2011.02.22 – FABIO PADOVAN: L’IMPRENDITORE E LA SUA GUERRA ALL’ITALIA

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tratto da: clicca qui
 
"Il Veneto è tornato libero": in busta paga 100 euro ai dipendenti per l’errore di Calderoli.
Fabio Padovan, spalla e mano fracassate nei sit-in, 19 processi in 20 anni, mai interrogato dai magistrati
Pensi: toh, s’è convertito.
Infatti sul tetto dello stabilimento sventola il tricolore, anche se accanto, in posizione leggermente sopraelevata, garrisce al vento il vessillo rosso e oro della Serenissima e svetta un capitello con sopra il Leone di San Marco.
«La bandiera cambia a seconda della nazionalità dell’ospite », ci tiene a chiarire Fabio Padovan, «e oggi l’ospite è lei, un italiano.
Fosse arrivato ieri, avrebbe trovato quella dell’Ecuador, perché c’era in visita una delegazione proveniente dall’America Latina».
No, non s’è convertito.
Il titolare della Otlav (Officine tornerie lavorazioni articoli vari) resta in guerra con lo Stato, come da vent’anni a questa parte, e se fossi venuto qui, nella zona industriale di Santa Lucia di Piave (Treviso), solo una settimana fa, ne avrei avuto una prova ancora più plastica: parcheggiato davanti alla fabbrica c’era il tanko usato dagli otto serenissimi per espugnare il campanile di San Marco il 9 maggio 1997, nel bicentenario dell’invasione napoleonica che affossò l’ultramillenaria Repubblica di Venezia.
Il leggendario mezzo blindato è stato il regalo per i 55 anni di Padovan, festeggiati con le maestranze e gli insorti.
ll tanko è rimasto sul piazzale della fabbrica per quattro mesi, venerato come una reliquia da una processione di pellegrini muniti di macchina fotografica.
D’altronde l’imprenditore è stato fra i più munifici sottoscrittori che hanno partecipato alla colletta per riscattare il mezzo blindato sequestrato dall’autorità giudiziaria e ora restituito a Flavio Contin, El Vècio del commando: 6.674 euro.
«All’asta hanno partecipato tre cordate, una anche della polizia di Stato, che avrebbe voluto esporlo nel proprio museo come corpo del reato».
Quando c’è di mezzo la libertà del suo Veneto, il proprietario della Otlav non bada a spese.
Da qualche giorno è particolarmente euforico per l’inedita situazione creata dal ministro della Semplificazione normativa, che nel suo furore iconoclasta ha rottamato senza volerlo un’appendice dell’Unità d’Italia.
Lo si desume dalla mail inviata al direttore amministrativo, Giovanni Tonon, e per conoscenza a tutti i dipendenti.
Oggetto: «Independensa ». Testo: «Tutti sapete come la penso. Ora, per un errore del ministro Roberto Calderoli, è stato formalmente abrogato il Regio decreto 3.300 del 4 novembre 1866, che sanciva la sottomissione di Mantova e della Repubblica di Venezia al Regno d’Italia.
Anche questo doveva capitare nella mia vita.
Il Veneto è indubbiamente e formalmente indipendente.
Adesso si dice che lo Stato italiano può far valere il diritto di usucapione nei confronti dei territori del Veneto.
Mi sembra pazzesco che uno Stato usucapisca un altro Stato, ma tant’è.
Dopo averci dormito su bene, in assoluta serenità d’animo, ho deciso che voglio dare un piccolo segnale di questo evento, che per me è comunque storico, per altri è una cazzata.
Desidero che resti il ricordo del “Giorno de l’Independensa veneta” dalla famelica lupa italica.
Quindi, Tonon, nella prossima busta paga inserisca un bonus di 100 euro.
Grazie».
Esborso a parte, ha festeggiato l’indipendenza conquistata per errore anche con un carosello di auto che, partito da Conegliano, ha toccato Asolo, Treviso, Spresiano, Montebelluna, Pieve di Soligo.
