BREVI CENNI STORICI SUI PRESUPPOSTI GIURIDICI DEL “M.L.N.V”
(di Enrico Zanardo)
Contrariamente a quanto viene supposto da certe fonti il “Movimento di Liberazione Nazionale Veneto” fonda i suoi presupposti non solo su di una tradizione storica, etnica, linguistica sociale ed economica avvallata da molti siti archeologici (basti pensare all’Altino preromana) ma anche fonda la sua identità secolare in un riconoscimento sancito dal diritto Comunitario Europeo.
Il soggetto giuridico in questione è il popolo Veneto da intendersi come identità sociale linguistica e culturale facente a capo all’antica repubblica di Venezia: vediamo i tratti salienti delle vicende storico-giuridiche che portarono all’occupazione forzoso coercitiva dell’Antica Serenissima.
“Tutti questi fatti spinsero infine i magistrati veneziani di Terraferma ad autorizzare la parziale mobilitazione delle cernide e l’apprestamento difensivo di Verona, principale piazzaforte militare.
Gli occupanti francesi furono inizialmente costretti a salvaguardare le apparenze, acconsentendo a non interferire con le forze veneziane intente a riprendere il controllo delle città della Lombardia veneta.
In questo sostenute dall’accordo stipulato il 1º aprile, con cui Venezia accondiscendeva al pagamento di un milione di lire al mese a Napoleone per il finanziamento della sua campagna contro l’Austria.
In tal modo la Repubblica sperava infatti di favorire al contempo una rapida conclusione del conflitto, con il conseguente sgombero degli occupanti, e l’acquisto di una certa libertà d’azione contro i rivoluzionari lombardi.
Di fronte però al diffondersi delle sollevazioni popolari a favore di Venezia e alla rapida avanzata delle truppe venete, i francesi furono costretti a soccorrere i giacobini lombardi, svelando definitivamente le loro reali intenzioni.
Il 6 aprile un drappello di cavalleria veneziana venne fatto prigioniero a tradimento dai francesi e condotto a Brescia.
L’8 aprile il Senato fu informato di scorrerie compiute fin alle porte di Legnago da rivoluzionari bresciani dotati di divise francesi.
Il 9 aprile un proclama napoleonico invitò la popolazione della Terraferma ad abbandonare il governo di Venezia, che si era sino a quel momento premurato della sicurezza della sola capitale.
Contemporaneamente il generale Junot ricevette dal Bonaparte una lettera in cui si lamentava la generale sollevazione antifrancese della Terraferma veneta.
Il 10 aprile, quindi, i francesi, dopo aver catturato una nave veneziana carica di armamenti sul Garda, accusarono Venezia di aver rotto la neutralità istigando gli abitanti delle valli bresciane e bergamasche alla rivolta anti-giacobina.
Il generale Miollis accusò l’aggressione subita da un battaglione di volontari polacchi che era intervenuto in uno degli scontri.
Il 12 aprile venne ordinata poi la massima vigilanza nei porti veneti per la sempre più frequente presenza di navi da guerra francesi.
Il 15 aprile, infine, l’ambasciatore di Napoleone a Venezia informò la Signoria dell’intenzione francese di sostenere e promuovere le rivolte contro il tirannico governo della Repubblica.
Questa rispose emanando un bando per imporre a tutti i sudditi la calma e il rispetto della neutralità.
Il 17 aprile 1797 Napoleone firmò a Leoben, in Stiria, un preliminare di pace con i rappresentanti dell’imperatore Francesco II.
Nelle clausole segrete annesse al trattato egli già disponeva la cessione dei Domini di Terraferma all’Impero in cambio dello sgombero dei Paesi Bassi da parte di quest’ultimo.
Nello stesso giorno, però, a Verona la situazione precipitò.
La popolazione e parte delle truppe venete acquartierate, stanche dell’oppressione e dell’arroganza dei francesi, insorsero.
L’episodio, noto come pasque Veronesi, costrinse in breve le truppe d’occupazione alla difensiva, spingendole a rinchiudersi nei forti posti a presidio della città.
Nonostante poi fosse stata nuovamente rinnovata la proibizione all’ingresso di navi da guerra straniere nelle acque di Venezia, avvisando prontamente del fatto la Francia, il 20 aprile la fregata francese Le Libérateur d’Italie tentò di forzare il porto del Lido, nel probabile tentativo di saggiarne le difese.
In risposta, le potenti artiglierie del forte di Sant’Andrea distrussero la nave, uccidendone il comandante.
Il governo della Repubblica non seppe tuttavia sfruttare la situazione di momentaneo vantaggio e, sperando ancora di evitare un conflitto aperto, seppure a prezzo della perdita dei possedimenti terrestri, si rifiutò di mobilitare l’esercito e di inviare rinforzi a Verona.
