1963.10.09 – LA TRAGEDIA DEL VAJONT

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9 ottobre 2013… a 50 anni dal tragico evento!

Vajontil discorso del Vice Sindaco Maraga, all'inaugurazione di"Via vittime del Vajont".

A voi cari concittadini, colleghi assessori e consiglieri, senatore Piccoli, rappresentanti del volontariato locale, autorità civili militari e religiose, rappresentanti dei comitati delle vittime e dei superstiti e all’amico Roberto Padrin, sindaco di Longarone, rivolgo il mio più caloroso e cordiale benvenuto in questo luogo, che come amministrazione abbiamo individuato a perenne ricordo del legame che la nostra comunità sedicense ha con la tragedia del Vajont.
Ringrazio subito l'ass. De Paris che ha curato l'organizzazione dei momenti commemorativi di questi giorni e il Corpo Musicale Comunale per la consueta disponibilità.
Sono passati 50 anni da quella tragica notte del 9 ottobre 1963, in cui quasi 2000 persone persero la vita, in quella che è tutt’oggi la più grande catastrofe nazionale, provocata per mano dell’uomo, dove la rincorsa al profitto ebbe la meglio sulle vite umane.
La vita delle comunità di Longarone, Erto, Casso e Castellavazzo furono segnate indelebilmente da quella notte, oggi a 50 anni di distanza il lutto di quelle comunità è ancora palpabile e allo stesso tempo inscrutabile per chi come me appartiene ad una generazione lontana dal Vajont.
Impossibile comprendere il dolore di chi, adulto o bambino, rimase superstite ritrovandosi senza nulla e inerme di fronte alla tragedia che lo aveva colpito.
Possiamo solo ascoltare le parole di queste persone, senza la pretesa di poter scrutare il dolore che ancora si cela nei loro cuori.
Per la mia generazione il Vajont, di cui abbiamo sentito parlare nei racconti dei nostri genitori, dei nostri nonni che puntualmente il 9 ottobre di ogni anno ricordano quei giorni, è in realtà entrato prepotentemente nei nostri animi per la prima volta con la rappresentazione di Paolini, che riuscì a far riemergere quella che era una tragedia nazionale di cui non si voleva parlare.
Oggi però a 50 anni di distanza l’intera comunità bellunese sta riportando alla luce il ricordo, un ricordo che deve essere da monito alle future generazioni in difesa del nostro territorio.
Anche la nostra comunità è legata al Vajont e al dopo Vajont.
E’ innegabile che la forte espansione industriale dei primi anni 60 non ebbe nel Bellunese lo stesso impulso che ebbe in Italia, e il Vajont cancellò in un sol colpo la possibilità di un’occupazione locale per una popolazione che viveva di una forte emigrazione.
Ma è altrettanto vero che il Vajont determinò subito dopo la tragedia, negli anni della ricostruzione, un fortissimo impulso economico.
Grazie alla legge Vajont partì un’importante espansione industriale, che non toccò solo Longarone, ma si estese in tutta la provincia.
Anche Sedico, assieme Feltre e all’Alpago, oltre a Longarone, videro la stesura di piani di intervento che diedero vita alle aree Conib.
Ed proprio qui in quest’area industriale oggi desideriamo ricordare le vittime del Vajont intitolando una via al loro sacrificio.
Il Vajont, nella sua tragica realtà, segnò anche la nascita di una straordinaria partecipazione popolare, fatta di solidarietà umana, e che oggi possiamo considerare il primo mattone di quella che diverrà poi, dopo il terremoto del Friuli, la nostra protezione civile.
Caro Sindaco lungo questa via ha sede uno dei nostri gruppi di protezione civile.
A Sedico oltre 70 morti, recuperati nelle acque del Piave, furono posti nelle vecchia chiesa parrocchiale di Libano, dove alcuni volontari provvidero a lavarli, e a sistemarli in attesa dell’ultimo viaggio verso il cimitero di Fortogna.
Oggi uno di questi volontari è ancora vivo e voglio concludere lasciando a voi qui presenti la sua testimonianza, tratta dal libro di Gianni De Vecchi, proprio sulla parrocchia di Libano, perché non c’è modo migliore per ricordare il legame tra la nostra comunità e le comunità colpite dalla catastrofe che le parole di Ermanno Perlini, che visse in prima persona assieme ad altri quei momenti:
“La mattina successiva al disastro del Vajont (e precisamente di giovedì in quanto l'immane onda scavalcò la diga la sera di mercoledì), prima di andare al mercato (facevo l'ambulante di tessuti e abbigliamento e quel giorno dovevo andare col camion nella piazza di Conzago di Mel), passai in segheria a Mezzaterra (Sedico) e seppi solo allora da Enrico De Vecchi, col quale ero in amicizia, che «era scoppiata la diga», come in un primo momento era stato annunciato dalla radio. Andai allora verso il ponte di San Felice e vi trovai Antonio Bristot di Trichiana, pure lui ambulante ma di mercerie.
Dopo aver preso dai nostri furgoni pezze di tela di cotone utilizzate per le lenzuola e aver ricavato dei sudari, andavamo a raccogliere le salme che il Piave aveva portato fin là e che erano sparse un po' dappertutto.
Avvolti i corpi, che erano nudi, in questi teli improvvisati, li portavamo poi sul greto del fiume in modo che fossero ben visibili a chi li doveva portat via.
Mi ricordo che c’erano altri volontari impegnati in questo pietoso compito.
Il giorno successivo, incontrando il barbiere di Sedico in piazza, venni a sapere che parecchi morti del Vajont erano stai sistemati nella vecchia chiesa sconsacrata di Libàno.
Andai lassù e vi trovai la guardia comunale Bruno Bortot assiem e a tre-quattro operai del Comune di Sedico e a Gino Fiabane di Bolago.
Entrato in chiesa, vidi i corpi nudi stesi sul pavimento con le teste che poggiavano su un lungo palo in modo da restare sollevate.
Arrivò un dottore e, dato il caldo di quei giorni, fece una puntura a tutti perconservarli: ce n’erano di tutte le età e sembrava che dormissero.
Qualcuno (pochi a dire il vero) aveva ancora la vera, un anello o l’orologio: erano oggetti molto importanti perché consentivano le identificazioni.
I corpi erano tutti puliti e, in genere, per la maggior parte, interi.
Io e Fiabane abbiamo aiutato il medico.
Terminato questo compito, arrivarono due camion con le bare.
Le donne di Libàno furono straordinarie: portaroo lenzuola nuove o usate, ma tutte pulite e stirate e venivano a chiedere se avevamo bisogno di altro.
Ponemmo tutti i morti (erano 77) nelle bare non chiudendo completamente il coperchio affinché si vedesse la faccia.
Ogni tanto io e Fiabane bevevamo un po’ di cognac: era come bere acqua!
Mi impressionò una «toseta» (ragazzina) di 10-11 anni: sembrava dormisse.
Tutti i bambini piccoli erano stai posti sull’altar maggior e; a uno di 4-5 anni avevano messo un vestito blu con la farfallina rossa.
C’erano persone che venivano dal Belgio, dalla Svizzera a cercare i loro congiunti.
Sono passati oltre 40 anni, ma il ricordo è sempre vivo e mi commuovo ancora quando ne parlo.”