Padovan, cinque figli, laureato in economia e commercio, fondatore e presidente della Life (Liberi imprenditori federalisti eu­ropei), già deputato leghista in odore d’eresia, organizzatore delle ronde antifisco e di memorabili scontri con la Guardia di finanza che gli hanno lasciato una lunga cicatrice sull’omero, prende tutto così: di petto.
Né può essere diversamente, visto che nella vita s’è fatto guidare sempre e solo dal cuore.
Non dalle braccia: l’arto destro, deformato, è più corto del sinistro di qualche centimetro e tenuto su da una vite in titanio da quando gli aprirono la spalla durante un sit-in di protesta.
Non dai pugni: le forze dell’ordine gli fracassarono la mano sinistra con una manganellata.
Non dai muscoli: già mingherlino, perse 18 dei suoi 78 chili nelle tre settimane di sciopero della fame e della sete per far cacciare Anna Mazza, vedova del camorrista Gennaro Moccia, che era stata inviata in soggiorno obbligato a Codognè, «e da allora il mio metabolismo è cambiato per sempre».
O forse è cambiato anche perché, raccontano, per 12 anni s’è astenuto dal cibo il 20 d’ogni mese, un ex voto che pare abbia guarito dal cancro una persona cara.
Il cuore di Padovan pulsa in ogni angolo della sua avveniristica fabbrica, a cominciare dal casolìn , lo spaccio interno dove a turno quattro operaie sovrintendono allo scambio di capi d’abbigliamento usati fra i dipendenti e alla consegna della frutta biologica di stagione portata dai contadini di Breda di Piave, «perché questa è una grande fami­glia ». Sul portone ha fatto incidere un versetto in latino dal Libro di Giobbe , «Vita hominis militia est», e una frase in italiano, «Hai una pos­sibilità », «questa è mia, per ricordare che tutti sbagliano e hanno dirittoa un’occasione di per­dono ».
I carrelli elevatori, grandi tre volte rispetto ai normali muletti, sono guidati da raggi laser, girano per la fabbrica da soli, avanzano, indietreggiano, svoltano, caricano, scaricano, evitano gli ostacoli, robot insomma, che però recano dipinti sul muso nomi e soprannomi di cristiani, «si chiamano Ri­no, Ciano, Venanzio e Artemio, erano i carrelli­sti che sono andati in pensione, Artemio purtroppo è già morto, e i suoi tre compagni, quando hanno visto che li avevamo ricordati così, si sono messi a piangere come bambini ». Un altro robot posiziona i pezzi, «un paiasso dentro ’na gabia zala », ride Padovan, «Hic est Bagonghi» avverte un cartello,su calco dell’ «Hic sunt leones» dell’antica Roma e dal nome di un celebre clown, un pagliaccio dentro una gabbia gialla che però costa 600.000 euro.
«L’80% dei macchinari è progettato da noi, sforniamo una media di 12 brevettilanno, un lustro ci ho messo ad automatizzare lo stabilimento per non soccombere sotto i colpi della concorrenza cinese».
Già che c’era, l’ha dotato di aria condizionata per non far sudare gli operai e ha indicato sui muri quella che dev’essere per tutti la meta, 1,618, il “phi” simbolo della divina perfezione, il rapporto costante della sequenza di Fibonacci che si rintraccia nelle sculture di Fidia, nell’ Uomo vitruviano di Leonardo da Vinci, nelle fughe di Bach, nelle piramidi, nelle proporzioni del corpo umano.
La Otlav produce ogni anno 55 milioni di cerniere per serramenti, esporta in 58 Paesi, fattura 22 milioni, ha 172 dipendenti.
Fu fondata da Angelo Padovan, che oggi dà il nome alla strada in cui ha sede.
Era il padre dell’attuale titolare.
Anche se morì nel lontano 1990, l’operaio Roberto Gandin, che lavora qui da 35 anni, tiene ancora appeso al tornio il santino che fu stampato per il trigesimo.
E si torna sempre lì, al cuore.