Questa, infine, il 24 aprile fu costretta ad arrendersi.
Il 25 aprile, festa di San Marco, di fronte agli sbigottiti emissari veneti giunti a Graz, Napoleone, asserendo di possedere ottantamila uomini in armi e venti cannoniere pronte a rovesciare Venezia, lanciò una tremenda minaccia: « Io non voglio più Inquisizione, non voglio Senato, sarò un Attila per lo Stato Veneto. » (Napoleone Bonaparte).
Nella stessa occasione il generale accusava Venezia di aver rifiutato l’alleanza con la Francia, che le avrebbe consentito la riacquisizione delle città ribelli, al solo scopo di poter mantenere i propri uomini in armi e poter così in caso tagliare la via della ritirata ai francesi in caso di sconfitta.
Nei giorni successivi, l’armata napoleonica procedette quindi alla definitiva occupazione della Terraferma, arrivando ai margini della laguna.
Il 30 aprile una lettera di Napoleone, ormai attestatosi a Palmanova, informò la Signoria dell’intenzione da parte del generale di modificare la forma di governo della Repubblica, pur offrendosi di mantenerne la sostanza.
L’ultimatum concesso era di quattro giorni.
Nonostante tutti i tentativi di giungere ad una conciliazione, tanto che il 1º maggio Napoleone, ormai attestatosi a Marghera, era stato informato dell’intenzione veneziana di rivedere l’ordinamento costituzionale in senso più democratico, il 2 maggio giunse ugualmente la dichiarazione di guerra da parte francese.
Al contrario, il 3 maggio, Venezia revocò l’ordine generale di reclutamento per le cernide della Dalmazia.
Poi, nell’ennesimo tentativo di placare Napoleone il 4 maggio, con 704 voti favorevoli, 12 contrari e 26 astenuti, il Maggior Consiglio deliberò l’accettazione delle richieste francesi, accondiscendendo all’arresto del castellano di Sant’Andrea di Lio, responsabile dell’affondamento del Le Liberateur d’Italie, e dei Tre Inquisitori di Stato, magistratura particolarmente invisa ai rivoluzionari in quanto suprema garanzia del sistema oligarchico veneziano.
L’8 maggio il Doge si dichiarò pronto a deporre le insegne nelle mani dei capi giacobini, invitando nel contempo tutte le magistrature allo stesso passo.
Tutto questo nonostante il consigliere ducale Francesco Pesaro lo spronasse a fuggire a Zara, possedimento ancora sicuro.
Venezia d’altra parte disponeva ancora della propria potente flotta e dei fedeli possedimenti istriani e dalmati, oltre che delle intatte difese della città e della laguna.
Nel corpo della nobiltà serpeggiava però il terrore di una possibile rivolta popolare.
L’ordine diramato fu quindi quello di smobilitare le fedeli truppe di Schiavoni presenti in città.
Lo stesso Pesaro sfuggì all’arresto, ordinato per ingraziarsi Napoleone, lasciando Venezia.
La mattina 12 maggio, tra voci di congiure e dell’imminente attacco francese, il Maggior Consiglio della Repubblica si riunì per l’ultima volta.
Nonostante alla seduta fossero presenti soli 513 dei mille e duecento patrizi aventi diritto e mancasse quindi il numero legale, il doge, Ludovico Manin, aprì la seduta.
Risulta chiaro quindi come dal punto di vista della normatività mancasse il numero legale di Membri del Maggior Consiglio atto allo scioglimento della Serenissima, inoltre tengo a sottolineare come “de iure et de facto” quella francese risulta un occupazione armata del suolo aggravata da atti coercitivi contro la libertà della sua popolazione.
Interessante notare anche la storicità dell’istituzione della “Cernide” più volte citata nel suddetto passo.
Proseguiamo il nostro itinerario giuridico nella leggitimità delle rivendicazioni atte dal movimento: ”IL Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, datato New York 16 dicembre 1966 d entrato in vigore il 23 Marzo 1976.
PARTE PRIMA
Articolo 1 Tutti i popoli hanno il diritto all’autodeterminazione.
In virtù di questo diritto decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico sociale e culturale.
Articolo 2 Per raggiungere i propri fini tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazzione economica internazionale,fondata sul principio del mutuo interesse e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei mezzi per la propria sussistenza.
Articolo 3 Gli Stati Parte del presente Patto,ivi compresi quelli che sono responsabili dell’amministrazione di territori non autonomi e di territori in amministrazione fiduciaria,debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto,in conformità alle disposizioni delle Nazioni Unite
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