanda d’ asilo politico – con ricorsi e controricorsi – per guadagnare tempo e intanto restare qui.
La lentezza della giustizia italiana è il loro più grande alleato.
Fofana sorride con indolenza.
«Voglio essere un rifugiato», è la sua posizione.
In due anni un piccolo avvocato locale – Vibo Valentia è prossima al record europeo per densità di legali nella popolazione – ha presentato per lui una serie di domande di asilo.
Cento euro l’ una, pagate con l’ argent de poche dell’ accoglienza.
Tutte respinte fino al ricorso attuale, pendente da mesi, ma Fofana non ha mai fatto lo sforzo di imparare una parola d’ italiano.
Ha capito anche lui che questo Paese, per inerzia, sta riproducendo con i migranti le peggiori tare dell’ assistenzialismo degli anni 70 e 80 del secolo scorso.
Forse è la sola risposta che la macchina amministrativa sia in grado di fornire nell’ emergenza, se non altro perché è quella che conosce già.
Questo è il welfare che dà qualcosa in cambio di niente.
È un sistema che distribuisce vitalizi e protezione senza pretendere dai beneficiari lo sforzo di imparare un mestiere, né le leggi o la lingua del Paese ospitante, o anche solo senza chiedere loro una mano a tenere pulita la strada comunale qui fuori.
Una perla del Mediterraneo come Briatico ne avrebbe un gran bisogno, ora che ha di nuovo un sindaco accusato di concorso in associazione mafiosa
Non deve per forza finire così, neanche nei Paesi più aperti agli stranieri.
Perché il problema non è se accogliere o no, ma come farlo.
Il 14 aprile scorso i leader della grande coalizione al governo in Germania sono riemersi da sette ore di negoziati fra loro con un annuncio che, visto dall’ Italia, suona lunare: ci sarà una nuova legge sull’ integrazione degli stranieri.
La cancelliera ha spiegato che l’ obiettivo è rendere più facile per chi richiede asilo accedere al mondo del lavoro.
Non renderli alienati, passivi e depressi, con un futuro da accattoni o da manovalanza criminale.
Il modo per farlo è superare il welfare paternalista e chiedere ai migranti qualcosa in cambio di qualcos’ altro.
Lo Stato federale tedesco li nutre e alloggia, proprio come lo Stato italiano versa anche una piccola diaria a chi arriva senza documenti chiedendo asilo politico.
In contropartita però la Germania pretende dagli stranieri alcuni impegni specifici:
– obbligo di frequenza a corsi di lingua,
– cultura e legislazione tedesca, con regolari verifiche dell’ apprendimento;
per chi non adempie c’ è il ritiro progressivo dei benefici.
La grande coalizione di Merkel prevede anche ciò di cui avrebbero tanto bisogno Briatico e molte altre municipalità italiane che ospitano i migranti: piccole somme in più, magari un euro l’ ora, a chi svolge lavoretti per la comunità locale.
Vista dal fondo della Calabria, la Germania è lontana.
Qui di recente l’ Associazione Monteleone, una delle centinaia che gestiscono l’ accoglienza per conto delle Prefetture, si è vista costretta ad andare all’ estremo opposto.
Nella gara vinta per la gestione dei migranti deve impegnare un bilancio che vale oltre 1.100 euro al mese per ciascuno di essi.
Ha investito 85 mila euro in un centro computer nell’ hotel dell’ accoglienza, ha organizzato corsi di italiano e da elettricista, fabbro, pizzaiolo, cartongesso, guida macchine agricole, salvataggio e primo soccorso in spiaggia, teatro.
Non si è presentato quasi nessuno.
I 219 richiedenti asilo sono rimasti tutti in camera a sonnecchiare e guardare la tivù, semplicemente perché potevano. 
Alla fine, spiega la direttrice dell’ associazione Lelia Pazienza, il solo argomento per stanarne alcuni – pochi – è stato un piccolo zuccherino: 50 euro in cambio della frequenza dei corsi.
Neanche in Italia, dove i migranti in strutture «temporanee» di questo tipo sono oggi ufficialmente 82 mila, deve finire per forza così.
Non è scritto nelle leggi che debba continuare a riprodursi con gli stranieri l’ assistenzialismo responsabile del debito pubblico.
Federico Fubini per il “Corriere della Sera”
A novembre scorso il prefetto Mario Morcone, capo dipartimento per l’ immigrazione al ministero dell’ Interno, ha scritto ai sindaci invitandoli a far fare ai richiedenti asilo piccoli lavori per i Comuni.
Non è successo quasi nulla.
Da settimane esiste poi al ministero della Giustizia una bozza di decreto per velocizzare nei tribunali le pratiche sui ricorsi degli stranieri.
Eppure non approda in Consiglio dei ministri.
A Vibo Valentia intanto l’ associazione Monteleone ha fatto incetta di tic tac.