Nel pavimento in plexiglas di un balconcino in stile veneziano, dal quale i visitatori si affacciano per vedere l’interno della fabbrica («da viçin l’è meio de no, i me copia i machinari»), è imprigionata l’eredità del defunto: una moneta da 100 lire, una da 50, una da 10 e una da 5, in tutto 165 lire, «quello che aveva in tasca quando fu colto da un ictus».
Disseminati intorno agli spiccioli, i campioni delle cerniere di varie fogge prodotte dal 1956 a oggi, 1,5 miliardi di pezzi, «nel mondo oltre 700 milioni di porte girano sui nostri cardini».
Siccome Fabio Padovan è stato chierichetto fino all’età di 19 anni, sulla porta del balconcino ha voluto la riproduzione del Padre Eterno dipinto nel 1505 dal veneziano Gio­vanni Bellini.
Ma non è che una delle 56 serigrafie a grandezza naturale che ornano gli ingressi di tutti gli uffici, copie fedeli di altrettanti dipinti di Tintoretto, Tiepolo, Tiziano, Veronese, Mantegna, Carpaccio, Palma il Giovane, Cima da Conegliano e altri maestri della pittura veneta.
Sulla porta del suo ufficio campeggia un’altra opera di Bellini, il ritratto del doge Leonardo Loredan, che nel 1508 difese Venezia dalla crociata di Papa Giulio II e sconfisse la Lega di Cambrai.
Sull’uscita di sicurezza figura lo sposalizio del mare di Canaletto, con tanto di maniglione antipanico che taglia a metà la facciata del Palazzo Ducale.
Soltanto su una porta, quella degli uffici amministrativi, compare una foto: ritrae Luigia Padoin, detta Gina, all’età di 16 anni, «la nostra più ve­chia operaia, oggi ne ha 81».
Ed ecco che la porta si apre e compare proprio lei in carne e ossa.
Sua madre.
Sta ancora qui tutti i giorni, fino alle 6 di sera, a occuparsi di contabilità e fornitori.
E non appena sulle labbra del figlio affiora l’antico sogno,«independensa»,parte il rimbrotto: «Tasi! Te si italian.
Vergògnete!».
Sembra un museo, più che un’azienda.
«Pensi che per stampare i dipinti sulle porte ho dovuto pagare i diritti al Louvre, alla National Gallery, al Puskin di Mosca, al Narodowe di Varsavia.
Solo i musei di Venezia mi hanno negato l’autorizzazione, rinunciando a incassare le royalty».
L’incudine all’ingresso che cosa rappre­senta?
«È del 1700, proviene dall’Arsenale di Venezia, che varava 40 navi al mese e fu il primo esempio al mondo di lavorazione a catena, con 500 anni d’anticipo su Henry Ford e sul fordismo.
Nel 1574, durante la visita di Enrico III di Francia, una galea fu costruita da zero e messa in acqua in un solo giorno per convincere il sovrano a ordinare una flotta».
Complimenti per il pavimento di marmo nella hall.
«Copia perfetta di quello della Marciana, la più bella biblioteca del mondo.
La Serenissima stampava i libri degli eretici d’ogni risma, perché il patriarca era nominato dal doge e qui l’Inquisizione non ha mai attecchito.
C’è anche un museo all’esterno che ripercorre la vita dell’universo dal Big bang fino al 1866, la vergogna italiana.
Lei cammina e impara.
I passi lungo le aiuole della preistoria equivalgono a 200 milioni di anni, quelli nella storia a 100 anni».
Che farà il 17 marzo per il 150˚dell’Unità d’Italia?
(Telefona al direttore amministrativo: «Tonon, cossa sucede el 17 de marso? Ah, go capìo… Vedarèmo»).
«Mi prenderò un giorno di festa.
Ma contro ’sta specie de unità».
Lei non si sente italiano?
«No.
Mi sentivo, cavoli.
Ho fatto il carabiniere a Cuneo e a Pordenone.
La vista del tricolore mi dava i palpiti.
La patria per me era un ideale.
A Trieste, dove ho frequentato l’università, andavo con la bandiera sotto le finestre del sindaco a protestare contro il Trattato di Osimo che svendeva l’ultima parte dell’Istria alla Jugoslavia.
“Manlio Cecovini / servo dei titini”, gridavo».
Ma da carabiniere ha giurato fedeltà all’Italia.
«All’onestà. Quel giuramento s’è infranto quando ho visto scorrere in televisione le immagini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro trucidati dalla mafia a Palermo.
Ritengo lo Stato responsabile della loro morte.
Ho un ricordo nitido del generale Dalla Chiesa che ci parla a Udine, noi schierati in caserma alle 4 del mattino, lui che ci sprona, ci infonde fiducia, pronuncia un discorso terso come una giornata di primavera, uno di quei discorsi che ti schiudono l’orizzonte.
Quella sera, vedendo il telegiornale, il mio orizzonte s’è chiuso per sempre».
Che Italia vorrebbe?
«Federalista.
Da veneto voglio decidere il futuro mio e dei miei figli senza dover chiedere a Roma».
Che cos’aveva in mente, quando nel 1994 fondò la Life?
«Proprio questo.
Avevo creato il kit del missionario, andavo in giro a catechizzare i miei colleghi, 2.000 iscritti in breve tempo, una sede perfino a Conversano, provincia di Bari.
In caso d’ispezione da parte di un qualsiasi organo dello Stato, ci avvisavamo l’un l’al­tro e 15 di noi accorrevamo in veste di assistenti fiscali del certificato».
Che significa?
«Testimoni muti.
Non c’è niente che inquieti i burocrati più dell’essere sotto osservazione.
Qualche errore lo commettono sempre.
Così eravamo noi a fare il verbale a loro.
Chiedevamo nome, cognome, grado e li denunciavamo alla stessa autorità da cui dipendevano.
Siamo arrivati al punto che le Fiamme gialle si astenevano dalle verifiche per paura».
Pazzesco.
«Poi un giorno ci schierammo in difesa di un piccolo laboratorio artigianale a Torre di Mosto, nel Veneziano, un padre che produceva sapone con i figli.
Arrivarono i finanzieri con i mitra e il colonnello ordinò: “Spazzatemi via questa marmaglia!”.
Mi toccò denunciare il ministro delle Finanze, Vincenzo Visco.
Cominciò la persecuzione, 19 processi, accuse da ergastolo: associazione sovversiva con finalità di terrorismo, istigazione a disobbedire le leggi, associazione a delinquere, apologia direato.
Ma non m’interessava nulla di quello che lo Stato italiano faceva contro di me.
Per me non esisteva più, era morto.
Per mia madre no, poveretta, per lei esisteva ancora: perquisizioni in casa alle 6 del mattino, con i carabinieri in cerca di armi.
Ed esisteva ancora anche per mio fratello Massimo, che non c’entrava nulla, ma fu tirato in ballo in­giustamente.
Be’, ci crede?
Sono stato interrogato dai magistrati una sola volta.
E ho avuto un’unica condanna, per diffamazione a mezzo stampa.
Ma allora che cosa dovrei dire io dei servizi usciti sul Gazzettino?
A commento di una mia presa di posizione, il giornalista scrisse: “Sentiamo adesso l’opinione di industriali veri”.
Veri, capisce?
Io ero la scimmia.
I miei colleghi politicamente corretti avrebbero voluto rieducarmi».
Fu accusato di tramare contro lo Stato mediante la creazione della «Polisia nathionale veneta».
«Un’altra invenzione dei giornali.
Non c’entravo niente.
Semmai sono stati i poteri dello Stato a tramare contro di me.
Volevano persino incolparmi del suicidio di un militante leghista di Bocca di Strada.
La moglie, una bidella, fu portata in un ufficio della Guardia di finanza.
Le fecero pressioni psicologiche affinché firmasse una dichiarazione in cui affermava d’aver sentito il marito accusarmi d’averlo minacciato,in quanto si sarebbe accorto che io avevo rubato i soldi dalla cassa della Lega ed ero andato in Jugoslavia a comprare le armi necessarie per la rivoluzione.
S’immagina che fine avreifatto rinchiuso all’Ucciardone di Palermo?