Da quando i migranti hanno scoperto che qui le medicine sono gratis, lamentano ogni giorno mal di testa, mal di pancia e giradito come nell’ Italia di prima del ticket.
Ma almeno gli stranieri, per ora, non distinguono fra un farmaco e una caramella alla menta.
 

IL TEMPO DELLA FRODE

Pubblicato da redazione in Geopolitica 5 maggio 2016
Gli americani (e quindi gli europei)frodati dall’élite che mette in pericolo il mondo
di Paul Craig Roberts
Negli ultimi anni del XXesimo secolo, la frode diventò un elemento stabile della politica estera Usa sotto una nuova forma.
Sotto falsi pretesti Washington smantellò la Jugoslavia, poi la Serbia, tutto allo scopo di portare avanti una agenda mai dichiarata.
paulcraigroberts2Nel XXIesimo secolo la stessa frode si è replicata molteplici volte: Afghanistan, Iraq, Somalia e Libia sono state distrutte; l’Iran e la Siria avrebbero fatto certamente la stessa fine se il presidente russo non avesse preso misure preventive affinché ciò accadesse.
Washington è inoltre dietro alla distruzione dello Yemen in corso, senza dimenticare che ha consentito ed attivamente finanziato la distruzione della Palestina per mano israeliana. In aggiunta si è consentito frequenti operazioni militari in Pakistan senza che alcuna guerra fosse stata dichiarata, uccidendo donne, bambini e anziani sotto la sigla di “lotta al terrorismo”.
I crimini di Washington possono rivaleggiare con quelli di qualsiasi nazione in qualsiasi momento storico.
Personalmente ho sempre lavorato a documentare questi crimini nei miei articoli e nei miei libri (pubblicati da Clarity Press).
Chiunque creda ancora nella purezza delle intenzioni della politica estera di Washington è semplicemente un caso perso.
Russia e Cina adesso hanno forgiato una alleanza che è semplicemente troppo forte per Washington. Russia e Cina insieme non consentiranno a Washington nessun ulteriore ingerenza nella loro sicurezza e nei loro interessi nazionali. I paesi che essi ritengono strategicamente importanti saranno protetti dall’alleanza.
Mentre il mondo pian piano si sveglia e comprende il male che l’Occidente oggi rappresenta, sempre più paesi cercheranno la protezione di Russia e Cina.
L’America, inoltre, sta fallendo sotto il fronte economico.
Nei miei articoli ed il mio libro “Il fallimento del capitalismo lassez­faire”, che è stato pubblicato in inglese, cinese, coreano, ceco e tedesco, ho dimostrato come Washington abbia sempre promosso e incoraggiato un processo nel corso del quale i profitti a breve termine di manager e grandi investitori, e Wall Street in senso ampio, svisceravano l’ economia reale Usa, delocalizzando la vera produzione, le conoscenze manifatturiere, le tecnologie e annesse posizioni di lavoro qualificato, verso Cina, India ed altri paesi, lasciando l’America con una economia ormai talmente spolpata che la media dei redditi delle famiglie è in costante caduta da anni.
Ad oggi il 50% degli americani di 25 anni vivono con genitori o nonni in quanto non riescono a trovare impieghi sufficienti a permettersi una esistenza indipendente.
La dura realtà è puntualmente coperta dai media prostituiti Usa, fonte di storielle fantasiose su una fantomatica ripresa economica americana. I fatti reali dell’esistenza sono talmente dissimili da ciò che i media vorrebbero far apparire che non posso che restare perplesso.
Avendo insegnato economia, essendo stato editore del “Wall Street Journal” e assistente del segretario per la politica economica del ministero del Tesoro Usa, non posso che essere perplesso dalla corruzione sistematica che governa il settore finanziario, il Tesoro, le agenzie preposte alla regolamentazione finanziaria e la Federal Reserve. Ai miei tempi sarebbero fioccati avvisi di garanzia e sentenze di tribunale contro banchieri e burocrati di alto rango.
Nell’America di oggi non esistono mercati finanziari liberi. Tutti i mercati sono manipolati dalla Federal Reserve e dal Tesoro in concerto.
Le agenzie di regolamentazione, controllate dalle stesse persone ed entità sulle quali dovrebbero teoricamente vigilare, chiudono un occhio su qualunque cosa, e anche nei rari casi in cui non lo fanno è tutto ugualmente inutile poichè non hanno alcun potere di far rispettare la legge dal momento che gli interessi privati sono sempre, immensamente, più forti delle leggi. Anche le agenzie statistiche del governo sono state corrotte. Manipolazioni sono state messe in atto allo scopo di sottostimare il tasso di inflazione.