Ma quella piccola donna, sola, impaurita, resistette eroicamente e si rifiutò di mandarmi in galera».
E tutto questo lei come l’ha saputo?
«Anche nella burocrazia italica vi sono persone d’integrità adamantina, intelligenti, che tengono in piedi la baracca, schifate dall’andazzo generale.
Impiegati dell’Agenzia delle entrate, funzionari dell’Inps, finanzieri.
Solo che non sanno a chi riversare le loro angustie.
Hanno deciso di fidarsi di un tizio che prende botte da tutti.
E così sono venuto in possesso dei dossier confezionati su di me dai servizi segreti.
Li ho affidati a un contadino, che li ha sepolti nella cantina dove tiene appesi i salami.
A futura memoria».
Suggestivo.
Ma un po’ vago.
«Un giorno mi telefona un maresciallo delle Fiamme gialle: “Sono originario di Frosinone, mio padre mi ha educato all’onestà.
Dovrei parlarle”.
Si chiama Oscar D’Agostino.
Ha avuto il coraggio di ribellarsi.
Abbiamo dovuto nominarlo presidente onorario della Life ed eleggerlo consigliere comunale a Santa Lucia di Piave per non farlo trasferire da Treviso a Massa Carrara, per sottrarlo alle grinfie dei suoi superiori, fra cui quel colonnello Mauro Petrassi, comandante del nucleo di polizia tributaria del Veneto, arrestato, condannato e degradato per corruzione, che a Lugano aveva un conto bancario da 4 milioni di euro.
In un rapporto dei servizi segreti si legge che fra me e D’Agostino erano “sorti addirittura legami di amicizia personale”.
Pensi, hanno inventato anche il reato di amicizia!
E infatti oggi il maresciallo D’Agostino mi chiama fratello.
Perché in guerra si diventa fratelli, sa?».
Il padre di un vostro iscritto, Lino Bedendo, 68 anni, commerciante di Rovigo, morì dopo un’atroce agonia:aveva bevuto acido solforico mentre le Fiamme gialle gli stavano sequestrando la contabilità degli ultimi tre anni.
Ha senso suicidarsi per le tasse?
«Un umile riparatore di biciclette, un uomo libero.
Andarono con i mitra a ribaltargli i cassetti della camera, cercavano i registri fra le mutande e le canottiere.
Ho sempre detto e scritto che quando le leggi sono incomprensibili, inapplicabili e irrispettabili, sei costretto a difenderti, perché nel marasma fioriscono la concussione e la corruzione.
Bedendo disse al figlio: “Paga l’Ici e manda via i briganti”.
Il tenente della Finanza lo schernì: “Lei mi sembra agitato”, e ordinò ai suoi uomini: “Accompagnatelo a prendere un po’ d’aria”.
L’artigiano replicò: “Mi portate fuori da casa mia?
Guardi che se lei gratta la calcina di questi muri, vedrà sgorgare il mio sangue”.
Poi scrisse su un foglio: “Sono libero”.
Consegnò il biglietto all’ufficiale e, sotto i suoi occhi, bevve il bicchiere di veleno.
I parenti mi telefonarono disperati, partii subito per Rovigo.
Dall’auto telefonai a Renato Farina, che lavorava al Giornale.
Un uomo sta morendo di fisco, gli dissi.
E ci trovammo a recitargli insieme un’Ave Maria».
Terribile.
«Ho assorbito il dolore del mondo.
Le ho sempre prese.
Date, mai.
Sa quanti samurai veneti ho visto morire?
Una ventina nel solo 2010.
Famiglie pulite, persone buone, perbene, che tiravano la vita con i denti, che non avevano lo yacht ormeggiato a Portofino.
Chiedevano solo di poter lavorare in un Paese dove ci siano regole certe da rispettare.
Era gente che voleva vivere al riparo della legge e non arrivare a sera col terrore d’averla violata senza nemmeno saperlo».
E invece?
«Appena apri una partita Iva sei già fuorilegge.
Io vorrei che mi fosse concesso per un giorno di controllare se all’Agenzia delle entrate tengono i registri in ordine, se rispettano tutte le virgole come prescritto dalle loro regole.
E poi uno Stato non può sottrarre il 70% del reddito d’impresa.
Ma lei lo sa che hanno inventato persino le tasse sulle perdite?
Con l’Irap, introdotta da Visco, paghi il 200%, anche il 300%, perché sei tassato sul monte salari e sugli interessi passivi.
Quindi se assumi personale o se fai investimenti ricorrendo a prestiti in banca, sei penalizzato.
La Otlav versa 4-5 milioni l’anno di tasse.
Nel 2009, a causa della crisi economica, per la prima volta ha avuto una perdita di 45.000 euro, sulla quale ho dovuto pagare al fisco 250.000 euro».
Giorgio Panto, prima di morire precipitando nella laguna di Venezia col suo elicottero, lasciò polemicamente la presidenza della Life sostenendo che molti di voi non volevano semplicemente pagarle, le tasse.
«Abbiamo sempre fatto obiezione fiscale, ma alla luce del sole.
Dicevo agli iscritti: è inutile che lavoriate in nero, perché così avallate il si­stema, fate esattamente quello che lo Stato si aspetta che facciate.
Noi invece dobbiamo batterci affinché la tassazione sia portata a un livello accettabile.
E poi chi evade sia sbattuto in galera».
E quale sarebbe un li­vello accettabile?
«Il 35%. È una media eu­ropea, e fra le più alte».
Gian Antonio Stella ha scritto sul Corrie­re della Sera : «Fabio Padovan, il fondato­re della Life, ammet­te: “Certo che il Nor­dest va forte anche perché evade. E allo­ra?”».
«Ma evadere rispetto a quale legge?
Europea?
Francese?
Tedesca?
Au­striaca?
Se io pagassi il 50% di tasse, anziché il 70%, in Austria sarei considerato un benefattore.
Apra una partita Iva e cominci a confrontarsi con costi e ricavi, poi ne riparliamo.
Lo saprà Stella che Romano Prodi riuscì nell’impresa d’inventarsi una legge con effetto retroattivo che rende indetraibili i costi per l’acquisto dei terreni su cui ti costruisci la fabbrica?
Per cui io mi sono trovato a pagare una montagna di tasse per questo nuovo stabilimento che avrei potuto benissimo aprire in Romania.
Comunque l’anno scorso ho avuto una verifica fiscale e alla fine i funzionari delle imposte ci hanno definito un’azienda modello.
Si sono complimentati per come teniamo la contabilità e mi hanno persino lasciato una dedica sul registro degli ospiti».
Nei due anni in cui è stato deputato della Lega non poteva metterci una pezza?
«Appena arrivato a Roma, stavo negli uffici della Lega fino alle 2 di notte a preparare emendamenti.
Ci credevo.
Pensavo di poter cambiare qualcosa.
Finché un giorno non è andata in discussione a Montecitorio la legge per il finanziamento della Regione Siciliana. Eravamo 90 in aula.
Passò con 150 voti a favore e 30 contrari.
Il doppio dei presenti.
I deputati degli altri partiti s’erano messi d’accordo: venivano in aula una settimana ciascuno, a rotazione, e votavano chi per due, chi per tre, chi per quattro.
Io, fesso, scattai le foto dell’emiciclo semivuoto.
Il presidente della Camera, che allora era un certo Giorgio Napolitano, mi richiamò all’ordine strepitando: “Onorevole collega! Onorevole collega lassù con la macchina fotografica!”.
Feci scivolare la fotocamera nella borsetta della mia vicina di banco, Irene Pivetti, mentre i commessi si fiondavano come falchi verso il seggio per sequestrarmela.
Ecco, lì ho capito che non è una democrazia.
È solo la recita della democrazia.
Dissi a Roberto Maroni: “Mi dimetto”.
All’ultima riunione di partito, Umberto Bossi mi prese le mani fra le sue: “Sparerai contro di me.
Tu non puoi fare politica, perché sei un idealista”.