La bugia non soltanto risparmia a Washington l’onere di reindicizzare i sussidi adeguandoli al costo della vita reale, liberando altri soldi per le infinite guerre, ma specialmente, sottostimando l’inflazione il governo fa apparire dal nulla incrementi del Pil spacciati come reali, contando l’inflazione come crescita reale, allo stesso modo, d’altronde, in cui il governo fa figurare un 5% di disoccupazione escludendo dal computo tutti gli scoraggiati che hanno cercato troppo a lungo e per i quali continuare a cercare rappresenta ormai solo una perdita di tempo. Come mai la quota di disoccupati ufficiale è del 5% ma nessuno riesce a trovare un lavoro? Come fa ad essere del 5% quando la metà delle persone di 25 anni sono costrette a vivere in casa dei parenti perché non riescono a permettersi una vita indipendente?
Come riferisce John Williams di “Shadowfacts”, se il tasso di disoccupazione includesse i cosiddetti “scoraggiati” che non cercano più attivamente impiego (perché non ci sono lavori da trovare) il tasso di disoccupazione sarebbe al 23%. La Federal Reserve, strumento privato nelle mani di un gruppetto di grosse banche, è riuscita a creare l’illusione di una ripresa economica almeno da giugno 2009 ad oggi, semplicemente stampando migliaia di miliardi di dollari dei quali non un centesimo è confluito ad alimentare l’economia, ma tutti a gonfiare i prezzi delle azioni delle multinazionali. Le gonfiature artificiali dei prezzi di azioni e obbligazioni sono le “prove” di una economia rigogliosa che la stampa finanziaria prostituita continua senza sosta a sciorinare.
Quelle pochissime persone di cultura e buon senso rimaste in America, e dico per esperienza diretta che parliamo davvero di pochissime persone, capiscono benissimo che non è mai esistita una ripresa dall’ultimarecessione e che, al contrario, una ulteriore recessione è alle porte. John Williams ha evidenziato come la produzione industriale Usa, debitamente parametrata all’inflazione, non ha mai recuperato i livelli del 2008 ed è ben lontana dal picco del 2000, ed è in costante calo. Il consumatore americano è esausto, schiacciato da debiti contratti e impossibilità a guadagnare di più.
L’intera politica economica americana è concentrata sulla tutela costante di qualche banca a New York, non nel salvataggio dell’ economia americana. Economisti blasonati e compari di Wall Street liquiderebbero il problema del declino della produzione industriale con il fatto che “l’America ormai è una economia dei servizi”. Gli economisti pretendono che tali servizi siano servizi altamente tecnologici della New Economy, ma la realtà è che camerieri, baristi, commessi part­time e servizi sanitario-inferimieristici hanno rimpiazzato gli impieghi manufatturieri ed ingegneristici e pagano una frazione rispetto a quest’ultimi, cosa che provoca un collasso della domanda aggregata in tutti gli Usa.
Se gli economisti neoliberali (cosa che non accade quasi mai pubblicamente) vengono messi spalle al muro e costretti ad ammettere i problemi, si arrampicano sugli specchi cercando il colpevole nella Cina. Non è chiaro se a questo stadio esistano possibilità di rivitalizzare l’ economia americana. Rivitalizzarla richiederebbe una ri-regolamentazione del settore finanziario e fare di tutto per riportare a casa i posti di lavoro e la produzione che sono state svendute a paesi d’oltremare. Richiederebbe, come Michael Hudson sa dimostrare nel suo ultimo libro “Killing the Host”, una rivoluzione nelle politiche fiscali che impedirebbe al settore finanziario di appropiarsi in maniera parassitaria dei surplus generati dall’attività economica reale, poi capitalizzandoli in obbligazione debitorie che garantiscono la perpetua percezione di interessi per il settore finanziario.
Il governo Usa, controllato com’è da interessi economici tra i più sporchi e immorali, non permetterebbe mai politiche che anche soltanto si azzardino a sfiorare i bonus faraonici dei managers e i profitti di Wall Street.
Il capitalismo Usa di oggi basa i suoi profitti sulla vendita dell’ economia americana e con essa tutta la gente che ne dipende per il proprio sostentamento.
Nell’America della “libertà e democrazia” il governo e i poteri economici servono interessi che non hanno assolutamente nessun punto di contatto con gli interessi del popolo americano. La svendita in corso è protetta e mascherata da un panopticon propagandistico fornito dagli economisti neoliberali, prostituti finanziari ed editoriali che si guadagnano da vivere solo e soltanto mentendo dalla mattina alla sera.
Quando l’America fallirà, a ruota la seguiranno i vassalli di Washington in Europa, Canada, Australia e Giappone.
A meno che nella peggiore delle ipotesi Washington non distrugga il mondo con un conflitto nucleare, a quel punto i rapporti mondiali di forza saranno interamente ridefiniti, e l’Occidente corrotto e dissoluto non sarà nient’altro che la parte più insignificante di questo nuovo mondo.
(Paul Craig Roberts, “Ventunesimo secolo, un’epoca di frodi”, dal blog di Craig Roberts del 18 gennaio 2016, tradotto da “Come Don Chisciotte”).
Tratto da: (CLICCA QUI)