Però anni dopo, quando ho avviato con 300 volontari della Life l’autoriduzione fiscale e ci siamo messi per qualche tempo a versare le imposte secondo la media europea, pur consapevoli che poi lo Stato ci avrebbe tartassati applicando il 5% di interesi e le sanzioni, il Senatùr venne qui in Otlav a chiedermi: “Facciamo queste cose insieme”».
Oggi per chi vota?
«Ho votato un paio di volte per Silvio Berlu­coni quando era sotto attacco dei magistrati».
Allora mi sa che le toccherà votarlo per tutta la vita.
«Quando c’era, votavo per il Psdi.
Una volta ho votato per l’Ulivo, ma solo perché volevo che gli italiani provassero i comunisti, e infatti li hanno provati e si sono pentiti subito.
L’ultima volta sono tornato alla Lega Nord».
Lei vagheggia un referendum per decidere se il Veneto debba diventare uno Stato sovrano federato all’Italia. Un’utopia, non crede?
«Nel 2000, candidato alle regionali, persi la mia sfida proprio su questo punto, perché il mio avversario Giancarlo Galan proclamava nei comizi: “Abbiamo già stanziato 4 miliardi di lire per indire il referendum sull’autonomia”.
L’ha mai visto lei?
Luca Zaia, il nuovo governatore, non poteva metterlo al primo punto nel suo programma elettorale?
La volontà popolare no’ conta un casso, questa xe la verità».
Ma, scusi, ammettiamo che fosse stato indetto il referendum e che gli indipendentisti avessero vinto.
Un minuto dopo lei che faceva?
«Facevo scorta di panini e soppressa, andavo in Consiglio regionale, sprangavo le porte, mettevo i materassi per terra e annunciavo: popolo veneto, da questo momento il numero di conto corrente su cui versare le tasse è questo. Dopodiché negoziavo con Roma su quanto darle.
Ma lo decidevo io se doveva essere l’1% o il 5%.
Non è Roma che mi fa i trasferimenti dei soldi miei.
A quel punto venivano i carabinieri, buttavano giù le porte e ci portava­no in carcere.
Ma intanto c’era un popolo che aveva votato.
Non esiste altra strada per uscire da questo pantano.
Bisogna che chi è eletto rischi la prigione, anzi vada in prigione».
S’è dimenticato che Roma garantisce sicurezza, sanità, istruzione, trasporti, previdenza sociale?
«Bene, d’ora in poi non garantisce più nulla.
Paghiamo tutto noi.
Possiamo provare ad amministrarci da soli?
Se già mando avanti una famiglia e un’azienda, magari riesco a farcela.
Nel frattempo non è ammissibile che in ospedale mi fissino una visita specialistica dopo otto mesi e che i miei figli a scuola debbano portarsi la carta igienica da casa, come succede adesso».
Mi par di capire che il federalismo ormai alle viste non la entusiasmi.
«Per me non è niente.
Magari mi sbagliassi!
Non credo al federalismo calato dall’alto.
Roma non ci darà mai niente.
Dobbiamo prendercelo.
Col prodotto interno lordo raggiunto dal Veneto, il giorno dopo l’indipendenza le buste paga aumenterebbero del 30% e le pensioni anche di più.
Qui non abbiamo il petrolio: solo le braccia e le teste.
Ognuno dei miei operai sul posto di lavoro è un piccolo imprenditore, fa innovazione continuamente, risolve, migliora, decide di saldare un ferro a T anziché a L, modificando il processo produttivo.
Questo è l’unico federalismo in cui credo».
Perché il Tar del Veneto ha respinto il suo ricorso per ottenere il porto d’armi?
«Perché sono “socialmente pericoloso”. Io, un ex carabiniere. Dopo l’assalto al campa­nile di San Marco vennero a ritirarmi la Smi­th & Wesson.Walter Veltroni,all’epoca mini­stro, mi aveva indicato come il maestro degli otto serenissimi. Il giorno dopo la sentenza del Tar avevo in azienda i banditi».
Fosse stato in possesso della sua calibro 38, l’avrebbe usata?
«Da deputato mi sono battuto per far depenalizzare, limitatamente alla casa propria, il reato di eccesso colposo di legittima difesa.
Io ho il dovere, non il diritto, di difendere la mia abitazione da chi vi entra senza essere invitato.
Un uomo che si rispetti protegge la moglie, la prole, la mamma ottantenne.
Una volta che i delinquenti mi hanno legato, a che mi serve una pistola?
La devo usare prima».
Sa dirmi di che cosa è fatto il miracolo veneto?
«Di tanto, tanto, tanto lavoro.
Mio padre era operaio alla Zoppas, stava 12 ore al giorno in fabbrica, e poi di sera si metteva al suo tornio, che s’era comprato nel 1956 facendosi presta­re 400.000 lire dal suocero.
Alle 4 di mattina partiva in Vespa, andava a consegnare il ma­teriale finito e poi tornava in stabilimento.
L’ha fatto per dieci anni, sabati, domeniche, Natali, Pasque e Ferragosti compresi».
Ma chi glielo faceva fare?
«La sua famiglia era la più povera del paese: padre, madre, sei fratelli e due sole stanze.
In terza elementare la maestra gli chiese: “Padovan, perché ieri non sei venuto a scuola?”.
Lui rispose: “Perché a casa non avevamo nulla da mangiare”.
Allora l’insegnante disse agli altri alunni: “Avete sentito, bambini?
Domani portate tutti qualcosa ad Angelo”.
Lui arrossì e giurò a se stesso: “Mai più!”.
E a 8 anni andò a fare il guardiano delle vacche».
Come si batte la concorrenza cinese?
«Non servono dazi e barriere doganali.
Sarebbe sufficiente far entrare in Europa solo i prodotti che rispettano le nostre norme sanitarie.
Ho fatto analizzare alcune cerniere dei miei competitori di Shanghai: contenevano cromo esavalente, una sostanza cancerogena.
Nel 2009 ho voluto andare in Cina a rendermi conto di persona.
Paghe ferme da 10 anni.
Sindacati di regime.
Soldati armati a proteggere le cittadelle dei ricchi.
Con l’euro a 1,50 sul dollaro avevano guadagnato in otto mesi il 22% di competitività.
Non avevano la più pallida idea di che cosa fossero l’igiene, la tossicità degli elementi, le norme di sicurezza.
Come la batti un’economia simile?».
Sia sincero: lei crede nella Padania?
«Non so dove sia, non so dove cominci.
Sento dire che dovrebbe includere l’Umbria e le Marche.
Ma poi: qual è la lingua della Padania?
Si parlano 19 lingue in Italia, oltre all’italiano.
L’ufficiale dei Nocs che arrestò i serenissimi, un meridionale, sentiva gli otto che urlavano: “No’ sparè!”, non sparate. “Comandante, sono greci”, avvisò via radio.
Poi intimò loro: “Mani in alto!”.
E i Contin: “Ghémo i cai ’nte ’e man”, abbiamo i calli nelle mani.
L’ufficiale allora si corresse: “No, comandante, sono tedeschi”.
Come si fa a dire che l’Italia è unita?».
Sarebbe andato sul campanile di San Marco con gli otto?
«Bella domanda.
Loro hanno messo in gioco tutto: la libertà, la reputazione, il posto di lavoro, gli affetti, la vita stessa.
Sono eroi.
Non so se avrei avuto lo stesso coraggio».
Pensa che si arriverà alla secessione?
«No.
Avevamo nel sangue uno spirito indomito, quello che ci vide opporci alla Lega di Cambrai, cioè allo Stato pontificio, al Sacro romano impero, ai regni di Francia, di Spagna, d’Inghilterra, di Scozia e d’Ungheria, ai ducati di Milano, di Firenze, di Ferrara e di Urbino, al marchesato di Mantova, ai Cantoni svizzeri e all’impero ottomano.
Il mondo intero coalizzato contro la Repubblica di Venezia.
Ottomila contadini veneti, tutti volontari, caduti in sola battaglia.
Poi siamo diventati serenissimi.
Talmente serenissimi da addormentarci».
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